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Ladybug

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Iselin
view post Posted on 29/7/2013, 14:30




Allora, questo è un esperimento.
Premetto che questa storia non centra assolutamente niente con l'universo di tes, per cui non scannatemi se non trovate nessun riferimento a Daedra, spade e magie.
Si tratta di una storia che si inserisce a metà tra il giallo ed il noir, puramente inventata (insomma, una "storia originale", non una fanfiction).
Ad ogni modo, spero che vi piaccia ugualmente. Buona lettura :P


1. Ladybug

Le undici di sera erano passate da un pezzo quando la detective Liz Stone rientrò nel suo bell’appartamento in un grattacielo poco fuori il centro di Los Angeles.
Con un gesto stanco scalciò le scarpe da ginnastica, lasciò cadere la giacca di tweed sul divano immacolato e si diresse verso l’ampia finestra del soggiorno, tirando le tende.
La splendida veduta della città illuminata comparve davanti ai suoi occhi, permettendole di spaziare dalle colline di Beverly Hills fino in fondo alla baia. Le luci della città degli angeli si riflettevano all’interno dell’appartamento buio, rimbalzando sulle pareti come fuochi fatui. Era uno spettacolo meraviglioso, ma il detective lo fissava senza vederlo.
Come in sogno sentì un piccolo colpo all’altezza delle caviglie, accompagnato a breve da un miagolio.
“Ehi, dolcezza. Hai fame?”
Liz Stone si chinò per prendere il gatto in braccio e si diresse in cucina, camminando con sicurezza nel buio.
Aprì il frigorifero, tirando fuori una scatoletta di tonno per il gatto ed una birra per sé, e per un istante la stanza venne illuminata da una lama di luce. Versò il tonno nella ciotola e si sedette per terra, sorseggiando la birra con la schiena appoggiata al mobile della cucina.
“Questa giornata ha fatto schifo.” Sentenziò. Il gatto sollevò gli occhi gialli e la fissò, continuando a lappare il pesce. “Dovremmo fare uno scambio, io e te. Tu vai là fuori a farti spaccare il culo e io sto qui a fare le tue cose da gatto.”
Liz Stone svuotò d’un fiato la birra e si posò la bottiglia fredda sullo zigomo gonfio e livido.
“Perdi colpi, ragazza.” Si disse. Rimase seduta in terra per oltre dieci minuti, troppo stanca per alzarsi.
Il trillo del telefono squarciò il silenzio della casa. Emise tre squilli prima che subentrasse la segreteria telefonica.
Elizabeth Stone. Lasciate un messaggio.” D’accordo, anche il suo messaggio faceva pena. E allora?
“Liz, sono Connie. E’ tutto il giorno che ti cerco in ufficio, ma non risponde nessuno. Ho fatto un controllo su Bill Chandler, chiamami appena puoi. Oh, e ricordati di telefonare alla mamma. Lizzy, ci sei?” Bip.
Liz Stone si alzò sospirando e raggiunse il telefono per controllare la segreteria. Sei messaggi: sua madre –“Non ti vediamo mai !”– ; un tizio che cercava Robbie – sbagliato numero –; qualcuno che dopo un lungo silenzio aveva riattaccato; ancora sua madre –“Lizzy May? Sei in casa?”– ; un altro messaggio vuoto ed infine sua sorella Connie.
Alle telefonate a vuoto era abituata, perché le capitava di riceverne da quando si era lasciata il dipartimento alle spalle, qualche anno prima. Le chiamate di sua madre la inquietavano molto di più, perché erano sentore di un pranzo in famiglia.
Pranzo in famiglia voleva dire gonna al ginocchio e cardigan al posto dei jeans. Voleva dire niente pistola ed un biglietto aereo per Atlanta, Georgia. Voleva anche dire passare il weekend nella casa dove era cresciuta e tornare a Los Angeles più nervosa di quando era partita.
Perché un pranzo di famiglia voleva presente l’intera cerchia familiare, che nel loro caso era piuttosto numerosa. Liz Stone aveva tre sorelle, cinque fratelli, sette tra cognati e cognate ed almeno una dozzina di nipotini. Anzi, una dozzina più uno: a Mike era nato un altro maschietto.
“Miao?” disse il gatto che l’aveva seguita dalla cucina. Liz Stone si chinò per grattargli la testa.
“No amico, non era lui. Grazie a Dio.”
In bagno si spogliò rapidamente, gettando i vestiti nel lavandino, e si dette da fare per lavare via le macchie di sangue dalla maglia e dai jeans. Quando ebbe raggiunto un risultato mediamente soddisfacente, accese la luce sopra la specchiera per constatare i danni.
A parte lo zigomo, che aspirava a diventare la più grande prugna della California al mondo, non vide molto di interessante.
Qualche graffio ed un paio di lividi completavano la sua discreta collezione di cicatrici: due fori di entrata calibro nove rispettivamente sulla coscia e sotto il seno destro, il taglio netto di un coltello sull’avambraccio ed il segno frastagliato di un morso nell’incavo del collo.
Liz Stone sollevò una mano per accarezzarsi la spalla in corrispondenza di quell’ultima cicatrice. Erano ormai passati tre anni da quando l’aveva visto l’ultima volta. Tre anni dall’ultima volta che erano stati insieme.
Tre anni da quando aveva cercato di ucciderla.
“Non ti ha mai amata, stupida. Non lo capisci?” Disse severamente al suo riflesso. Una Liz Stone perfettamente speculare la fissò torva attraverso lo specchio. “E non guardarmi così. Sai che ho ragione.”
Gli occhi color muschio del suo doppio lampeggiarono per la frustrazione. Spense la lampada ed entrò nella doccia.
Non poteva credere che proprio lei, Liz Stone, la detective tutta d’un pezzo, potesse perdere la testa per un uomo. Eppure, dannazione, lui sembrava davvero valerne la pena!
Si ricordava ancora perfettamente della sera in cui le era suonato nella mente il primo campanello di allarme.
Era cominciato tutto con un morso leggero, sul braccio, durante un rapporto particolarmente appassionato.
Dopo averla morsa, lui era sembrato terribilmente preoccupato.
“Ti ho fatto male, Liz?” le aveva chiesto.
Allora Liz Stone gli aveva preso la mano, posandosela sotto il seno destro perché sentisse il piccolo cratere procurato da una vecchia pallottola.
“Senti questo?” aveva detto. “Ecco, questo ha fatto male.” Ed era scoppiata a ridere, mentre lui le baciava delicatamente la ferita . Poi si era sollevato sui gomiti e le aveva sussurrato una lunga frase in una lingua sconosciuta. A lui piacevano le lingue morte.
Quando aveva chiesto spiegazioni, aveva dovuto accontentarsi di un ghigno.
“Te lo spiegherò più avanti.” Le aveva sussurrato. “Quando sarò sicuro.”
“Sicuro di cosa?” Aveva chiesto Liz, ma lui non le aveva risposto.
Liz Stone spostò il viso dal getto della doccia. Acqua calda e zigomo ammaccato non andavano d’accordo.
Si spremette con decisione il flacone di shampoo sul palmo della mano, e quello emise un convinto pfffft!
Fantastico. Doveva ricordarsi di prenderne altro al prossimo giro al supermercato.
La sera in cui lui l’aveva morsa era stata anche quella in cui gli aveva confidato la sua intenzione di abbandonare una brillante carriera da detective al Dipartimento Rapine e Omicidi per conseguire la licenza da investigatrice privata.
“Mia sorella maggiore, Mary Constance, è Vice Capo. Non voglio ripercorrere la sua strada.” Aveva detto, fissando il soffitto. “Darò le dimissioni appena torno. Non manca molto. Il caso è risolto, mi rimanderanno indietro con il prossimo volo.”
A questa notizia lui era diventato improvvisamente cupo e taciturno.
“Quindi, torni a casa.” Era stato il suo unico commento.
Ma Liz Stone era decisa. Non riusciva ad immaginarsi a vivere a New York.
Lei aveva bisogno dei venditori di churros agli angoli delle strade, dei palazzi illuminati a giorno anche in piena notte, dei ragazzini sul Sunset Boulevard che occhieggiavano le bellezze in bikini, delle tavole calde piene di poliziotti in pausa e dei vip dimenticati che vivevano sulle colline. Inoltre, le mancavano terribilmente il suo gatto, la sua Chevy del ’63 azzurro cielo e la sua amatissima Colt Phyton.
Quando si erano separati, le aveva promesso di chiamarla appena possibile. Ma appena Liz Stone era tornata nella calda L.A., aveva ricevuto solo un messaggio, secondo il quale sarebbe stato irreperibile per qualche tempo.
Impegnato in una missione, diceva.
Informazioni riservate. Certo, come no?
Poi un giorno era rientrata a casa, e lui…
No! Non poteva, non voleva pensarci.
Liz Stone uscì dalla doccia, si avvolse un asciugamano sui capelli e si asciugò velocemente. Era in camera da letto ed aveva appena finito di rivestirsi quando il telefono squillò di nuovo.
Era appena passata la mezzanotte.
Raggiunse a gran passi l’apparecchio, decisa a dire il fatto suo a chiunque osasse chiamarla a quell’ora.
Elizabeth Stone. Lasciate un messaggio.” Bip.
Silenzio. Era di nuovo lo sconosciuto che non parlava. Dall’altro capo dell’apparecchio giunse un breve sospiro affranto. Liz Stone sollevò la cornetta come una furia.
“Stammi bene a sentire, pezzo di merda.” Esordì con rabbia. “Chiunque tu sia, ti conviene piantarla con queste stronzate, o comincerò a darti la caccia, e appena ti avrò trovato te ne farò pentire, chiaro?”
Detto questo sbatté con violenza la cornetta sul suo supporto e si voltò, furente.
“Miao!”
“No, non una parola.” Esclamò Liz Stone, agitando il dito in direzione del gatto. “Sono stanca e dico tutte le parolacce che voglio.”
Il gatto inclinò la testa con disapprovazione.
“Ehi, tesoro.” Liz Stone sorrise e lo prese in braccio, accarezzando il suo pelo morbido. Il gatto le spinse il musetto sotto il mento e cominciò a ronfare soddisfatto. “E’ ora di andare a nanna, dolcezza. Lizzy è stanca. Ed è anche un po’ triste.”





