The Elder Scrolls Forum - ESO, Skyrim, Oblivion, Morrowind & GDR

Racconti, Storie Brevi, Primi Capitoli e Incipit, Raccolta di scritti by Shi no Tenshi

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view post Posted on 3/1/2022, 23:15
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Fanboy della Morte

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Una roba che ho ritrovato dopo credo tre anni, non ne sono molto convinto ma è un botto che non posto nulla e, come dice un grande maestro, "tutto tentar vale, men che nuocere" :ahstop:

L’uomo si grattò il collo, distratto, lanciò un’occhiata al posto vuoto davanti a lui, senza dimenticarsi di includere i piatti vuoti e il vaso contenente un mazzo di fiori, controllò l’orologio e sospirò.
Sempre più in ritardo.
Un cameriere, probabilmente attirato dai suoi sospiri, gli si avvicinò, il blocco delle ordinazioni pronto “Desiderate ordinare?”
L’uomo lo mandò via con un gesto della mano, prima di afferrare la bottiglia e versarsi l’ennesimo bicchiere d’acqua.
Mentre beveva, però, accadde l’impossibile: Charlotte, la ragazza che sua sorella aveva tanto voluto presentargli, decise finalmente di palesarsi e di prendere posto davanti a lui.
“Julius!” esclamò, tra un respiro affannato e l’altro, con un sorriso di scuse sul volto “Ti prego, perdonami, ma il traffico è stato terribile.”
“Mm-m” rispose lui, il bicchiere ancora attaccato alle labbra “Il traffico? Abiti a meno di un chilometro da qui e il problema è il traffico? Certo, e io sono l’Imperatore” avrebbe voluto risponderle, ma si limitò a sorriderle “Oh, non preoccuparti, il traffico in giorni come questo può essere terribile… Beh, tu che prendi?” chiese, speranzoso di riuscire a cambiare argomento, afferrando uno dei menù.
Riportando lo sguardo verso la donna, però, Julius notò che il suo sguardo era fisso in un punto: il suo collo.
Il simbolo tatuato sul suo collo, nello specifico: un pugnale attorno al quale stava avvolto un serpente.
“Perché ovviamente… Eppure avevo detto a Yarinn di specificare che lavoro facessi.” pensò, prima di schiarirsi rumorosamente la gola cercando di ricatturare l’attenzione della sua accompagnatrice.
Funzionò: Charlotte trasalì, spostando lo sguardo sul suo volto e tradendo l’imbarazzo con un colorito vermiglio delle guance.
“Non preoccuparti… ” si affrettò ad aggiungere Julius nel notare la reazione dell’altra “È normale che attiri l’attenzione ma, ti prego, non farci caso.”
“Ah, certo, certo… ” rispose lei, il tono assente, prima di nascondere il volto dietro al menù.
“Quindi… ehm… tu che prendi?” chiese lui, cercando di imbastire un minimo di conversazione “Sai, questo trancio d’agnello con erbette non sembra male… ti piace l’agnello? O preferisci altro?”
La ragazza, però, era tornata a fissare il tatuaggio.
“Charlotte?”
“E quindi sei un Assassino.”
“E ti pareva che non si finiva lì… ” “Il nome ufficiale sarebbe ‘Dipartimento per gli Affari Interni’… ” si costrinse a rispondere, sempre sorridendo “Ma si. E non solo: siamo anche spie, guardie del corpo, diplomatici, negoziatori e molto altro.”
“Ah, capisco… ” rispose lei, sempre fissa sul tatuaggio. Julius alzò la spalla destra, cercando di nasconderlo “… e come mai sei entrato nella Gilda?”
“Come già detto, non è una gilda, è un Dipartimento del Governo Imperiale… Ma, per rispondere alla tua domanda,” “Dato che finisce sempre così” “c’è stato un periodo buio, quando io e Yarinn eravamo ragazzi. E quello è stato l’unico lavoro che sono riuscito a trovare. La paga è buona… e poi non è che possa andarmene quando voglio.”
“Capisco… ” rispose lei, mentre Julius pregava silenziosamente che un cameriere interrompesse quel patetico spettacolo.
Ma, tristemente, nessuno rispose alle sue preghiere.
“E cosa fate, di preciso, oltre agli omicidi?”
“Esco a cena con gente che non sa farsi i cazzi suoi” “Come ti stavo accennando prima, siamo spie, guardie del corpo, diplomatici e simili. Pertanto siamo addestrati a operare in tutti questi ambiti, tra i quali il più importante è sicuramente la tutela dell’Imperatore.”
“Ah… E l’addestramento è duro?” continuò lei imperterrita, mentre Julius non voleva altro che ordinare quell’agnello e chiudere la serata.
“Durissimo” si limitò a rispondere, digrignando i denti “E non c’è spazio per il fallimento. Solo i migliori si aggiudicano l’emblema del Dipartimento, mentre tutti gli altri vengono rimandati a casa.” ci fu una breve pausa, che l’uomo decise di sfruttare per spostare la conversazione in una direzione diversa “Ma basta parlare di me, parliamo un po’ di te! Hai un colore preferito? A me piace particolarmente il rosso.”
Silenzio.
“Charlotte?” chiese lui, senza però ricevere risposta.
Silenzio.
Poi, all’improvviso, un’altra domanda.
“Che si prova a uccidere qualcuno?”
Julius sospirò.
Si era proprio rotto il cazzo.
“Che si prova? Nulla, dopo un po’.” rispose, la voce sottile e fredda come una lama d’acciaio “La prima volta è sempre la più difficile. Certo, quello che hai davanti è un criminale, un traditore dell’Impero… ma è pur sempre un essere umano, no?” si lasciò andare a una breve risata amara “Quello è il test più difficile, non l’addestramento: riuscirai a scavalcare uno degli istinti più primordiali di ogni essere umano, la pietà? È lì che ti conquisti questo” girò il collo, per mettere completamente a nudo il tatuaggio “quando ci riesci. Da lì, è tutta discesa.” Julius sorrise di nuovo davanti all’espressione scandalizzata della ragazza “Soddisfatta della spiegazione?”
Charlotte lo guardò, orripilata, prima di alzarsi e praticamente correre via, lasciandolo nuovamente da solo.
Julius sospirò, prima di fare cenno a un cameriere che passava di lì.
“Desiderate ordinare?” chiese quello “Si… ” rispose l’uomo, mostrando il menù “… portami un po’ di questo trancio d’agnello… e una bottiglia di vino, grazie.”
“In arrivo.” rispose il cameriere, prima di portare via menù e piatti e dirigersi in cucina.
“Sempre così finisce, sempre così… ”


