2. PapercutDannato, dannatissimo caldo.
Liz Stone reclinò il capo, lasciando che la bibita ghiacciate le scivolasse lungo la gola fin nello stomaco.
Era un’altra splendida, maledetta giornata di sole, nella calda L.A.
Era una di quelle giornate in cui vorresti solo indossare un bel bikini colorato, sbattere la tua roba in un angolo sabbioso sotto la torretta dei guardaspiaggie e tuffarti nell’acqua limpida – ma non per questo pulita – della baia.
Una di quelle giornate in cui faresti di tutto, pur di stare lontano dal sole battente, e mai, mai e poi mai ti sogneresti di appostarti sulla sommità di un parcheggio silos, con una macchina fotografica con teleobiettivo ed un misero berretto da baseball per proteggerti dalla calura.
Con un sospiro, Liz Stone si appoggiò gli occhiali da sole sulla visiera ed accostò ancora una volta l’occhio alla macchina fotografica.
Snap snap snap.
Tre scatti in rapida sequenza. Sembrava quasi di sparare al poligono.
L’unica differenza stava nei proiettili, dei semplici fermo-immagine anziché dei bussolotti di metallo e polvere da sparo, mentre i bersagli non erano sagome di carta, ma una moglie fedifraga ed il suo amante.
Strizzando gli occhi per il sole, Liz Stone controllò dallo schermo della macchinetta digitale le foto scattate. Con quelle ultime tre, era arrivata a quota venti. C’era materiale a sufficienza per permettere a Constantine Charmicheal di chiedere il divorzio.
Soddisfatta, la detective Liz Stone inforcò nuovamente gli occhiali da sole, spinse la macchina fotografica in una custodia a tracolla e si affrettò verso la rampa del parcheggio che portava ai livelli inferiori.
Erano appena le quattro del pomeriggio.
Se non avesse trovato traffico,
se il suo computer non avesse fatto le bizze e
se si fosse sbrigata a scrivere il rapporto di chiusura del caso,
forse sarebbe riuscita a fare un salto in spiaggia prima che il sole calasse.
Un rivolo di sudore le scese lungo la schiena, seguendo il percorso delle cinghie della fondina ascellare che portava nascosta sotto la camicia aperta.
Certo, nascosta per modo di dire. Una Colt Python calibro .357 è un’arma pesante e massiccia, difficile da nascondere, persino sotto una camicia di qualche taglia più grande indossata su un top attillato.
Liz Stone scese fino al secondo livello del parcheggio, dove la spettava la sua splendida Chevy del ’63, un gioiellino decappottabile azzurro cielo che sembrava sempre appena uscita dal concessionario. In qualunque altra parte del mondo, una macchina simile avrebbe attirato gli sguardi di tutti, ma non nella sfarzosa Los Angeles.
Stone accarezzò il lucido fianco di metallo ed aprì la portiera, lanciando la custodia della macchina fotografica sul lungo sedile di pelle chiara.
Mentre manovrava quella mastodontica auto lungo la rampa per poi immettersi su Jefferson Boulevard, giocherellò con le manopole della radio finché non trovò una stazione di musica rock anni ’60. Trasmettevano i Beach Boys.
“
If everybody had an ocean
Across the U.S.A.
Then everybody’d be surfin’
Like Californ-I-A…”
Liz Stone si calcò in testa il berretto. Traffico, c’era traffico, ma meno di quanto avesse creduto.
Strombazzando ed insultando cordialmente gli altri automobilisti, si fece strada sull’asfalto rovente.
Un’altra splendida, maledetta giornata di sole.
Pareva di stare all’inferno.
Benvenuti a L.A.
“Da questa parte, prego.”
La piccola domestica sudamericana camminava troppo in fretta su quel lucido pavimento di marmo. Liz Stone si chiese come facesse a non scivolare.
“
El Señor Charmicheal la aspetta nello studio.” Cinguettò la donna, senza voltarsi.
Palmsville Manor, la residenza di Constantine Charmicheal, era una di quelle villone di lusso che si affacciano sulle colline, tutta un tripudio di marmi bianchi, colonnati greci ancor più bianchi e capitelli decorativi di dubbio gusto.