"…e appena ti avrò trovato te ne farò pentire, chiaro?"
“Liz…”
Tropo tardi, aveva riattaccato.
Sospirando, fissò la cornetta nera del telefono pubblico come se potesse contenere la risposta che stava cercando. Non trovandola, la riappese alla forcella, spinse la porta sudicia della cabina telefonica e si allontanò nella notte.
Come si era permessa Liz, la sua Liz, di parlargli in quel modo?
A lui, che era sempre stato il vanto dei suoi genitori. A lui, così intelligente, così colto. A lui, sempre il primo del suo corso, ai tempi di West Point.
A lui, capace di mantenere il sangue freddo sotto il fuoco nemico.
A lui, che aveva resistito nella cella di isolamento per tre anni interi, senza mai vedere la luce.
Ma no, non poteva arrabbiarsi con lei. Non con la sua bella, coraggiosa Liz.

“Coccinella, coccinella, vola via.
La tua casa è in fiamme, ed i tuoi bimbi perduti…”

La sua voce aveva un tono pulito e chiaro, da uomo istruito, in netto contrasto con i vestiti cenciosi che indossava, rubati da uno scatolone dell’Esercito della Salvezza.
Con passo agile ed elastico attraversò il cadente quartiere del Bronx in cui si era fermato. Non telefonava mai dalla stessa cabina.
Liz Stone era furba. Poteva aver fatto mettere sotto controllo il telefono di casa, ed anche quello dell’ufficio.
Con un grugnito affondò il viso nella sciarpa pulciosa che portava attorno al collo. Avrebbe dovuto dimenticarla.
Colin Mallory glielo aveva raccomandato, giusto la settimana prima. Gli aveva fatto capire, in maniera chiara e diretta, che se si fosse avvicinato ancora una volta a Mary Elizabeth Stone, nemmeno lui avrebbe potuto tenerlo fuori dal carcere.
Brav’uomo, quel Mallory. Tra tutti gli avvocati che si erano susseguiti nel corso degli anni, era il meno figlio di puttana.
Il caro Colin aveva un bello studio nell’Upper East Side, tutto mogano lucido e acciaio, con piccole, scomode sedie di design.
Buffo come lui, invece, preferisse il suo piccolo appartamento ad Harlem, in una catapecchia che si affacciava direttamente sulla Trentatreesima.
Ma Colin Mallory non poteva capire.
Lui non poteva dimenticare la sua Liz.
Liz dai grandi occhi spaventati, che si premeva una mano sul collo lacerato.
Liz, che correva su un pavimento viscido di sangue, mentre lui la inseguiva.
Liz, che non era mai andata a trovarlo in carcere.
Strinse i pugni con rabbia, finché non sentì le unghie attraverso gli spessi guanti di cuoio.
Lo avevano creduto pazzo.
Disturbo post-traumatico da stress, aveva detto il medico militare.
I Media gli avevano dato persino un nome. Il Divoratore di Brooklyn.
Ma loro non capivano.
Nessuno poteva capire.
Lui amava la sua Liz.
L’avrebbe amata sempre.
Fino alla morte.