Un paio d’ore dopo, Julius si stava avvicinando alla sua abitazione, una modesta villetta in periferia.
Beh, modesta per quanto riguardava gli standard di quella zona: a qualsiasi abitante del centro della capitale sarebbe parsa una reggia.
Sarebbe volentieri tornato indietro a piedi, così come era andato, ma l’improvvisa pioggia l’aveva costretto a chiamare una carrozza e farsi riaccompagnare.
La pioggia era fortunatamente cessata quando la carrozza fermò la propria corsa davanti ai cancelli della sua casa. Julius scese, onorò il cocchiere con una mancia e tirò fuori le chiavi: si accorse, però, che il cancello era già aperto.
E che, soprattutto, una luce splendeva nel suo soggiorno.
Yarinn era passato a trovarlo.
Trovò sua sorella dove si aspettava: accanto al suo armadietto di liquori, intenta a diminuire le sue scorte come ogni volta che gli faceva visita.
Decise di non farle subito notare il suo arrivo, limitandosi a fissare il piccolo specchio poco lontano dall’ingresso: il suo stesso viso affilato, incorniciato da una macchia disordinata di corti capelli rossi che inutilmente aveva tentato di tenere in ordine per quella serata e segnato da una ormai molto vecchia cicatrice sulla guancia sinistra. Julius sospirò, si tolse il cappotto e la giacca, rimanendo solo in maniche di camicia e rabbrividendo istintivamente nonostante la stanza fosse tutt’altro che fredda visto il fuoco che Yarinn era stata abbastanza previdente da accendere, e si schiarì la gola.
“Quante volte t’ho detto che quelli sono solo da esposizione?”
Sua sorella trasalì, rischiando quasi di versare l’alcolico che teneva in mano, per poi voltarsi lentamente a guardarlo con quegli occhi verdi così simili ai suoi, sul viso un’espressione a metà tra il dispiacere e la strafottenza.
“E quante volte t’ho detto io” rispose, portandosi il bicchiere alle labbra e tirando giù un generoso sorso del liquido ambrato al suo interno “che quelle bottiglie finiranno per andare a male se non le usi, caro il mio fratellino?”
“Ed ecco che ricomincia” pensò l’uomo, portandosi una mano al volto con assai esagerata disperazione “Yarinn… Innanzitutto, siamo gemelli e, oltre a questo, io sono nato prima. Seconda cosa, l’alcool non va a male.”
“Non puoi esserne sicuro” rispose lei, avvicinandosi fino a puntargli un dito sul viso “dato che ci sono sempre io a svuotartele.”
“Solo perché sono sempre in viaggio per conto del Dipartimento e ti ho dato le chiavi affinché tu possa annaffiare le piante.”
“Le piante… il Dipartimento… scuse” rispose Yarinn, trangugiando in un sorso il resto del bicchiere, riempirselo di nuovo e sedersi sul una delle due poltrone posizionate davanti al camino “la verità è che tu VUOI che qualcuno beva i tuoi alcolici, ma sei troppo timido per chiederlo esplicitamente. Ma non preoccuparti, la tua adorata Yarinn è qui per te.”
Per la prima volta nella serata, Julius si lasciò andare a una risata mentre afferrava a sua volta un bicchiere e si versava un po’ di quello che sua sorella stava così allegramente bevendo. Whisky, a quanto pareva. “Ok, ok, lo ammetto, hai scoperto il mio piano malvagio” rispose, alzando le mani in segno di resa mentre si accomodava nella poltrona libera. Prese un piccolo sorso, assaporandolo un paio di secondi, prima di rivolgere nuovamente l’attenzione verso la sua ospite “Comunque, sei qui solo per approfittare dei miei liquori da esposizione? O c’è qualche altro motivo?”
La ragazza si fece immediatamente seria “Effettivamente si… vedi, un paio d’ore fa Charlotte è passata a trovarmi” Julius strinse le labbra, senza però dire nulla “Era parecchio in anticipo su quelli che avrebbero dovuti essere i tempi della vostra cena, e mi sono insospettita… ” “Yarinn… ” cercò di interrompere l’uomo, ma la sorella non gliene diede ragione “E mi ha raccontato tutto. Capisco che le domande possano darti fastidio, ma… avresti potuto essere più gentile, invece di ricacciare quella storia sulla pietà e il Dipartimento.”
Julius prese un respiro profondo “Yarinn, io sono stufo. Sono stufo di essere trattato come un fenomeno da baraccone solo per il lavoro che faccio, stufo di essere usato per soddisfare curiosità come se fossi l’Enciclopedia Imperiale. Si, magari non farò il lavoro più comune del mondo, né il più piacevole di cui parlare, ma almeno ho un lavoro onesto, che paga bene e mi permette di fare qualcosa per l’Impero. Capisco che attiri l’attenzione ma vorrei che la gente non si scordasse che sono un essere umano anche io.”
“Certo… ” rispose lei, prendendo un altro sorso “… se però non ti mettessi così sulla difensiva magari le domande si fermerebbero. E se non fossi così irascibile, magari.”
“Come scusa?”
“Ogni volta che parli del Dipartimento sei incredibilmente sulla difensiva, come se ogni domanda fosse una coltellata diretta verso la tua faccia. Un comportamento simile induce curiosità, che però ti fa arrabbiare e quindi finisce che mandi tutto a rotoli. Certo, anche Charlotte ha le sue colpe… ” “Mi ha chiesto cosa si prova a uccidere!” “… le sue colpe grosse, ma se magari le avessi fatto capire per bene che l’argomento ti dava fastidio magari avrebbe smesso di farti domande.”
“Credi non c’abbia provato?”
“No, no, sono sicura tu abbia provato a dirglielo. Il tuo problema, però, è che provi sempre per vie traverse.”
“Vie traverse?”
“Oh, suvvia, non fare quella faccia, sai benissimo a cosa mi riferisco. Non dici mai ‘per favore non parliamone’, provi sempre a far intendere il fatto che non vuoi parlarne cercando di cambiare argomento. Sembra quasi ti dimentichi che non sei sempre in missione.”
Julius si limitò a tirare giù il proprio bicchiere, affondato nella poltrona, senza rispondere.
“Dai Jul, non te la prendere, ma è così. Devi essere più affermativo e meno irascibile per quanto riguarda il tuo lavoro.”
L’uomo sospirò “E va bene, forse hai ragione. Forse.” si tirò su, versandosi un secondo bicchiere “Comunque, hai per caso controllato se c’erano lettere? Magari del Dipartimento?”
Yarinn sorrise “Effettivamente una c’era, te l’ho lasciata sull’armadietto dei liquori. Era del Dipartimento, quindi faresti meglio a leggerla il prima possibile.”
“lo farò immediatamente, grazie.” rispose l’uomo, prima di poggiare il proprio bicchiere, alzarsi e recuperare la missiva “Ha il sigillo del mio capo, Lord Vessic… Strano, normalmente usa quello del Dipartimento o dell’Imperatore, se è qualcosa di veramente importante. Vediamo… ” mormorò, abbastanza forte da farsi sentire anche dalla sorella, prima di spezzare il sigillo e iniziare a leggere “‘Julius, innanzitutto voglio farti i complimenti per l’operazione della scorsa settimana’… si sta riferendo alla confisca dei beni di contrabbando al porto, ma il grosso l’ha fatto il resto della squadra, io ero lì per coordinamento… ‘ti sei dimostrato ancora una volta un importante assetto per il Dipartimento’… altra roba… ‘e pertanto come premio per i tuoi risultati sono lieto di comunicarti che l’Imperatore ha accettato la mia richiesta’… addirittura, emozionante… ‘di renderti Governatore del Lander di Altruss’… Aspetta un secondo, cosa?! ‘Ti prego di presentarti domattina nel mio ufficio per ulteriori dettagli. In fede, Vessic Rackley.’” Julius alzò gli occhi dalla lettera, incontrando quelli preoccupati della sorella “Un Lander? Ma non sono quelle specie di città indipendenti ma fedeli all’Imperatore?” chiese lei, prima di prendere l’ennesimo sorso di whisky “Si, più o meno” rispose lui “possono varare le proprie leggi, fintanto che non vanno in conflitto con quelle dell’Impero, e a capo c’è un Governatore nominato dall’Imperatore. Ma normalmente è un qualche nobile, non un membro del Dipartimento! Noi non siamo addestrati alla politica vera e propria!” “Potrebbe essere una punizione? Magari per qualcosa che hai fatto?” “No, ne dubito… O meglio, non per me. Potrebbe essere una punizione per Vessic, che a sua volta l’ha scaricata su di me perché sapeva che l’Imperatore l’avrebbe accettata visto il successo della roba al porto.” Julius finì anche il secondo bicchiere in un paio di vigorosi sorsi “Qualsiasi cosa sia, spero che il vecchio mi dia più informazioni domattina.” “Hai veramente intenzione di farlo? Si dice che i Lander siano posti pericolosi.” chiese Yarinn, sempre più preoccupata. Julius si limitò a guardarla, prima di posare nuovamente la lettera “Non ho scelta. Se il Dipartimento chiama, io devo rispondere.”
La ragazza si morse il labbro “Stai attento.”
“Sempre” rispose lui, prima di tappare la bottiglia e riporla nell’armadietto “E per stasera basta alcool. Che fai, torni a casa o dormi qui?”
Yarinn sorrise, lievemente sollevata “Dormo qui, servirà qualcuno che ti svegli domattina. Governatore.” aggiunse, il tono canzonatorio.
“Sono capacissimo di svegliarmi da solo! E modera i termini, sei di fronte a un’alta carica dell’Impero!” rispose lui con lo stesso tono, prima di scoppiare a ridere e accompagnare sua sorella verso la camera degli ospiti.
Il giorno dopo avrebbe avuto molto da fare.
 