Liz non amava quel genere di lusso ostentato, ma apprezzava moltissimo l’aria condizionata all’interno. Appena varcata la soglia, aveva avuto l’impressione di entrare in un frigorifero.
La piccola domestica si fermò davanti ad una porta colossale in legno di Tek, più adatta ad un castello che all’entrata di uno studio. La donnina batté le nocche brune sull’uscio, annunciando che la
Señorita Stone era arrivata. In pochi secondi, la detective venne introdotta nello studio.
Entrando, Liz si guardò in giro, studiando le pareti e gli elegantissimi mobili della stanza. Sembrava che nell’ultimo mese il signor Charmicheal avesse cambiato scrivania. Quello doveva essere un modello con segretaria inclusa.
“Detective Stone, suppongo?” La segretaria era un tipino di come se ne trovano tanti negli studi di Los Angeles: molto magra, molto bionda e molto appollaiata sull’angolo della scrivania.
In sostanza, molto Barbie.
“Elizabeth Stone.” Confermò la detective, stringendo la cartelletta sul fianco sinistro, contro la fondina vuota. Il bestione all’ingresso si era rifiutato di farla entrare armata. Curioso come una donna possa sentirsi nuda, senza il suo revolver.
“Oh!” La segretaria sbatté gli occhioni azzurri ed accavallò le gambette sottili che terminavano in tacchi a stiletto. “Ma allora è davvero
quella Stone? Quella che ha fatto arrestare il Divoratore di Brooklyn?”
“Dov’è Carmicheal? Credevo che mi stesse aspettando qui.”
“Posso vedere la cicatrice?”
“Preferirei di no. Dov’è il suo capo?”
“È vero che ha cercato di ucciderla
a morsi?”
“Non ho intenzione di rispondere.”
“Che effetto le ha fatto sapere che è stato rilasciato?”
Liz Stone sentì mille lame di carta straziarle il cuore. Graffi sottili, ma che bruciavano come il fuoco.
“Signorina, ha mai incontrato un Marine incazzato?”
La segretaria sbatté di nuovo gli occhioni, stupita da quella domanda inattesa. Con la sua dolce vocina sottile disse che no, non le era mai capitato.
“Allora la smetta di fare domande.”
Sullo studio calò un silenzio imbarazzante, durante il quale Liz Stone fissò la donnina sulla scrivania, mentre quella continuava a studiarla.
Dopo qualche minuto si udì un leggero scalpicciò nel corridoio, e la porta dello studio si aprì.
“...grazie, Dolores. Torna pure alle tue occupazioni.” Un uomo alto, di mezz’età, entrò nello studio con passo deciso.
“Ah, signorina Stone. Spero di non averla fatta attendere troppo.” Constantine Charmicheal tese una mano alla giovane investigatrice con aria falsamente gioviale.
“In effetti, è un po’ che aspetto.” Dichiarò Liz Stone, facendo sfoggio di una lustrissima faccia di bronzo. “Credevo le interessasse sapere cosa ho scoperto.”
Charmicheal si sedette sulla poltroncina dietro la scrivania assicurando che, certo, voleva sapere tutto il possibile su quella faccenda.
“La prego di parlare liberamente davanti alla signorina Lowell. È l’avvocato che si occupa della mia causa di divorzio.” Dunque, non era la segretaria.
La Lowell scivolò dalla scrivania e zampettò sui tacchi fino alla detective dallo sguardo granitico.
“Barbara Lowell, avvocato divorzista.” Si presentò, tendendo una manina così sottile che Stone avrebbe potuto facilmente accartocciarla tra le dita. “Barbara, sa, come la città di Santa Barbara, dove si sono incontrati i miei genitori.”
“Oh. Non come la bambola?” Chiese Stone, sollevando un sopracciglio scuro. Una Barbie, senza dubbio.
Senza aspettare una risposta alla sua provocazione, Liz Stone marciò fino all’ampia scrivania scura, aprì la cartelletta e ne estrasse una manciata di fotografie stampate su fogli A4, disponendoli a ventaglio.