Bene, questa è stata la mia prima storia originale; all'epoca mi pareva che fosse uscita piuttosto decentemente, anche se ora la vedo piena di pecche - sigh -
Per fortuna i prossimi capitoli migliorano, e spiegano quelle che possono sembrare delle piccole incongruenze o inesattezze (che in realtà sono volute).
L’idea mi era venuta leggendo una filastrocca inglese, “Ladybug, ladybug”, che nella versione inglese mi è sembrata davvero inquietante.
Fatemi sapere cosa ne pensate; il personaggio di Liz Stone mi piace, e vorrei ricavarne una breve storia a capitoli.
Grazie per l’attenzione :)
 
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view post Posted on 29/7/2013, 14:51
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É STUPENDO! SSSIIIIIII!

Almeno, vediamo l'altra faccia dei rapporti: quando le cose vanno male... :asd: basta sbaciucchiamenti tra i membri dei Compagni :D

Continua, continua! Finalmente una cosa diversa! Mi piace! Ci voleva proprio una storia di un'altro tipo... Un bel giallo, si :sisi:
 
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Lady Iris
view post Posted on 29/7/2013, 15:26




complimenti Ise^^ molto intrigante e coinvolgente. Mi piace questa Liz, anche se è appena accennata è un personaggio che mi intriga...e chissà chi è davvero questo personaggio misterioso e così ossessionato dalla sua figura :3
Bravissima, attendo il seguito!
 
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Iselin
view post Posted on 29/7/2013, 15:27




Ma grazie^^
allora vorrà dire che prossimamente posterò anche gli altri capitoli :fifi:
 
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view post Posted on 29/7/2013, 15:41

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Complimenti Iselin, è davvero molto interessante! Ora attendo gli altri capitoli!
 
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Iselin
view post Posted on 29/7/2013, 17:06




Ottimo, sono contenta che ti piaccia :D
Aggiungerò un capitolo a settimana, per cui non rimarrete a bocca asciutta.
 
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Iselin
view post Posted on 6/8/2013, 09:50




2. Papercut

Dannato, dannatissimo caldo.
Liz Stone reclinò il capo, lasciando che la bibita ghiacciate le scivolasse lungo la gola fin nello stomaco.
Era un’altra splendida, maledetta giornata di sole, nella calda L.A.
Era una di quelle giornate in cui vorresti solo indossare un bel bikini colorato, sbattere la tua roba in un angolo sabbioso sotto la torretta dei guardaspiaggie e tuffarti nell’acqua limpida – ma non per questo pulita – della baia.
Una di quelle giornate in cui faresti di tutto, pur di stare lontano dal sole battente, e mai, mai e poi mai ti sogneresti di appostarti sulla sommità di un parcheggio silos, con una macchina fotografica con teleobiettivo ed un misero berretto da baseball per proteggerti dalla calura.
Con un sospiro, Liz Stone si appoggiò gli occhiali da sole sulla visiera ed accostò ancora una volta l’occhio alla macchina fotografica.
Snap snap snap.
Tre scatti in rapida sequenza. Sembrava quasi di sparare al poligono.
L’unica differenza stava nei proiettili, dei semplici fermo-immagine anziché dei bussolotti di metallo e polvere da sparo, mentre i bersagli non erano sagome di carta, ma una moglie fedifraga ed il suo amante.
Strizzando gli occhi per il sole, Liz Stone controllò dallo schermo della macchinetta digitale le foto scattate. Con quelle ultime tre, era arrivata a quota venti. C’era materiale a sufficienza per permettere a Constantine Charmicheal di chiedere il divorzio.
Soddisfatta, la detective Liz Stone inforcò nuovamente gli occhiali da sole, spinse la macchina fotografica in una custodia a tracolla e si affrettò verso la rampa del parcheggio che portava ai livelli inferiori.
Erano appena le quattro del pomeriggio. Se non avesse trovato traffico, se il suo computer non avesse fatto le bizze e se si fosse sbrigata a scrivere il rapporto di chiusura del caso, forse sarebbe riuscita a fare un salto in spiaggia prima che il sole calasse.
Un rivolo di sudore le scese lungo la schiena, seguendo il percorso delle cinghie della fondina ascellare che portava nascosta sotto la camicia aperta.
Certo, nascosta per modo di dire. Una Colt Python calibro .357 è un’arma pesante e massiccia, difficile da nascondere, persino sotto una camicia di qualche taglia più grande indossata su un top attillato.
Liz Stone scese fino al secondo livello del parcheggio, dove la spettava la sua splendida Chevy del ’63, un gioiellino decappottabile azzurro cielo che sembrava sempre appena uscita dal concessionario. In qualunque altra parte del mondo, una macchina simile avrebbe attirato gli sguardi di tutti, ma non nella sfarzosa Los Angeles.
Stone accarezzò il lucido fianco di metallo ed aprì la portiera, lanciando la custodia della macchina fotografica sul lungo sedile di pelle chiara.
Mentre manovrava quella mastodontica auto lungo la rampa per poi immettersi su Jefferson Boulevard, giocherellò con le manopole della radio finché non trovò una stazione di musica rock anni ’60. Trasmettevano i Beach Boys.
If everybody had an ocean
Across the U.S.A.
Then everybody’d be surfin’
Like Californ-I-A…

Liz Stone si calcò in testa il berretto. Traffico, c’era traffico, ma meno di quanto avesse creduto.
Strombazzando ed insultando cordialmente gli altri automobilisti, si fece strada sull’asfalto rovente.
Un’altra splendida, maledetta giornata di sole.
Pareva di stare all’inferno.
Benvenuti a L.A.