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view post Posted on 23/2/2022, 04:49
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C'ho messo mesi ma finalmente ho scritto il finale di Ravus e Dar'saz :sisi:

Dar’saz esitò, chiave già nella serratura, a chiudere il ristorante. Non aveva clienti da un sacco, alla festa non si era presentato nessuno se non Ravus e Uthyn, aveva già congedato il suo maggiordomo… ma non gli sembrava vero, abbandonare la Città Imperiale dopo tutto quel tempo e tutte quelle avventure.
“Non è il momento di ripensare al passato” pensò, prima di prendere un profondo respiro, chiudere finalmente la porta a chiave e girarsi verso il suo compagno di viaggio: Ravus. Il Dunmer lo attendeva composto, l’armatura coperta da lunghi abiti da viaggio, le braccia incrociate e con in spalla un grosso zaino, esatta copia di un secondo che invece riposava ai suoi piedi.
Dar’saz lo raggiunse, sempre senza dire una parola, e raccolse da terra il proprio bagaglio, lasciandosi scappare un gemito per l’improvviso peso sulle sue fin troppo esili spalle, al quale Ravus rispose con un sorriso divertito.
“Sicuro di volerlo portare tu? Non sento la fatica, lo sai.” introdusse il Dunmer, allungando una mano verso una delle cinghie, ma il Khajiit scosse la testa “No… Sei grosso, questo si, ma la gente farebbe domande se ti vedesse con indosso due zaini E l’armatura. Meglio dividersi il peso, almeno per un po’.” Ravus annuì, iniziando poi ad incamminarsi verso le stalle: avevano un carro da prendere, d’altronde.
La loro destinazione era Elsweyr, ma il cocchiere li avrebbe portati solo vicino al confine, un paio d’ore più a sud di Skingard: da lì avrebbero dovuto farsela a piedi fino a Riverhold, in un paio di giorni di cammino, per poi passare un paio di settimane nell’arida provincia, dove Dar’saz sperava di riuscire, anche solo un minimo, a sperimentare la cultura che non aveva vissuto tutta la vita.

Il viaggio fino al confine fu privo di particolari eventi, le strade erano più sicure che mai visto l’incessante afflusso di avventurieri dell’ultimo anno e mezzo, e in ben che non si dica si ritrovarono nuovamente da soli, Riverhold ancora lontana ma la tipica savana di Elsweyr già ben in vista. Di nuovo, senza dire nulla, i due si misero in cammino.
Anche la prima giornata di viaggio passò senza problemi e i due, uno ben più stanco dell’altro, si ritrovarono nel loro modesto accampamento poco lontano da un fiumiciattolo che aveva fornito l’acqua per lo stufato di lepre che stava lentamente bollendo sul fuoco.
“Quindi, Dar” iniziò Ravus, senza nemmeno alzare gli occhi dalla propria lama che stava affilando, rivolgendosi al compagno intento a controllare il cibo “cos’hai intenzione di fare?”
Dar rimase un attimo perplesso dalla domanda “Lo sai, girare un po’ la provincia.” rispose, ma l’altro scosse la testa, quasi a ritmo con il rumore della cote sul metallo “Dopo quello, dopo avermi accompagnato a Morrowind. Tornerai a Cyrodill? A Elsweyr? A Skyrim, in quell’orfanotrofio dove sei cresciuto? Non hai detto niente sui tuoi piani futuri. Io ho da trovare il mio creatore e girare il mondo… Ma tu?”
Dar’saz non rispose, afferrando la propria ciotola e versandovi un’abbondante porzione di stufato. Ravus, ovviamente, si nutriva di altro… e Dar gliel’aveva già fornito.
“Non lo so” rispose, fissando intensamente il pasto, “Non ci ho mai veramente pensato, tranne… Un desiderio infantile, abbastanza stupido, nulla di che.” il Khajiit alzò gli occhi, per trovare l’altro che lo fissava, interessato, facendogli cenno di andare avanti “Adottare un orfano, o magari due, chissà. Da orfano a orfano… Il mio sogno da bambino era qualcuno che si prendesse cura di me, ma non c’è mai stato nessuno e sono finito a fare la vita da criminale prima e mercenario poi. Vorrei solo evitare che la stessa cosa succeda a qualcun altro.”
Ravus annuì “Un proposito nobile. Ma come pensi di mantenere un ragazzino?” “Lavorando, ovviamente, che domande! Potrei mettermi a fare il cuoco in qualche taverna, o magari direttamente il taverniere. Ho ancora qualche soldo da parte, soprattutto con la vendita del ristorante… dovrebbero bastare per una casa, per quanto modesta. Ma tu, piuttosto,” il Khajiit puntò il cucchiaio con fare accusatorio verso il vampiro “che hai intenzione di fare, veramente? Quella storia del viaggiare mi puzza.”
Ravus sospirò “Devo ammettere che non ne ho idea nemmeno io. Quando vivi così tanto tempo, quando vedi le cose che ho visto… il futuro diventa difficile da prevedere. Quindi si, in un certo senso ti ho mentito… ma allo stesso tempo, no. Non ho idea di cosa farò nel caso non riuscissi a trovare il mio creatore a Morrowind, in quell’eremo poco lontano Molag Mar. Potrei mettermi a viaggiare, potrei rendere l’eremo casa mia, potrei anche occupare la cantina di casa tua a Skyrim e dormire per altri mille anni, non lo so. E onestamente la cosa mi spaventa un po’.”
I due rimasero in silenzio per un po’ finché Dar’saz non riprese la parola “Non credo tu debba preoccupartene, onestamente. Sei un vampiro! Hai secoli di vita davanti, puoi permetterti di fare qualche decisione sbagliata. Diamine, le mie decisioni sbagliate mi hanno portato qui, quindi non tutti i mali vengono per nuocere, no? Prova, buttati, non pensare troppo alle conseguenze… finché non è nulla di illegale, ovvio. Se va male puoi sempre cambiare, no? Hai tutto il tempo di farlo, bastardo fortunato che non sei altro.” concluse, strappando una breve risata al Dunmer “Si, credo tu abbia ragione.”