“Giovedì.” Cominciò, puntando un dito sulla prima foto, corredata da data e ora. “Lorraine Charmicheal incontra Loius Smith alle ore quattordici e trentadue, all’incrocio tra Sunset Boulevard e Willcox Avenue…”
Era bello fare il proprio lavoro.
Ma era ancora più bello sapere che, di lì a poco, avrebbe lasciato quella villa lussuosa con un sostanzioso assegno nella tasca dei jeans.
“Miao. Miao. Miao?”
“Ti ho sentito, ti ho sentito.”
Liz Stone depositò due pesanti borse della spesa sul bancone della cucina con uno sbuffo. Subito, il gatto che l’aveva seguita nel buio della casa fin dall’ingresso balzò sui mobili, allungando il collo dentro le buste.
“Miao!”
“Lo so che hai fame.” Sbottò Stone, prendendo la bestiola e appoggiandola a terra. “Dammi il tempo di svuotare le borse.”
Con gesti stanchi, cominciò ad allineare la spesa della prima busta sul bancone della cucina.
Cibo in scatola, sempre e solo cibo in scatola. Soprattutto per il suo gatto. Tonno, pollo, manzo, qualunque cosa potesse servire a sfamare quella specie di tigre che abitava il suo salotto.
Il contenuto della seconda borsa, invece, era solo per lei: quattro confezioni da sei di birra. Ed una busta di insalata. Ehi, in fondo ci teneva, alla sua salute.
Afferrò una scatoletta a caso dal mucchio e la vuotò nella ciotola sul pavimento.
“Dì la verità, tu non sei un gatto. Sei una tigre del bengala.” Disse, quando lo vide fiondarsi sul cibo come se non mangiasse da giorni.
Per sé stappò una lattina di birra, trangugiandola a lunghi sorsi. Era calda e di pessima qualità ma, al Diavolo, aveva bisogno di bere qualcosa.
Gettò la latta vuota nel lavandino, prese la confezione già aperta e si diresse verso il soggiorno come una sonnambula.
Con un gesto secco tirò le tende bianche, per ammirare il panorama notturno di Los Angeles.
Era diventato una specie di rito. Luci spente e città accesa.
Con la distesa di palazzi illuminati che si stagliavano nel cielo rossastro, si sentiva quasi parte della vita che scorreva nelle strade.
Quasi, perché è difficile sentirsi vivi, quando si è stati sfiorati dalla morte.
Con un brivido si portò una mano al collo. Le sue dita sfiorarono una larga cicatrice frastagliata, che ricordava la forma di un morso.
Tre anni.
Quasi quattro, ormai.
Liz Stone voltò con decisione le spalle alla città degli angeli, stappò una seconda birra ed accese il televisore.
“
…Il collo lacerato, a Cope Lake, nel Bronx.”
La lattina cadde sul pavimento con un clangore troppo sonore per essere vero. La birra schizzò ovunque, ma Liz Stone non ci fece caso.
La sua attenzione era tutta per la giornalista dalla piega perfetta, che parlava fissando dritto in camera.
“
…ancora nessun testimone…evidenti segni di morsi…non si esclude l’emulazione…Divoratore di Brooklyn…”
Le parole della donna le giungevano solo a pezzi. Sembrava che le sue orecchie avessero deciso di non funzionare.
Davanti agli occhi le scorrevano le immagini del servizio. Una ragazza graziosa, dai capelli corti e ordinati ed il sorriso pulito. Due poliziotti del turno di notte, chini su un corpo femminile nascosto sotto un lenzuolo, da cui sbucavano solo le scarpe da ginnastica rosa. Una panoramica della famiglia in lacrime, la madre grassa e patetica ed il padre apatico.
E poi lui.
Il suo viso comparve a tradimento sullo schermo, immortalato nelle foto segnaletiche.
Liz Stone si lasciò sfuggire un singulto e piombò a sedere sul divano candido, tirandosi le ginocchia al petto. Improvvisamente la cicatrice riprese a bruciarle, come la notte in cui lui le aveva affondato i denti nell’incavo del collo, strappandole le vene e squarciandole i muscoli.
Credeva di poterlo dimenticare.