“Da questa parte, prego.”
La piccola domestica sudamericana camminava troppo in fretta su quel lucido pavimento di marmo. Liz Stone si chiese come facesse a non scivolare.
El Señor Charmicheal la aspetta nello studio.” Cinguettò la donna, senza voltarsi.
Palmsville Manor, la residenza di Constantine Charmicheal, era una di quelle villone di lusso che si affacciano sulle colline, tutta un tripudio di marmi bianchi, colonnati greci ancor più bianchi e capitelli decorativi di dubbio gusto.
Liz non amava quel genere di lusso ostentato, ma apprezzava moltissimo l’aria condizionata all’interno. Appena varcata la soglia, aveva avuto l’impressione di entrare in un frigorifero.
La piccola domestica si fermò davanti ad una porta colossale in legno di Tek, più adatta ad un castello che all’entrata di uno studio. La donnina batté le nocche brune sull’uscio, annunciando che la Señorita Stone era arrivata. In pochi secondi, la detective venne introdotta nello studio.
Entrando, Liz si guardò in giro, studiando le pareti e gli elegantissimi mobili della stanza. Sembrava che nell’ultimo mese il signor Charmicheal avesse cambiato scrivania. Quello doveva essere un modello con segretaria inclusa.
“Detective Stone, suppongo?” La segretaria era un tipino di come se ne trovano tanti negli studi di Los Angeles: molto magra, molto bionda e molto appollaiata sull’angolo della scrivania.
In sostanza, molto Barbie.
“Elizabeth Stone.” Confermò la detective, stringendo la cartelletta sul fianco sinistro, contro la fondina vuota. Il bestione all’ingresso si era rifiutato di farla entrare armata. Curioso come una donna possa sentirsi nuda, senza il suo revolver.
“Oh!” La segretaria sbatté gli occhioni azzurri ed accavallò le gambette sottili che terminavano in tacchi a stiletto. “Ma allora è davvero quella Stone? Quella che ha fatto arrestare il Divoratore di Brooklyn?”
“Dov’è Carmicheal? Credevo che mi stesse aspettando qui.”
“Posso vedere la cicatrice?”
“Preferirei di no. Dov’è il suo capo?”
“È vero che ha cercato di ucciderla a morsi?”
“Non ho intenzione di rispondere.”
“Che effetto le ha fatto sapere che è stato rilasciato?”
Liz Stone sentì mille lame di carta straziarle il cuore. Graffi sottili, ma che bruciavano come il fuoco.
“Signorina, ha mai incontrato un Marine incazzato?”
La segretaria sbatté di nuovo gli occhioni, stupita da quella domanda inattesa. Con la sua dolce vocina sottile disse che no, non le era mai capitato.
“Allora la smetta di fare domande.”
Sullo studio calò un silenzio imbarazzante, durante il quale Liz Stone fissò la donnina sulla scrivania, mentre quella continuava a studiarla.
Dopo qualche minuto si udì un leggero scalpicciò nel corridoio, e la porta dello studio si aprì.
“...grazie, Dolores. Torna pure alle tue occupazioni.” Un uomo alto, di mezz’età, entrò nello studio con passo deciso.
“Ah, signorina Stone. Spero di non averla fatta attendere troppo.” Constantine Charmicheal tese una mano alla giovane investigatrice con aria falsamente gioviale.
“In effetti, è un po’ che aspetto.” Dichiarò Liz Stone, facendo sfoggio di una lustrissima faccia di bronzo. “Credevo le interessasse sapere cosa ho scoperto.”
Charmicheal si sedette sulla poltroncina dietro la scrivania assicurando che, certo, voleva sapere tutto il possibile su quella faccenda.
“La prego di parlare liberamente davanti alla signorina Lowell. È l’avvocato che si occupa della mia causa di divorzio.” Dunque, non era la segretaria.
La Lowell scivolò dalla scrivania e zampettò sui tacchi fino alla detective dallo sguardo granitico.
“Barbara Lowell, avvocato divorzista.” Si presentò, tendendo una manina così sottile che Stone avrebbe potuto facilmente accartocciarla tra le dita. “Barbara, sa, come la città di Santa Barbara, dove si sono incontrati i miei genitori.”
“Oh. Non come la bambola?” Chiese Stone, sollevando un sopracciglio scuro. Una Barbie, senza dubbio.
Senza aspettare una risposta alla sua provocazione, Liz Stone marciò fino all’ampia scrivania scura, aprì la cartelletta e ne estrasse una manciata di fotografie stampate su fogli A4, disponendoli a ventaglio.
“Giovedì.” Cominciò, puntando un dito sulla prima foto, corredata da data e ora. “Lorraine Charmicheal incontra Loius Smith alle ore quattordici e trentadue, all’incrocio tra Sunset Boulevard e Willcox Avenue…”
Era bello fare il proprio lavoro.
Ma era ancora più bello sapere che, di lì a poco, avrebbe lasciato quella villa lussuosa con un sostanzioso assegno nella tasca dei jeans.