Come stava ormai diventando un’abitudine per i due, anche le settimane nella patria dei Khajiit passarono senza problemi, per quanto Ravus preferisse non avventurarsi troppo in città e tra la gente. Era il momento di Dar, quello.
Dalla punta più a sud di Elsweyr presero una nave per Morrowind, e nello specifico l’isola di Vvanderfell, in un viaggio durato alcune settimane (lunghissime, noiosissime, settimane), fino ad approdare finalmente a Molag Mar.
Un veloce giro di domande ai locali confermò che nessuno conosceva un uomo chiamato Aaravos Vryakules, eppure Ravus sembrò prenderla con filosofia. L’eremo, aveva fatto notare a Dar, era ancora in piedi, quindi c’erano ancora speranze fosse nascosto lì. D’altronde, chissà quanto tempo era passato.
Ci misero un paio di giorni a partire, approfittando della città per riprendersi dallo stress del viaggio in mare, ma quando finalmente lo fecero il viaggio fu assai breve: la dimora di Aaravos, ormai poco più che una rovina miracolosamente ancora con qualche muro in piedi, era a meno di un paio d’ore dalla città.
A un occhio disattento sarebbe parsa una rovina qualsiasi, ma il vampiro sapeva dove guardare: non ci mise molto a trovare una piccola botola in pietra, chiaramente non sollevabile da persone normali e ben mimetizzata con il terreno circostante.
I due, dopo non poca fatica, riuscirono a forzarla, aprendo una porta verso un abisso nero come la pece, le insenature nella roccia che facevano da pioli a malapena visibili.
“Sei proprio sicuro di voler scendere, Dar?” chiese Ravus, osservando il compagno agitarsi sul posto con palese disagio, ma l’altro annuì, deglutendo rumorosamente.
I due scesero, portandosi dietro una torcia per precauzione.
Scesero per svariati minuti, fino a incontrare nuovamente terreno solido: un breve corridoio li separava da quella che un tempo doveva esser stata una porta, ma che giaceva marcescente sul terreno. Il fatto che ancora ci fosse, però, dava speranza.
Superato il corridoio si ritrovarono in un claustrofobico ambiente che subito riempì il Dunmer di familiarità: si trattava di una piccola stanza circolare, scavata nella roccia, scarsamente ammobiliata e fatta quasi interamente di pietra. Un piccolo tavolo accanto a un focolare, con sul lato opposto una superficie ben più lunga e rovinata, macchiata di cenere e con depressioni dovute a qualcosa che aveva scavato la roccia.
E una pergamena.
Ravus vi si fiondò non appena l’ebbe notata, afferrandola con mani tremanti. Non poteva essere così antica, giusto? Non ne aveva idea, ma riconobbe immediatamente il suo contenuto: una mappa di Tamriel, con numerosi luoghi segnati da cerchi o croci. Un itinerario, forse.
Il vampiro fece cenno al compagno di uscire, leggendo il sollievo nei suoi occhi, sorridendo come un bambino.
“È una mappa, Dar, una mappa!” esclamò, non appena i due furono nuovamente in superficie ed ebbero richiuso la botola “Non so quanto vecchia, ma potrei trovarlo, capisci?!” Dar sorrise davanti all’eccitazione del Dunmer. Capiva benissimo.
D’improvviso, però, Ravus si fece serio “Mi spiace però… Temo non potrò accompagnarti a Skyrim come avevo promesso.”
“No? Come mai?”
Il Dunmer gli mostrò la mappa “La località più vicina è a Black Marsh, da tutt’altra parte, e l’unica a Skyrim è a Solstheim. Preferirei non perdere tempo, se capisci cosa intendo. Posso accompagnarti fino a prendere la nave per Windhelm, poi però dovremo separarci.”
Di nuovo, Dar’saz sorrise.
Capiva benissimo.

Il Khajiit, dopo anni, si era trovato nuovamente all’orfanotrofio Honorhall di Riften.
La matrona era cambiata, quindi non l’aveva riconosciuto, non che fosse facile: la donna, una nord dall’acuta voce nasale, lo guidò per i corridoi della struttura.
Era stato fortunato, diceva, c’era proprio un piccolo Khajiit di sette anni disponibile in quel momento. Era lì da anni, diceva la donna, da quando la madre lo aveva abbandonato in fasce.
“Rima!” chiamò la donna, approdata finalmente nella camerata dei bambini. Un piccolo Khajiit grigio rispose alla chiamata, staccandosi dal gruppo di pargoli e muovendosi verso di loro: dimostrava una certa diffidenza, ovviamente, ma sembrava anche speranzoso – qualcosa che a Dar’saz era mancato per molto tempo.
“Rima” continuò la donna “questo signore, Dar’saz, ha fatto domanda per l’adozione di un Khajiit, non sei contento?” chiese senza accennare nemmeno l’ombra di un sorriso, mentre spingeva in avanti Dar.
Il Khajiit adulto si inginocchiò davanti al bambino, l’armatura elfica che faceva capolino da sotto le vesti da viaggio “Ciao ragazzino, io sono Dar’saz. Il tuo nome è Rima, corretto?”
Il bambino annuì, e Dar’saz sorrise.
“Benvenuto a casa, Rima Zahnaihn.”


Ricky
 
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view post Posted on 23/2/2022, 09:01
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Oooh è stato emozionante :pepewhy: mi son sentito come una madre che lascia il proprio bambino crescere e diventare adulto.
Una bella conclusione Shi, grazie :sisi:

aspetto trepidante la continuazione del viaggio di Ravus :sisi:

Non dirmi che lo lasci aperto perché ho un coltello in una mano e un biglietto per Bologna nell'altro :ahstop:
 
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CITAZIONE
aspetto trepidante la continuazione del viaggio di Ravus :sisi:

Non dirmi che lo lasci aperto perché ho un coltello in una mano e un biglietto per Bologna nell'altro :ahstop:

:dolan:

Non credo lo continuerò :nono:
 
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view post Posted on 23/2/2022, 13:53
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Bello Shi, complimenti :sisi: molto toccante e malinconico
 
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Grazie mille Xarl, anche se rileggendo la casa di Ravus mi sono reso conto che sarebbe dovuto esserci anche Uthyh :omg: mi spiace
 
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Eh lo so. Non ti preoccupare :fiorellino: per Uthyn inventerò qualcos'altro, magari che si è tirato indietro
 
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Se vuoi posso scrivere qualcosa anche su di lui, però dovrai aspettare altri cinque mesi :rotfl:
 
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Ma va', stai tranquillo :rotfl: Fallo solo se ti va, sennò mi ci metto io a tempo perso (visto che ora sono positiva, il momento non poteva essere migliore)
 
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Più che altro su Uthyn non saprei che scrivere, quindi fai pure tu, il pg è tuo :sisi: io ho messo Dar qui solo con l'autorizzazione di Ricky :sisi:
 
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Just a Vampire Novel - Capitolo 1

Un altro progetto abbandonato alle nebbie del tempo, un misto tra una lettera d'amore al vampiro classico, una storia comica e altro che nemmeno ricordo :sisi:


La nostra storia inizia in un castello.
Un castello lugubre e macabro, considerato disabitato, appollaiato su di una serie di colline, circondato da una fitta foresta e ben lontano da qualsiasi segno di civiltà per almeno venti Km.
L’unico accesso era costituito da un ponte di pietra, antico quanto il castello stesso, e alle spalle ella struttura v’era solo un volo di ottocento metri fino a impattare nelle fredde acque sottostanti.
Era piena notte e le temperature avevano raggiunto e superato i dieci gradi sotto lo zero. Nemmeno gli animali si azzardavano a far rumore.
La notte era calma e placida, svuotata da suoni di qualsiasi tipo.