Ed ora, invece, eccolo lì.
Eccolo che sorrideva, fissandola dallo schermo del televisore. Era come se il suo spirito corrotto potesse vederla, attraverso gli occhi immobili di quella vecchia foto trasmessa in mondovisione.
Il telefono trillò, facendola sobbalzare per lo spavento. Tre squilli, prima che subentrasse la segreteria.
Silenzio.
Liz Stone tremò. Le capitava spesso di ricevere telefonate vuote, e credeva di essersi abituata. Ma quella sera era diverso.
Quella sera le sembrava che, dall’altra parte, fosse in agguato un predatore, pronto a balzarle addosso al minimo movimento.
“
Respira, ragazza, respira.” Pensò, premendo la fronte sulle ginocchia.
Un lieve scatto la avvisò che la chiamata era stata interrotta.
“
Va tutto bene. Non è lui. Non è qui.”
Il telefono squillò di nuovo, pietrificandola. Liz Stone rimase in attesa.
“Liz? Sei in casa?” La voce di suo fratello Philip irruppe nell’appartamento con la forza di un uragano. “Lizzy?”
Con un movimento convulso, Liz Stone si lanciò sul cordless di plastica bianca, aggrappandoglisi come se fosse un’ancora di salvezza.
“Phil!” Gemette con voce strozzata.
“Liz, grazie a Dio sei in casa.” Philip aveva un tono troppo cupo e serio, persino per lui. “C’è una cosa che dovresti vedere sul canale trentasei.”
“Lo so.” Mormorò Liz Stone. “Lo sto guardando adesso.”
“Non sono di pattuglia, questa notte. Vuoi che venga da te?” Phil era un poliziotto, come quasi tutti i membri della loro famiglia. Aveva comprato casa nei malfamati quartieri di L.A. abitati dai latinos, a South Central.
“No.”
“Vuoi che chiami Connie?” Chiese ancora lui, riferendosi alla loro altra sorella che viveva a Los Angeles.
“No, Phil. Sto bene, davvero. Voglio stare sola.” Mormorò.
Lasciando scivolare il telefono nei recessi del divano, Liz Stone si strinse tra le braccia, rannicchiandosi in posizione fetale.
La sagoma della pistola le premette sul fianco, tagliandole la carne sotto i vestiti.
Non voleva nessuno intorno.
Tutto quella che voleva era stare sola.
Sola, al sicuro.
“Coccinella, coccinella, vola via…”
Le sue dita si muovevano con gesti esperti. L’otturatore scivolò con un tonfo sordo sul tavolo di legno. Subito venne raccolto ed allineato accanto agli altri componenti del fucile, sul panno di velluto nero.
Il lubrificante per armi aveva un odore quasi sensuale, dopo tanti anni di assenza.
Era come il profumo di un’antica amante. Quanto gli era mancato, durante la sua prigionia!
“…la tua casa è in fiamme, ed i tuoi bimbi son tutti morti…”
Il piccolo televisore acceso ronzava come un calabrone, mentre cercava di mantenere il segnale. Questi sono i rischi, quando rubi qualcosa al banco dei pegni: non sai mai quello che ti capita.
Ma lui era un uomo semplice. Gli bastavano poche cose, per essere felice.
Il suo Remington 700 con mirino telescopico, caricato con proiettili a punta cava.
Il suo piccolo appartamento in un quartiere periferico di Harlem, New York.
Il sapore metallico del sangue della sua vittima.
La piatta scatola di un pasto da asporto di Pizza Hut.
E la sua Liz.
“…Solo la piccola Annie si salvò…”
Ecco, quello che mancava davvero per completare il suo felice quadretto, era la sua bella, adorata Liz.
Non poteva fare a meno di lei. Non importava quanto quell’incapace del suo avvocato e quell’inutile psichiatra cercassero di convincerlo.
Erano passati tre anni, otto mesi, due settimane, tre giorni e quattordici ore da quando l’aveva vista l’ultima volta. Avrebbe potuto aggiungere al conto anche ventitré minuti.
Ma non era così pazzo da contare i minuti. Vero?