“Miao. Miao. Miao?”
“Ti ho sentito, ti ho sentito.”
Liz Stone depositò due pesanti borse della spesa sul bancone della cucina con uno sbuffo. Subito, il gatto che l’aveva seguita nel buio della casa fin dall’ingresso balzò sui mobili, allungando il collo dentro le buste.
“Miao!”
“Lo so che hai fame.” Sbottò Stone, prendendo la bestiola e appoggiandola a terra. “Dammi il tempo di svuotare le borse.”
Con gesti stanchi, cominciò ad allineare la spesa della prima busta sul bancone della cucina.
Cibo in scatola, sempre e solo cibo in scatola. Soprattutto per il suo gatto. Tonno, pollo, manzo, qualunque cosa potesse servire a sfamare quella specie di tigre che abitava il suo salotto.
Il contenuto della seconda borsa, invece, era solo per lei: quattro confezioni da sei di birra. Ed una busta di insalata. Ehi, in fondo ci teneva, alla sua salute.
Afferrò una scatoletta a caso dal mucchio e la vuotò nella ciotola sul pavimento.
“Dì la verità, tu non sei un gatto. Sei una tigre del bengala.” Disse, quando lo vide fiondarsi sul cibo come se non mangiasse da giorni.
Per sé stappò una lattina di birra, trangugiandola a lunghi sorsi. Era calda e di pessima qualità ma, al Diavolo, aveva bisogno di bere qualcosa.
Gettò la latta vuota nel lavandino, prese la confezione già aperta e si diresse verso il soggiorno come una sonnambula.
Con un gesto secco tirò le tende bianche, per ammirare il panorama notturno di Los Angeles.
Era diventato una specie di rito. Luci spente e città accesa.
Con la distesa di palazzi illuminati che si stagliavano nel cielo rossastro, si sentiva quasi parte della vita che scorreva nelle strade.
Quasi, perché è difficile sentirsi vivi, quando si è stati sfiorati dalla morte.
Con un brivido si portò una mano al collo. Le sue dita sfiorarono una larga cicatrice frastagliata, che ricordava la forma di un morso.
Tre anni.
Quasi quattro, ormai.
Liz Stone voltò con decisione le spalle alla città degli angeli, stappò una seconda birra ed accese il televisore.
…Il collo lacerato, a Cope Lake, nel Bronx.
La lattina cadde sul pavimento con un clangore troppo sonore per essere vero. La birra schizzò ovunque, ma Liz Stone non ci fece caso.
La sua attenzione era tutta per la giornalista dalla piega perfetta, che parlava fissando dritto in camera.
…ancora nessun testimone…evidenti segni di morsi…non si esclude l’emulazione…Divoratore di Brooklyn…
Le parole della donna le giungevano solo a pezzi. Sembrava che le sue orecchie avessero deciso di non funzionare.
Davanti agli occhi le scorrevano le immagini del servizio. Una ragazza graziosa, dai capelli corti e ordinati ed il sorriso pulito. Due poliziotti del turno di notte, chini su un corpo femminile nascosto sotto un lenzuolo, da cui sbucavano solo le scarpe da ginnastica rosa. Una panoramica della famiglia in lacrime, la madre grassa e patetica ed il padre apatico.
E poi lui.
Il suo viso comparve a tradimento sullo schermo, immortalato nelle foto segnaletiche.
Liz Stone si lasciò sfuggire un singulto e piombò a sedere sul divano candido, tirandosi le ginocchia al petto. Improvvisamente la cicatrice riprese a bruciarle, come la notte in cui lui le aveva affondato i denti nell’incavo del collo, strappandole le vene e squarciandole i muscoli.
Credeva di poterlo dimenticare.
Ed ora, invece, eccolo lì.
Eccolo che sorrideva, fissandola dallo schermo del televisore. Era come se il suo spirito corrotto potesse vederla, attraverso gli occhi immobili di quella vecchia foto trasmessa in mondovisione.
Il telefono trillò, facendola sobbalzare per lo spavento. Tre squilli, prima che subentrasse la segreteria.
Silenzio.
Liz Stone tremò. Le capitava spesso di ricevere telefonate vuote, e credeva di essersi abituata. Ma quella sera era diverso.
Quella sera le sembrava che, dall’altra parte, fosse in agguato un predatore, pronto a balzarle addosso al minimo movimento.
Respira, ragazza, respira.” Pensò, premendo la fronte sulle ginocchia.
Un lieve scatto la avvisò che la chiamata era stata interrotta.
Va tutto bene. Non è lui. Non è qui.
Il telefono squillò di nuovo, pietrificandola. Liz Stone rimase in attesa.
“Liz? Sei in casa?” La voce di suo fratello Philip irruppe nell’appartamento con la forza di un uragano. “Lizzy?”
Con un movimento convulso, Liz Stone si lanciò sul cordless di plastica bianca, aggrappandoglisi come se fosse un’ancora di salvezza.
“Phil!” Gemette con voce strozzata.
“Liz, grazie a Dio sei in casa.” Philip aveva un tono troppo cupo e serio, persino per lui. “C’è una cosa che dovresti vedere sul canale trentasei.”
“Lo so.” Mormorò Liz Stone. “Lo sto guardando adesso.”
“Non sono di pattuglia, questa notte. Vuoi che venga da te?” Phil era un poliziotto, come quasi tutti i membri della loro famiglia. Aveva comprato casa nei malfamati quartieri di L.A. abitati dai latinos, a South Central.
“No.”
“Vuoi che chiami Connie?” Chiese ancora lui, riferendosi alla loro altra sorella che viveva a Los Angeles.
“No, Phil. Sto bene, davvero. Voglio stare sola.” Mormorò.
Lasciando scivolare il telefono nei recessi del divano, Liz Stone si strinse tra le braccia, rannicchiandosi in posizione fetale.
La sagoma della pistola le premette sul fianco, tagliandole la carne sotto i vestiti.
Non voleva nessuno intorno.
Tutto quella che voleva era stare sola.
Sola, al sicuro.




“Coccinella, coccinella, vola via…”
Le sue dita si muovevano con gesti esperti. L’otturatore scivolò con un tonfo sordo sul tavolo di legno. Subito venne raccolto ed allineato accanto agli altri componenti del fucile, sul panno di velluto nero.
Il lubrificante per armi aveva un odore quasi sensuale, dopo tanti anni di assenza.
Era come il profumo di un’antica amante. Quanto gli era mancato, durante la sua prigionia!
“…la tua casa è in fiamme, ed i tuoi bimbi son tutti morti…”
Il piccolo televisore acceso ronzava come un calabrone, mentre cercava di mantenere il segnale. Questi sono i rischi, quando rubi qualcosa al banco dei pegni: non sai mai quello che ti capita.
Ma lui era un uomo semplice. Gli bastavano poche cose, per essere felice.
Il suo Remington 700 con mirino telescopico, caricato con proiettili a punta cava.
Il suo piccolo appartamento in un quartiere periferico di Harlem, New York.
Il sapore metallico del sangue della sua vittima.
La piatta scatola di un pasto da asporto di Pizza Hut.
E la sua Liz.
“…Solo la piccola Annie si salvò…”
Ecco, quello che mancava davvero per completare il suo felice quadretto, era la sua bella, adorata Liz.
Non poteva fare a meno di lei. Non importava quanto quell’incapace del suo avvocato e quell’inutile psichiatra cercassero di convincerlo.
Erano passati tre anni, otto mesi, due settimane, tre giorni e quattordici ore da quando l’aveva vista l’ultima volta. Avrebbe potuto aggiungere al conto anche ventitré minuti.
Ma non era così pazzo da contare i minuti. Vero?
“…perché sotto una pentola lei strisciò.”
Con uno scatto secco riassemblò il fucile e lo ripose nella custodia nera. Nessuno lo aveva pulito, durante i tre anni che aveva passato in isolamento. Una buona arma ha bisogno di manutenzione.
Lo diceva sempre, il suo Sergente Istruttore.
Certo, prima che un proiettile gli perforasse il cranio.
Ma quella era storia passata.
“… Solo la piccola Annie si salvò, perché sotto una pentola lei strisciò.”
Si alzò dalla sedia di legno, reggendo tra le braccia la custodia del fucile. Aveva bisogno di tenersi impegnato.
Liz non aveva risposto al telefono.
L’aveva chiamata una decina di minuti prima, mentre sul piccolo schermo scolorito del suo televisore, una bella giornalista parlava di quell’assassinio a Cope Lake.
Chissà se anche Liz stava guardando quel notiziario. Gli piaceva immaginarla mentre osservava le immagini sullo schermo, mentre riconosceva la sua foto segnaletica e si rendeva conto che, in fondo, quella ragazzina morta le somigliava maledettamente.
“… Solo Annie si salvò…”
Continuando a canticchiare, si diresse verso il telefono. Perso nei propri pensieri, non lo aveva sentito squillare.
“Dimmi che non sei stato tu.” Proruppe Colin Mallory.
“Non sono stato io.” Colin era il suo attuale avvocato. Aveva perso il conto di quanti lo avevano preceduto.
“Non mentirmi. È morta una ragazza, a Cope Lake, e tutti i telegiornali fanno il tuo nome.”
Povero Colin. Sembrava agitato.
Mugolando il motivetto di una filastrocca per bambini, si diresse verso l’armadio a muro. Quando lo aprì, una distesa di camicie slabbrate, vecchie divise e scarpe impolverate si offrì al suo sguardo.
“Non sei uscito di casa, vero?”
“Sono le dieci e mezzo di sera, Colin.” Rispose. Mallory odiava quando lui lo chiamava per nome. “Dove pensi che possa andare un uomo agli arresti domiciliari, alle dieci e mezzo di sera?”
Il pannello sul fondo dell’armadio scivolò di lato, rivelando un vano nascosto. Con il suo contenuto, avrebbe potuto fare concorrenza ad un’armeria.
“Spero che tu non mi stia mentendo. Potrei mandare un paio di agenti a controllare che tu sia in casa. Lo sai questo, vero?”
“Lo so bene, Colin.” La sua mente corse verso il dispositivo di controllo appoggiato sul tavolo. Avrebbe dovuto rimettersi quella stupida cavigliera. Non poteva certo rischiare che Mallory scoprisse le sue passeggiate clandestine.
“Sarà meglio che non te lo scordi.” Con un grugnito, il suo avvocato chiuse la chiamata.
“Non me lo scordo.” Disse ad alta voce.
Le sue parole echeggiarono nell’appartamento semivuoto.
Non si sarebbe scordato nulla, mai.
Né l’addestramento spaccaossa dell’esercito, né la cella soffocante dell’isolamento, né gli sguardi della ragazzina che somigliava tanto alla sua Liz.
Non poteva dimenticare. Quella voce, che mormorava di continuo nei recessi della sua mente, non glielo avrebbe permesso.
Un lento sorriso gli si aprì sul volto magro, sciupato da anni di prigionia, ma ancora attraente, mentre le sue labbra si schiudevano per mormorare il verso di una vecchia filastrocca.
“…Solo la piccola Lizzy si salvò,
perché sotto un tavolo lei strisciò…”