Eppure, quattro figure stavano in quel momento attraversando il ponte che collegava il castello alla collina davanti a esso.
Quattro ragazzi, probabilmente sotto ai vent’anni. Attrezzati di tutto punto per combattere il clima gelido e con un grosso zaino a testa sembravano intenzionati a raggiungere il castello.
Nonostante fossero molto giovani, però, nessuno di loro parlava, rideva o si abbandonava alla giovialità tipica della giovinezza. Anzi, sembravano tutti concentrati verso un misterioso compito che, a giudicare dalle loro espressioni e dalla tenacia con cui si muovevano verso la struttura davanti a loro, aveva a che fare con il disabitato castello.
Non ci sono, tristemente, pervenuti i loro nomi: li chiameremo, pertanto, con il colore dei loro zaini. Rosso, Verde, Giallo e Blu.
I nostri intrepidi campeggiatori raggiunsero finalmente il portone del castello, ancora in perfette condizioni nonostante fosse disabitato da innumerevoli anni. Si guardarono, confusi. Non se lo aspettavano, ma non era un problema troppo grande: erano venuti preparati.
Ad un cenno di Rosso, Verde appoggiò il suo zaino sulla superfice del ponte, lo aprì e iniziò a cercare qualcosa mentre gli altri tre si ponevano a una distanza di sicurezza.
Verde sorrise, stringendo in mano un piccolo rettangolo biancastro che subito posizionò sul portone. Armeggiò con l’oggetto un paio di volte, prima di raccogliere il suo zaino e allontanarsi come i suoi compagni.
Dopo un paio di secondi, lo strano affare iniziò a emettere dei suoni.
Poi esplose.
Il portone, inerme davanti alla furia dell’esplosione, si spalancò, un cratere visibile nella parte centrale. Nulla uscì dal castello.
Ovviamente: era disabitato.
I quattro si concessero un breve momento di gloria, per poi tornare seri: abbandonarono gli zaini, prendendo da essi solo il minimo necessario, tra cui appuntiti paletti di legno e crocefissi, e si incamminarono nuovamente verso l’ormai spalancato portone.
Rosso, Verde,Giallo e Blu varcarono la soglia, senza incontrare alcuna resistenza, e accesero delle torce elettriche: ciò che si presentò a loro fu un normalissimo ingresso di un castello medievale, seppur fin troppo ben tenuto per appartenere a quell’edificio disabitato.
Davanti al portone si presentava una scalinata che portava ad un pianerottolo con una porta più piccola mentre la scalinata si divideva poi in due rami opposti che probabilmente raggiungevano sezioni diverse del piano superiore, mentre altre porte erano presenti sui muri del piano terra.
Senza dire una parola, ma stringendosi più vicini, Rosso, Verde e Giallo si diressero verso la porta in cima alla scalinata, cercando di essere il più quieti possibile e muovendo le torce elettriche come disperati alla ricerca di ogni possibile pericolo.
La porta era aperta: una veloce ispezione nella stanza rivelò che si trattava di una lussuosa sala da pranzo, con innumerevoli tavoli disposti in modo ordinato e un piccolo palco in legno adibito probabilmente all’esibizione di musici.
Nulla che interessasse loro.
Rosso e verde decisero quindi di esaminare le porte una per volta, partendo dalla destra del portone: quella porta era chiusa, ma il lucchetto era ormai vecchio e cedette con poche spallate.
La stanza che trovarono dietro la misteriosa porta chiusa li stupì: una cappella. Inusuale, in un posto come quello.
E li stupì maggiormente quello che trovarono nel loro ispezionare la cappella: l’altare risultava spostato, seppur di pochissimo, e sotto di esso era possibile intravedere un’apertura. Pensarono di ricorrere nuovamente all’esplosivo per eliminare l’ostacolo, ma non riuscirono a spingersi fino alla distruzione di un luogo consacrato: numerosi minuti, olio di gomito e imprecazioni più tardi riuscirono finalmente a spostare il massiccio blocco di marmo che componeva l’altare, rivelando una scalinata scavata nella pietra.
Sempre più tesi, i due scesero nelle viscere della terra.

La scalinata li portò giù, sempre più giù: i due persero il conto di quanti scalini avevano percorso poco dopo aver superato i settecento.
Dopo quella che sembrò loro un’eternità, però, Rosso raggiunse finalmente una porta di spesso legno nero.
Anch’essa aperta.
Deglutendo rumorosamente per calmare la tensione che gli attanagliava lo stomaco, Rosso spalancò la porta: davanti a lui, in quella che poteva descrivere unicamente come una grossa caverna artificiale, si trovava un sarcofago di marmo bianco.
“Oh, merda.” mormorò il ragazzo, le prime parole che aveva detto da quando lui e i suoi compagni erano entrati nel castello.
Già, i suoi compagni: ripensandoci bene, aveva smesso di sentire i passi di Verde dietro di lui qualche minuto prima di trovare la porta per quella cripta.
“Oh, merda” ripeté, mentre le sue mani sempre più sudaticce facevano fatica a mantenere una presa solida sulla torcia e sulla croce. Si pulì la fronte con il dorso di una mano, mentre con l’altra muoveva disperatamente la torcia in cerca di qualsiasi indizio della presenza degli altri.
“Ragazzi? Ragazzi, ci siete? Rispondetemi, vi prego.” chiese, disperato, la voce ormai ridotta a uno squittio vagamente udibile.
E poi, dall’oscurità che ancora circondava l’arcata della porta della cripta, una voce.
“Idiota, Warren è morto!”
Una voce profonda, autorevole, ma che allo stesso gli diede una sorta di strano senso di tranquillità: una voce che Rosso scoprì appartenere a un uomo di circa mezza età. Non troppo alto, scuri capelli con qualche traccia di bianco nettamente ordinati e un pizzetto accompagnato da un paio di baffi dello stesso colore dei capelli. Indossava abiti che chiunque avrebbe definito “antichi”: una camicia bianca e un panciotto grigio, sormontati da una giacca nera abbinata a pantaloni e un paio di stivali da fantino dello stesso colore.
Un normalissimo essere umano, se non fosse stato per gli occhi: nelle pupille glaciali, che comunque non sorridevano insieme alla sua bocca, Rosso non lesse altro che una fame insaziabile e una rabbia profonda.
Nonostante la paura che oramai lo attanagliava, però, Rosso aveva una domanda da fare al misterioso figuro.
“W-W-W-Warren?” chiese, estendendo il crocifisso davanti a sé. Se avesse smesso di tremare, però, sarebbe stato anche meglio.
L’altro lasciò andare il sorriso.
“ ‘La dichiarazione di Randolph Carter’ di Howard Philips Lovecraft. Mai sentito nominare? Un vero peccato, si tratta di un autore assai meritevole.” rispose quello che Rosso poteva oramai presupporre essere il proprietario del castello, avvicinandosi.
“Non fare un altro passo, mostro!” urlò Rosso, cercando di non suonare come una scolaretta, brandendo il crocifisso davanti a sé “Pater noster, qui es in cælis, sanctificétur Nomen Tuum, advéniat Regnus Tuum, fiat volúntam Tua… ”
L’altro si fermò a sentire, mentre il ragazzo declamava i Sacri versi. Poi sorrise, ma non era un sorriso allegro, no: era più un ghigno, simile a quello di un lupo che vede una preda debole.
“Ragazzo, sei per caso cristiano?”
“… Amen. Certo che sono cristiano, immonda creatura.”
“Ah, davvero? Perché il Padre nostro che hai appena intonato era errato.” rispose il vampiro, riprendendo ad avvicinarsi nonostante il crocifisso che l’altro brandiva davanti a sé “E, come puoi ben vedere,” aggiunse, strappandogli il piccolo oggetto di mano e spezzandolo a metà “quello non ti ha protetto. Così come non ha protetto i tuoi amici.”
L’ultima cosa che Rosso vide furono un paio di zanne.
Poi, il buio.