“…perché sotto una pentola lei strisciò.”
Con uno scatto secco riassemblò il fucile e lo ripose nella custodia nera. Nessuno lo aveva pulito, durante i tre anni che aveva passato in isolamento. Una buona arma ha bisogno di manutenzione.
Lo diceva sempre, il suo Sergente Istruttore.
Certo, prima che un proiettile gli perforasse il cranio.
Ma quella era storia passata.
“… Solo la piccola Annie si salvò, perché sotto una pentola lei strisciò.”
Si alzò dalla sedia di legno, reggendo tra le braccia la custodia del fucile. Aveva bisogno di tenersi impegnato.
Liz non aveva risposto al telefono.
L’aveva chiamata una decina di minuti prima, mentre sul piccolo schermo scolorito del suo televisore, una bella giornalista parlava di quell’assassinio a Cope Lake.
Chissà se anche Liz stava guardando quel notiziario. Gli piaceva immaginarla mentre osservava le immagini sullo schermo, mentre riconosceva la sua foto segnaletica e si rendeva conto che, in fondo, quella ragazzina morta le somigliava maledettamente.
“… Solo Annie si salvò…”
Continuando a canticchiare, si diresse verso il telefono. Perso nei propri pensieri, non lo aveva sentito squillare.
“Dimmi che non sei stato tu.” Proruppe Colin Mallory.
“Non sono stato io.” Colin era il suo attuale avvocato. Aveva perso il conto di quanti lo avevano preceduto.
“Non mentirmi. È morta una ragazza, a Cope Lake, e tutti i telegiornali fanno il tuo nome.”
Povero Colin. Sembrava agitato.
Mugolando il motivetto di una filastrocca per bambini, si diresse verso l’armadio a muro. Quando lo aprì, una distesa di camicie slabbrate, vecchie divise e scarpe impolverate si offrì al suo sguardo.
“Non sei uscito di casa, vero?”
“Sono le dieci e mezzo di sera,
Colin.” Rispose. Mallory odiava quando lui lo chiamava per nome. “Dove pensi che possa andare un uomo agli arresti domiciliari, alle dieci e mezzo di sera?”
Il pannello sul fondo dell’armadio scivolò di lato, rivelando un vano nascosto. Con il suo contenuto, avrebbe potuto fare concorrenza ad un’armeria.
“Spero che tu non mi stia mentendo. Potrei mandare un paio di agenti a controllare che tu sia in casa. Lo sai questo, vero?”
“Lo so bene, Colin.” La sua mente corse verso il dispositivo di controllo appoggiato sul tavolo. Avrebbe dovuto rimettersi quella stupida cavigliera. Non poteva certo rischiare che Mallory scoprisse le sue passeggiate clandestine.
“Sarà meglio che non te lo scordi.” Con un grugnito, il suo avvocato chiuse la chiamata.
“Non me lo scordo.” Disse ad alta voce.
Le sue parole echeggiarono nell’appartamento semivuoto.
Non si sarebbe scordato nulla, mai.
Né l’addestramento spaccaossa dell’esercito, né la cella soffocante dell’isolamento, né gli sguardi della ragazzina che somigliava tanto alla sua Liz.
Non poteva dimenticare. Quella voce, che mormorava di continuo nei recessi della sua mente, non glielo avrebbe permesso.
Un lento sorriso gli si aprì sul volto magro, sciupato da anni di prigionia, ma ancora attraente, mentre le sue labbra si schiudevano per mormorare il verso di una vecchia filastrocca.
“…Solo la piccola Lizzy si salvò,
perché sotto un tavolo lei strisciò…”
Ecco qua il secondo capitolo di questa strana storia strampalata, senza spade e senza draugr
.
Il titolo è preso dall’omonimo brano dei Linkin Park, e che trovo adattissimo per il personaggio di “Lui”, sia per il testo che per le atmosfere cupe del motivo strumentale.
La canzoncina che ripete ossessivamente è leggermente diversa dal primo capitolo, perché ho preferito interpretarla anziché tradurla, per renderla un pelino più tragica (quindi la mia versione è diversa dall'originale, ma non si discosta poi così tanto).