Ecco qua il secondo capitolo di questa strana storia strampalata, senza spade e senza draugr :asd:.
Il titolo è preso dall’omonimo brano dei Linkin Park, e che trovo adattissimo per il personaggio di “Lui”, sia per il testo che per le atmosfere cupe del motivo strumentale.
La canzoncina che ripete ossessivamente è leggermente diversa dal primo capitolo, perché ho preferito interpretarla anziché tradurla, per renderla un pelino più tragica (quindi la mia versione è diversa dall'originale, ma non si discosta poi così tanto).
 
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RyderTheBard
view post Posted on 6/8/2013, 11:23




Bellissimo Iselin, come sempre :sisi:

Tra l'altro vedo con piacere che ti piacciono i Linkin Park, di cui anchio sono un fan sfegatato :ahsisi:
 
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view post Posted on 6/8/2013, 12:36
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Che bello, ancora! :applauso: senza spade e senza draugr, mica male :asd:

Però qualcosa in ambiente skyrim sarebbe bello comunque. L'importante sarebbe che non parlasse delle solite cose :asd:

Ad ogni modo, non vedo l'ora di vedere come va avanti! :D
 
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Iselin
view post Posted on 6/8/2013, 13:41




Oh, grazie!
Purtroppo questa storia era nata così tempo fa, e riscriverla per adattarla a skyrim non mi andava :D
 
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view post Posted on 6/8/2013, 14:23

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Ma infatti va benissimo ogni tanto esulare dalle solite ambientazioni!
Piuttosto, piccola curiosità: come mai ripeti così spesso il cognome della protagonista?
 
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Iselin
view post Posted on 6/8/2013, 14:51




Perché quando l'ho scritta, avevo deciso di usare il pacchetto Nome+Cognome per identificare il personaggio, ma effettivamente alla lunga stanca, per cui credo che rivedrò i prossimi capitoli e cercherò di sistemarli a dovere :P

Ad ogni modo, sono contenta che questa digressione da Skyrim ad un mondo pseudo-attuale sia comunque apprezzata, per cui... Grazie mille!
 
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view post Posted on 6/8/2013, 14:54
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Apprezzatissima :sisi:

Solo, un racconto diverso ma sempre a skyrim era quello che avevo in memte io quando ne parlavo un po' di tempo fa. Tutto qui. Il tuo racconto va benissimo :sisi:

Per il nome, io pure mi sono chiesto perché usassi sempre il cognome anziché il nome :tradi:
 
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Iselin
view post Posted on 4/9/2013, 08:33