***

Il vampiro uscì dalla cripta, per nulla soddisfatto. Marciò per tutta la scalinata, visibilmente rabbioso, e raggiunse l’ingresso senza spiccicare mezza parola. Si avvicinò la portone, ancora completamente spalancato, e osservò il danno che l’esplosivo aveva causato.
Prese un respiro profondo.
Tenne l’aria nei polmoni per un paio di minuti.
Espirò.
E iniziò a urlare.
“MA È POSSIBILE MAI CHE LA GENTE CHE VIENE QUI PER PROVARE A UCCIDERMI NON STIA UN MINIMO ATTENTA?! LA PORTA ERA APERTA, SANTO CIELO, APERTA! NON C’ERA BISOGNO DI FARLA SALTARE CON DEL MALEDETTISSIMO ESPLOSIVO! MA HANNO LA MINIMA IDEA DI QUANTO COSTI UNA PORTA DEL GENERE? E NON SI PUÒ NEMMENO RIPARARE, DEVO FARLA FARE NUOVA! SU MISURA! AAAAAAH!” urlò, lo sfogo diretto a nessuno di particolare, mentre cadeva a terra in ginocchio e si metteva le mani nei capelli.
Avesse potuto, avrebbe pianto: era il terzo portone che doveva far sostituire in meno di un mese.
“‘Tieni la porta aperta’ avevo detto ‘Se vogliono cacciare i vampiri saranno capaci di riconoscere una porta aperta’ mi ero illuso. E INVECE NO! SALTA FUORI CHE I CACCIATORI DI VAMPIRI SONO DEI FOTTUTI IDIOTI A CUI STANNO SUL CAZZO LE PORTE! Aaah, voglio morire… Di nuovo.”
Rimase a terra un altro minuto, crogiolandosi nell’autocommiserazione, prima di rialzarsi, spazzolarsi il vestito, fare un altro respiro profondo e asciugarsi per finta le lacrime che non aveva versato.
“No, non c’è bisogno di comportarsi così. Io, Sigurd Wilhelm Conal Morgan Alberich Myrddin Von Morgenstern, sono un vampiro e dovrei comportarmi come tale, senza disperarmi per le spese di riparazione della terza maledettissima porta in un mese.” si disse, prima di schioccare le dita un paio di volte.
“Joachim? Ho bisogno di te.”
“Certamente, Signore.” rispose una voce assai più profonda da qualche parte verso la sala da pranzo. Un ritmico rumore di passi echeggiò nella sala, fino a che un secondo individuo non entrò nel campo visivo periferico del vampiro.
Sigurd si voltò nella sua direzione, per osservare quello che a conti fatti era il suo più fedele servitore nonché unico amico: un uomo anziano, sulla settantina d’anni, che richiamava alla lettera lo stereotipo del maggiordomo inglese nonostante fosse di origine serba, con radi capelli bianchi perfettamente tirati a lucido, un sottile paio di baffi ad arredare il labbro superiore e l’immancabile frac immacolato.
“Joachim, te ne prego, contatta i fornitori e vedi se riescono a consegnare l’ennesima porta nuova.”
“Certamente, Signore. Se non sbaglio questo mese è la quarta.”
“Quarta? Non ci sono state solo tre incur- ah, già. L’elicottero.”
“Esattamente, Signore, l’elicottero. Per fortuna la vendita dei rottami ci ha fruttato una bella somma.”
“Già, almeno… Senti Jo, se vuoi nella cripta ci sono ancora gli idioti di questa sera, non li ho dissanguati completamente. Chiama anche il resto della servitù e divertitevi, che questo mese è stato particolarmente duro. Un elicottero, tsk… Che si fottano… ”
“Molto bene, Signore, provvederò. Lei, invece?”
“Sarò in biblioteca. Avevo intenzione di leggere un po’ stanotte, prima che ci facessero saltare l’ennesima porta. Ah, giusto, questa qui tienila aperta… tanto peggio di così non può andare.” mugugnò Sigurd, dirigendosi tristemente verso il ramo destro della scalinata. Salì i gradini ce lo separavano dal piano superiore, che altro non era che una copia sputata dell’ingresso, e prese la porta che lo condusse alla sua biblioteca.
Ah, la biblioteca. Adorava quel posto: aveva passato secoli interi ad accumulare scibile su ogni argomento che catturasse la sua attenzione e a organizzare e catalogare i volumi con una cura che non avrebbe riservato nemmeno ai suoi stessi figli, se ne avesse avuti.
Quella notte, però, Sigurd non aveva voglia di trattati filosofici, disquisizioni politiche o semplice narrativa, no: gli ultimi eventi chiamavano per una pace che lui riusciva a trovare unicamente con il suo tesoro più prezioso, bene al sicuro in una teca di vetro antiproiettile al centro della biblioteca.
La sua copia manoscritta di “Dracula”, autografata da Bram Stoker in persona.
Passò la mano sulla ruvida copertina in pelle, maneggiando il libro come se fosse una reliquia. Ah, com’era più facile la non-vita nell’Ottocento. Anni in cui l’unico rischio per il benessere del vampiro medio era l’occasionale massa di contadini armati di torce e forconi e non idioti che facevano saltare le porte d’ingresso con esplosivi o elicotteri.
Stava per aprire la prima pagina e immergersi finalmente nella lettura, quando un sottilissimo rumore lo fece sobbalzare. Rimase in ascolto, muovendosi per riporre nuovamente il volume nella teca, sperando che fosse solo la tensione rimasta a giocargli brutti scherzi.
Aprì la teca.
Posizionò “Dracula” al suo posto.
Si guardò intorno con lo sguardo, le orecchie sempre tese e pronte a captare anche il minimo rumore.
Nulla.
Chiuse la teca.
Nulla.
Fece un passo verso destra.
Niente.
Fece un altro passo.
Niente di niente.
Un terzo passo.
Assolutamente niente.
Tirò un sospiro di sollievo, asciugandosi la fronte da un sudore che non c’era.
E, d’istinto, si trasformò in un banco di nebbia mentre un rumore assordante riempiva la biblioteca e una pallottola attraversava lì dove sarebbe dovuto trovarsi il suo occhio destro.
Si riformò un paio di passi più a sinistra, scrutando con attenzione il punto da cui era venuto l’inefficace attentato alla sua non-vita.
Gli sembrò di notare, tra le ombre degli scaffali, un qualcosa in movimento.
Bene.
Poteva divertirsi un po’.
“Tu avere veramente usato pishtola per cercare di uccidere me, Conte Vampyro? Tu essere kreatura molto, molto sciocca. Io, Conte Vampyro, sukierò tuto tuo sangue.” urlò, rivolto vero il fondo della biblioteca.
Il suo sguardo, però, era fisso su di un punto poco più a destra di dove era rivolto, pronto a qualsiasi azione da parte del suo ospite indesiderato.
E infatti, proprio come si aspettava, captò un sibilo proveniente dal punto che stava fissando: con perfetto aplomb mosse il braccio sinistro come per scacciare una mosca, per poi lasciarlo penzolare indolente.
Tra il medio e l’anulare stringeva la lama di un grosso Bowie Knife, che prontamente lasciò cadere a terra.