3. Details

“…E così le ho detto che no, non era il caso di dirlo alla nuora…”
“Papà, puoi passarmi la salsa?”
“…Non ha confessato, ma credo che se lo faccio torchiare dal tenente Miles…”
“…due gemelli! Io e Philip non riuscivamo a crederci, ma la dottoressa…”
“Nonna! Susie mi tira i fagioli!”
“ Mary Sue, non tirare i fagioli a tuo fratello. Dicevo, mia cara, che la signora Roses…”
“…Quattro in pieno petto. Vi dico che quel ragazzo farà strada. Ho intenzione di mandarlo alla Scuola Ricognitori…”
“Sul serio, Connie. La pista di Chandler non porta da nessuna parte, dovresti puntare tutto su Ruiz…”
“…un po’ di burro. Poi farina, mezzo bicchiere di latte…”
“Mamma, mi scappa la pipì!”
“…spaccia droga a South Central, il bastardo.”
“Mary Elizabeth!”
Liz sollevò gli occhi su sua madre, che la fissava dall’altra parte del tavolo con aria scandalizzata. “Mary Elizabeth, che parole sono queste?”
“Scusa, mamma.”
Rose Marie Stone, nata Blanchard, sollevò gli occhi al cielo con espressione rassegnata e tornò a rivolgersi ad una delle nuore.
Liz si cacciò in bocca una forchettata di purea di patate e si protese di nuovo verso sua sorella Constance, seduta due posti più in là, che urlava per sovrastare il forte vociare che regnava nella stanza.
Due zuppiere le passarono sotto il naso in rapida sequenza, mentre un fagiolo si tuffava nel bicchiere di uno dei suoi fratelli con un doppio salto carpiato.
Pranzo di famiglia in casa Stone.
“Connie, se Ruiz è davvero legato a Maldenado…”
“Maldenado? Ragazze, quella è competenza della divisione di Rampart.” Si intromise Edward, il terzogenito di casa. “Ci sono delle indagini in corso, Connie. Voi di Parker Center fareste bene a non immischiarvi.”
“Cosa? Se Maldenado ha qualcosa a che fare con la mia vittima, nulla mi impedirà di indagarlo e portarlo in tribunale.”
“Eddie ha ragione, Con. Voi della Rapine-Omicidi non fate altro che ficcare il naso dove non dovreste…”
Che cosa?
“Ehi, stavamo parlando del mio caso!” Protestò Liz, agitando un grissino. Non è facile parlare di lavoro quando quasi tutti i tuoi fratelli e sorelle fanno parte delle forze dell’ordine.
“Non è più il tuo caso, Liz. Non da quando gli uomini di Connie te l’hanno soffiato.”
“Phil, ti avverto…”
“Silenzio! Voglio ascoltare.” Abbaiò Jhon Richard senior, il capofamiglia, e tutta la tribù Stone ammutolì all’istante.
Il vecchio Stone, pluridecorato veterano della guerra in Vietnam, sergente maggiore da più di trent’anni e da ventidue sergente istruttore dei Marines nella torrida Parris Island, annuì severamente e tornò a fissare il televisore. Nessuno poteva mettersi tra lui ed il suo telegiornale.
La voce fuori campo della giornalista stava commentando il recente ritrovamento del cadavere di una donna al Morningside Park di Manhattan. Anche questa volta era una giovane con il collo squarciato.
Sullo schermo le immagini scorrevano l'una dietro l’altra, mostrando in continuazione il bel viso tranquillo della vittima accanto al faccino pulito della ragazza di Cope Lake.
Ancora nessun indizio… indagini in corso… inquietante simmetria…"
Le parole della giornalista non erano altro che vuote chiacchiere di sottofondo. Ignorando il brivido che le correva lungo la schiena, Liz ingollò un boccone di stufato.
Ed ecco Morningside. Come potete vedere, la gente è ignara…"
Liz storse il naso. Qualunque fosse il problema di quella giornalista, avrebbe fatto meglio a starsene a casa. Era più agitata di un Chihuahua sotto anfetamine.
Non si poteva dire lo stesso delle persone che si muovevano alle sue spalle. A circa un centinaio di metri dietro di lei, i Newyorkesi portavano a passeggio i cani e compravano hot dog come se non fosse stato trovato alcun cadavere orribilmente dilaniato, nei paraggi.
Stavano scorrendo le ultime immagini quando Liz emise un’esclamazione sorpresa e si sollevò un poco dalla sedia, tendendo il collo.
“Tutto bene, Lizzy?” Le chiese suo fratello Mike.
“Credo…” cominciò lei con un filo di voce. Strinse gli occhi fissando lo schermo, poi scosse il capo e tornò a sedersi con aria confusa e imbarazzata. “Io… credevo di aver visto qualcuno che conoscevo.”Liz tentò un sorriso ed arricciò il naso. “ Devo essermi sbagliata.”
“Spero davvero che tu non conosca nessuno di quegli individui, Lizzy.” Esclamò suo padre con severo cipiglio. Il parco era frequentato da uomini e donne di ogni colore e provenienza, ma lui non aveva visto altro che asiatici. Asiatici ovunque.
“Feccia, ecco cosa sono. Sgualdrine gialle e fottutissimi…”
“Richard, caro” lo richiamò tranquillamente la moglie, pulendo il mento di una nipotina dalla salsa di menta.
Il vecchio militare digrignò i denti, ma alla fine cedette e, chinando il capo, si scusò per il linguaggio.
“Non sono tutti uguali, papà.” Disse Liz, smuovendo i pezzi dello suo stufato con la punta della forchetta. “Ho lavorato con alcuni di loro. Per la maggior parte si tratta di brave persone.”
Per tutta risposta, Richard Stone si tirò la manica della camicia fino al gomito, mostrando un vecchio squarcio che partiva dal polso e risaliva lungo il braccio fino alla spalla.
“Guarda questo, ragazzina. Uno di quei maledettissimi Charlie, a Khe Sanh.”
Liz piantò un gomito sul tavolo, facendo balenare la lunga cicatrice che le segnava il lato esterno dell’avambraccio.
“Uno spacciatore da quattro soldi. A Venice Beach.”
“Il tagliaerba, nel mio giardino.” Esclamò Eddie, sollevando una gamba e scoprendo una cicatrice a forma di virgola sul polpaccio.
Qualcuno rise, e Raymond, il penultimo dei ragazzi Stone, si alzò e fece il gesto di slacciarsi la cintura, dando le spalle alla famiglia.
“Ehi, volete vedere dove mi hanno vaccinato a cinque anni?”
L’intero gruppo scoppiò a ridere, facendo scomparire l’atmosfera tesa che si era creata. Persino il Sergente Stone si lasciò sfuggire un sorriso storto.
E mentre la sua signora intimava al figlio più giovane di rivestirsi e non dare spettacolo, il resto della famiglia si rilassò e ben presto il rumore delle loro voci tornò a regnare attorno al tavolo.
Liz lanciò un’ultima occhiata incerta allo schermo, e senza pensarci oltre si lanciò in un nuovo discorso con i fratelli.
Ritratto di un pranzo in famiglia in casa Stone.