“Inutile, inutile! Colteli più utili di pishtole, ma comunque inutili contro me, Conte Vampyro, durante notte! Voi creature di giorno no avete potere durante non giorno contro noi creature di notte!” continuò a urlare, trattenendo le risate per quanto idiota fosse l’intera situazione, muovendosi per fissare il punto da cui era partito il coltello.
L’ombra si mosse di nuovo, ma stavolta Sigurd aveva finito di giocare: non si limitò a seguirla con lo sguardo, ma decise di mostrare al suo misterioso nemico che nascondersi era veramente inutile e mosse il suo intero corpo mentre teneva gli occhi puntati verso l’ombra.
Ombra che, evidentemente, aveva un ultimo asso nella manica: lanciò verso il vampiro quello che pareva un tubo, che già a mezz’aria iniziò a sprigionare una fitta coltre di fumo. Appena l’oggetto toccò terra poco lontano da lui iniziò a girare su se stesso, ben presto riempiendo l’intera stanza di fumo bianco.
Sigurd, preso alla sprovvista da una mossa del genere, si mise in ascolto lievemente più preoccupato: se quel mortale era disposto a sacrificare la sua stessa capacità di vedere, doveva essere molto ben preparato.
O molto, molto, molto stupido.
Il vampiro si spostò, in perfetto silenzio, di un passo più a sinistra, assicurandosi di pestare la lama del coltello con il piede.
E attese, gli occhi chiusi e le orecchie pronte a captare qualsiasi suono che potesse ricondurre al suo avversario.
Un secondo.
Due secondi.
Tre secondi.
Un rumore di passi alla sua sinistra. Si girò, leggermente.
Quattro secondi.
Cinque secondi.
Sei secondi.
Passi più vicini, stavolta più a destra. Cercava di confonderlo.
Non si mosse.
Sette secondi.
Otto secondi.
Nove secondi.
Dietro di lui. Sempre più vicino.
Dieci secondi.
“Ora.”
Mentre il misterioso assalitore gli si scagliava contro, speranzoso di poterlo colpire alla schiena, il vampiro fece la sua mossa: si girò verso di lui facendo perno sul piede destro, le braccia protese in avanti.
Quando le nocche della mano sinistra sentirono il fiato caldo del suo avversario, Sigurd seppe di aver vinto. Aprì gli occhi, puntando il suo sguardo sull’altro, il volto coperto da un visore a infrarossi e il corpo avvolto da equipaggiamento pseudo-militare, mentre la mano destra si stringeva sul collo del mortale e lo sollevava in aria.
Lo sentì scalciare, sia per la mancanza d’aria che per la pressione imposta sulla delicata spina dorsale, e lo tenne così per un po’, allentando la presa di un minimo per non farlo soffocare troppo in fretta, mentre si prendeva del tempo per calciare via il fumogeno, che aveva smesso di produrre la sua coltre bianca, mentre le finestre venivano spalancate da un vento gelido che ripristinò di un minimo la visibilità nella biblioteca.
Rivolse nuovamente l’attenzione al prigioniero, indeciso se schiacciargli la trachea e farla finita o metterlo fuori combattimento e bere il suo sangue con calma, per notare due cose: uno, che il visore era caduto e il suo prigioniero era effettivamente una prigioniera e due, la suddetta prigioniera stringeva in mano un secondo coltello e lo stava dirigendo esattamente verso il suo stomaco.
La lama impattò contro il tessuto della giacca, lacerandolo.
E si spezzò di netto non appena toccò la pelle vera e propria.
Sigurd lesse stupore, sconforto e, soprattutto, disperazione negli occhi della ragazza e decise di sorriderle. Non solo per deridere il suo stupido piano, ma anche perché aveva appena avuto grandi idee per lei.
“Come io avere detto, colteli più utili di pishtole ma comunque inutili contro me, Conte Vampyro.” le sibilò, prima di avvicinare il suo volto a quello della ragazza, spalancare la bocca…
E lasciare la presa sul collo, lasciandola cadere a terra.
La ragazza non perse tempo per cercare di riprendere fiato, sempre stringendo saldamente il moncone di coltello prima di fissarlo spaventata e confusa.
Sigurd le sorrise nuovamente, stavolta con una minuscola punta di calore.
“Ora, abbandonando quel ridicolo accento, passiamo agli affari. Come avrai notato, ti ho lasciato vivere. Alzati.”
La ragazza non si mosse.
“Alzati, ho detto.”
“No” gli rispose la cacciatrice, la voce ancora roca.
Sigurd si passò una mano sul volto “Non so se l’hai capito, ma non hai esattamente voce in capitolo.” rispose, afferrandole il braccio destro e tirandola su di forza.
La trascinò quindi verso uno dei muri della biblioteca e ce la appoggiò contro, con il braccio sempre saldo tra le sue dita.
“Ora che sei in piedi, passiamo alle cose serie. Premetto che potrei ucciderti in questo esatto momento e sicuramente non perderei il sonno per questo. Tuttavia, viste le tue capacità ben sopra la media della gente che normalmente si presenta alla mia porta, voglio proporti un patto. Se lo accetterai, la tua vita sarà salva.”
Lei lo guardò, una minuscola scintilla di speranza nello sguardo “C-che genere di patto?”
“Molto semplice: voglio che quelli come te la smettano di attaccarmi. Quindi tu vivrai nel castello fino a che non sarai persuasa che ci sono cose molto più utili che voi cacciatori potete fare al posto di venire qui e distruggere le mie porte.”
“Ad - coff - esempio?”
“Ad esempio andare a rompere il cazz- andare a caccia di altri vampiri ben più malvagi di me. Quindi, accetti?”
La ragazza lo guardò, pensierosa, per un minuto buono.
“Accetto la tua offerta.”
Il volto di Sigurd si illuminò “Perfetto, perfetto! Tuttavia, c’è un piccolo problema.”
“Che-che genere di problema?”
“Ora come ora non posso assolutamente fidarmi di te. Pertanto dovrò renderti inoffensiva, ma sappi che lo faccio con un infinita tristezza nel cuore.”
Il volto della ragazza divenne nuovamente una maschera di terrore, ma prima che potesse fare qualcosa il vampiro aveva già agito: la stretta al braccio si era fatta più forte e aveva provveduto a colpirle la spalla con un pugno.
Nell’aria risuonò cristallino il rumore di un osso spezzato.
La cacciatrice non fece nemmeno in tempo a strillare: semplicemente perse conoscenza per lo shock.
“Uff, quanto fragili questi mortali” mormorò Sigurd, accostandola al muro senza particolari cerimonie, per poi rivolgersi alla familiare figura del suo servitore che stazionava davanti alla porta. “Joachim, preparale una stanza in una delle torri e rimettila in sesto. Ah, e giù le mani del suo sangue, stessa cosa per il resto della servitù. Lei ci sarà molto, molto utile.”