E’ opinione comune che New York sia davvero bella, sotto il sole estivo.
Ma pochi sanno che è ancora più bella, quando conosci tutte le sue ombre.
Sollevando il capo, l’uomo inspirò a pieni polmoni l’odore del parco: polline, hot dog e gas di scarico. Quanto gli era mancato!
Morningside era un parco come tutti gli altri. Non sapeva esattamente perché l’avesse scelto.
Forse per il nome. Forse perché era lì che la sua vittima faceva jogging. Forse perché distava solo pochi chilometri dal quartiere di Harlem.
Forse perché sì, e basta.
Per quella sua passeggiata diurna aveva scelto una mise che gli avrebbe permesso di passare inosservato. Berretto da baseball, occhiali da sole neri come il peccato, maglia dei New York Yankees e bermuda.
Per completare il quadro, si era avvolto un guinzaglio attorno al polso, ed ogni tanto lanciava uno sguardo verso il prato dove si inseguivano una miriade di cani di tutte le taglie e razze.
I dettagli erano importanti. Lo diceva sempre, il suo Sergente Istruttore. Fino al giorno in cui non aveva più potuto dire nulla.
Ad un centinaio di metri da lui, una giornalista bruna con un inguardabile prendisole giallo blaterava animatamente qualcosa davanti al cameraman.
Stava parlando dell’omicidio. Lo sapeva, anche se era troppo lontano per sentire le sue parole.
Chissà se erano in diretta. Chissà se la sua Liz stava guardando quel servizio.
Chissà se lo avrebbe riconosciuto, fermo in mezzo al parco, con quegli stupidi vestiti addosso.
L’idea gli piacque, e cominciò a canticchiare un motivetto a bocca chiusa.
C'era una biondina su una panchina, qualche metro più in là, che continuava a lanciargli occhiate interessate, e lui sollevò un sopracciglio.
Il suo fisico non aveva risentito molto dei tre anni di prigionia. Era ancora snello, forte e muscoloso, e la ragazzina sembrava apprezzare.
Lanciò un’altra occhiata verso il prato, facendo dondolare il guinzaglio appeso al polso. I dettagli erano importanti.
“Coccinella, coccinella, vola via…”
Alcuni passanti si erano fermati davanti al carretto di un grasso polacco che vendeva hot dog. Forse avrebbe dovuto prenderne uno anche lui, giusto per non dare nell’occhio. Dettagli. La sicurezza sta nei dettagli.
La ragazza sulla panchina continuava a sorridergli. Bionda, formosa. Un bel viso.
Le sorrise di rimando. Sapeva apprezzare le belle donne, quando le vedeva.
A Liz sarebbe piaciuto, quel parco. Era un’oasi di tranquillità in piena Manhattan.
Chi aveva bisogno di Los Angeles, quando poteva avere quella pace?
“Mi scusi.” La bionda si era avvicinata. Aveva uno splendido sorriso, una chiostra di denti perfettamente bianchi e regolari. Come uno squalo.
“Posso esserle utile?” Le chiese. Gli piaceva essere d’aiuto, quando poteva.
Come quella volta in cui aveva aiutato il Cadetto Lon Williams ad uccidere il Maggiore Hill. Bei tempi, quelli.
“Ha da accendere?” La bionda sorrise ancora. Teneva la sigaretta tra due dita, e la sagoma dell’accendino era ben visibile nella minuscola tasca dei suoi shorts di cotone bianco. A quella vista, lui sentì un muscolo contrarsi sotto l'occhio destro.
Dettagli, dannazione. I dettagli erano importanti. Se quella ragazzetta fosse stata nell’esercito, avrebbe saputo nascondere meglio il suo dannato accendino.
“Mi dispiace, non fumo.” Le rispose cordialmente. Le persone che fumavano lo disgustavano. La sua Liz non fumava.
“Oh, peccato.” La ragazza si infilò la sigaretta dietro l’orecchio, ma non si allontanò. Era entrata in modalità caccia. “Lei viene spesso in questo parco?”
“No, non spesso.” Giusto il tempo necessario per perlustrare la zona d’azione. “Di solito mi piace girare.”
La ragazza annuì. Non era ancora soddisfatta, e fissando il guinzaglio attorno al suo polso, tornò all’attacco.
“Il suo cane è laggiù? Qual è?” Chiese, indicando l’ampio spiazzo che si apriva dietro il venditore di hot dog.
“Il bastardino marrone.” Nel prato c’erano quattro bastardini marroni.
“È… molto carino.” Disse titubante la bionda. “Ma non ci siamo già visti? Ho come l’impressione di averla già incontrata.”
Lui si voltò verso la ragazza, squadrandola con più attenzione. Era graziosa, con grandi occhi scuri come l’ossidiana. Non sembrava averlo riconosciuto.
“Non credo. Non dimentico un bel viso, quando lo vedo.” Rispose gentilmente con un ampio sorriso. Se non avesse avuto gli occhiali scuri, avrebbe ammiccato. Aveva sempre avuto la capacità di rigirarsi le donne attorno ad un dito. Proprio per questo, la giura che l’aveva condannato era di soli uomini.
La bionda sembrava totalmente affascinata. Con un gesto furtivo, gli porse un minuscolo biglietto da visita.
“Mi chiami, se dovesse ricapitare in zona. Mi chiamo Cindy.”
Lui si rigirò il biglietto tra le mani. Cindy Cooper. Aspirante modella.
Sollevando lo sguardo incontrò gli occhi scuri della ragazza, che lo fissavano colmi di promesse.
Erano passati tre anni, dieci mesi, una settimana, quattro giorni e sei ore dall’ultima volta che era stato con una donna. In carcere non si incontrano molte belle ragazze, soprattutto se passi il tempo in isolamento.
Sarebbe stato facile accettare l’invito implicito della bionda Cindy. Gli sarebbe bastato prenderla per un braccio, portarla in un motel ad ore e sfogare quegli anni di solitudine sulle sue curve bianco panna.
Ma non poteva farlo.
Per quanto potesse desiderare la vicinanza di un corpo femminile, non poteva tradire la sua Liz.
La sua bella, forte, tenace Liz non sarebbe stata affatto contenta se avesse saputo che era andato a letto con un’altra donna.
Stirò le labbra in un sorriso storto e sollevò un sopracciglio scuro sopra la linea degli occhiali.
“Non mancherò.” Promise, infilandosi il biglietto nella tasca dei bermuda. “Arrivederci, Cindy.”
Con passo lento e controllato, si spostò verso uno dei viottoli che si inoltravano tra gli alberi. Quando fu sicuro di essere nascosto alla vista, estrasse il cartoncino bianco e rosa della graziosa Cindy Cooper, lo strappò in quattro pezzi regolari e lo gettò in un cestino dell’immondizia, dritto dentro un bicchiere di Pepsi quasi vuoto.
Sollevando un polso, controllò l’ora sul vecchio orologio di plastica che aveva rubato ad un barbone. Era tempo di incamminarsi verso casa.
Da lì a qualche ora sarebbe passato il buon vecchio Colin, accompagnato da due poliziotti senza senso dell’umorismo, per controllare che lui non se ne fosse andato a spasso.
Ah, Colin, se solo tu sapessi…" Pensò, ridacchiando tra sé.
La ragazza di Cope Lake e la runner di Morningside Park non erano che l’inizio.
Aspetta che ci prenda la mano, caro, vecchio Cole. Aspetta e vedrai.”
Quelle passeggiate clandestine erano un vero toccasana, per il suo umore. Con indifferenza, uscì dal parco e si incamminò verso i quartieri di Harlem.
Presto, lo sapeva, sarebbe venuto il suo momento.
Presto avrebbe rivisto la sua Liz.














Rieccomi qui. Terzo capitolo di questa roba delirante.
Bene, che dire? Spero di non aver confuso nessuno introducendo la famiglia Stone, ma sono così tanti che è impossibile che si riuniscano senza fare un po’ di “cagnara”.
Questa volta ho optato per un capitolo meno oscuro, leggermente meno paranoico. Mi serviva per allentare un poco la tensione, in vista di quello che arriverà dopo. Insomma, lasciamo che Liz si goda un po’ di tranquillità, finché può.
Non fatevi scrupoli a segnalarmi se qualcosa non quadra, se ho fatto degli errori di battitura (alcuni di quei maledetti riescono sempre a sfuggire, anche dopo aver controllato mille volte), o per qualunque altro motivo. Opinioni e critiche sono ben accette, mi servono a migliorare i miei scritti.
Alla prossima, e grazie per l’attenzione!
 
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view post Posted on 4/9/2013, 14:54

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Molto bella la scena del pranzo: è così ben strutturata che per un attimo mi sono perso davvero nella confusione!
 
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