***

Non appena la ragazza aprì gli occhi si trovò in una situazione parecchio diversa da quella in cui aveva perso conoscenza: non si trovava più sul pavimento della biblioteca ma in un letto in una piccola stanza, non riusciva a muovere il braccio destro, che un veloce sguardo confermò essere immobilizzato da un gesso, e c’era un uomo anziano a fissarla.
Uomo anziano che non appena notò che si era svegliata uscì dalla stanza, per poi rientrare dopo pochissimo con il padrone del castello.
Il vampiro che era venuta a uccidere.
Sigurd osservò la stanza, già piccola di per se ma la cui mancanza di arredamento la faceva sembrare ancora più soffocante (c’erano infatti solo un tavolino con una sedia e il letto su cui giaceva la cacciatrice), avvicinò la sedia al letto e vi si sedette, mentre Joachim chiudeva la porta e vi si posizionava davanti.
“Allora” iniziò il vampiro, il tono asciutto ma lievemente più cordiale rispetto alla freddezza dimostrata nella biblioteca “iniziamo con le presentazioni. Il tuo nome?”
“Tra i vampiri non è buona educazione presentarsi, prima di chiedere il nome altrui?” rispose la giovane, acida. Aveva detto che avrebbe collaborato, ma non aveva mai specificato che l’avrebbe fatto cordialmente o con particolare voglia.
Inoltre il braccio le faceva ancora un male cane.
“Tra i vampiri è buona educazione ricordare alle cacciatrici di vampiri con l’omero fratturato la cui vita dipende unicamente dalla mia benevolenza che questo è il mio castello e io faccio il cazzo che mi pare.” rispose Sigurd, con un sorriso che trasudava veleno da ogni fessura “Ora, di nuovo: il tuo nome?”
Era inutile discutere ulteriormente “Elizabeth.” mugugnò.
“Ah, perfetto. Era tanto difficile?” Elizabeth lo ignorò “Ora, il mio turno: Sigurd Wilhelm Conal Morgan Alberich Myrddin Von Morgenstern, al tuo servizio.”
La ragazza lo fissò, incredula.
Sigurd ricambiò lo sguardo.
“Io non… non credo di aver capito.”
“Non aver capito?”
“Il tuo nome. Mi dev’essere sfuggito.”
Sigurd sospirò “Mortali. Il mio nome è Sigurd Wilhelm Conal Morgan Alberich Myrddin Von Morgenstern. Chiaro adesso?”
La ragazza non sembrava ancora completamente convinta.
“Vuoi che lo ripeta di nuovo? Magari più lentamente?”
“Sarebbe d’aiuto, si.”
“Uff, stupidi mortali… Allora: Sigurd.”
“E questo ok.”
“Wilhelm.”
“Strano, ma ok.”
“Conal.”
“Conal? Ma è un nome vero?”
“Certo che è un nome vero! È Gaelico! Comunque: Morgan.”
“Non è un nome da donna?”
“È unisex! Alberich.”
“E ancora nomi strani.”
“Sei sorprendentemente ignorante di mitologia per essere una che dà la caccia a creature sovrannaturali, ragazza. Ora l’ultimo: Myrddin.”
“Eh?”
“Myrddin.”
“No-non ho capito.”
“MYRDDIN! M-Y-R-DUE D-I-N!”
“Anche questo è Gaelico?”
“NO! È GALLESE!”
“Va bene, va bene, calmati… santo cielo… ”
“Giu- giusto, chiedo perdono. Devo… devo aver perso un po’ la calma.”
“Si, l’avevo notato… Comunque… er… come vuoi che ti chiami? Perché ripetere ogni volta Sigurd Wilhelm Conal eccetera eccetera alla lunga stanca.”
“Si, immagino… Sigurd andrà bene. Lord Sigurd sarebbe la forma più corretta, ma non sei obbligata.”
“Quale magnifica magnanimità… Comunque, Sigurd, cosa vuoi che faccia, effettivamente?”
“È molto, molto semplice: dovrai essere mia ospite.”
“Solo?”
“Certamente. Essendo mia ospite capirai che non c’è bisogno di darmi la caccia e, una volta che l’avrai capito, tornerai dagli altri cacciatori di vampiri e glielo farai sapere. In tal modo io potrò vivere in eterno in pace e voi potrete prendervela con quei vampiri effettivamente malvagi.”
“ ‘Altri cacciatori’? Cosa ti fa pensare che io possa tornare da altri cacciatori?”
Sigurd sorrise “Oh, due cose: la prima, la questione del tuo addestramento. Qualcuno deve averti addestrato, non particolarmente bene, ma deve averti addestrato e, soprattutto, fornito quell’equipaggiamento militare con cui ti sei presentata. Che, a proposito, ti verrà riconsegnato quando te ne andrai, nel caso tu lo rivoglia indietro.”
“E la seconda motivazione?”
“Questo” rispose il vampiro, tirando fuori dal taschino della giacca un piccolo oggetto rosa di forma rettangolare, che subito procedette ad aprire, identificandolo: era un piccolo flip phone, antiquato ma evidentemente abbastanza resistente da sopravvivere alla caccia ai vampiri.
Elizabeth arrossì immediatamente nel vederlo “Ah, quello… ”
“Oh, non abbatterti. È effettivamente una buona idea avere un mezzo di comunicazione. Comunque, controllando la rubrica ho notato un contatto segnato come ‘Maestro Sensei Senpai Semmai’, cosa che non ho capito ma che immagino i non voler capire, e ho fatto due più due. Ora, chiamiamo questo tuo ‘Semmai’.”
“Aspetta, per favore…!” cercò di intromettersi Elizabeth, mettendosi a sedere sul letto nello slancio, ma senza successo: il vampiro aveva già avviato la chiamata e il telefono aveva già iniziato a squillare in vivavoce.
Dopo un paio di squilli, una voce familiare alla ragazza si udì provenire dall’apparecchio elettronico “Elizabeth! Tutto ok? L’hai ucciso? Avevi detto che mi avresti chiamato solo se l’avessi ucciso!”
La voce, però, non era familiare solo alla ragazza: nel sentirla, il volto di Sigurd mutò in una maschera di pura rabbia che Elizabeth non gli aveva visto addosso nemmeno mentre stava per ucciderla.
“Carver?” sussurrò, la voce piena di talmente tanta rabbia e veleno che Elizabeth dovette controllare il pavimento per assicurarsi che non si fosse sciolto. La cosa la stupì. Sigurd conosceva il suo Maestro? Certo, era stato lui a indirizzarla al castello, ma non pensava ci fosse una storia dietro.
L’uomo all’altro capo del telefono, Carver, sobbalzò “Sigurd? Mostro maledetto, cos’hai fatto a Elizabeth?”
“È ancora viva, ma solo perché ho promesso che non le farò del male e sono un uomo di parola. E, soprattutto, non credo nel far ricadere sui figli le colpe dei padri, maledetto serpente.”
“Io serpente?! Da che pulpito, sanguisuga infernale. Maledetto, farai meglio a non fare cose strane o… ”
“O cosa? Verrai tu qui, nel tuo stato? Sei terribilmente, terribilmente stupido se pensi di farcela. Come va il braccio?”
“Maledetto… ”
“La mia è una promessa, Carver: fatti vedere da queste parti e giuro che finirò quello che ho iniziato anni fa.” sibilò Sigurd, per poi chiudere la chiamata e infilarsi di nuovo il telefono nel taschino.
Rivolse quindi la propria attenzione su di Elizabeth, puntandole un dito contro “Tu, ragazza… Sei stata molto, molto fortunata che io abbia scoperto solo ora il nome del tuo maestro. O ora non saresti qui.” disse, quasi ringhiando come un cane rabbioso, prima di uscire dalla stanza.
Elizabeth era allibita. Aveva appena scoperto che non solo era viva sempre più per un miracolo, ma anche che il suo mentore e il vampiro che al momento la ospitava e voleva usarla come mezzo di propaganda non solo si conoscevano, ma si anche odiavano a morte.
Esausta, si lasciò cadere sul letto, notando però che l’anziano in frac non era andato via.
Si risollevò, molto a fatica, e gli sorrise “Beh, a quanto pare dovrò rimanere qui per un po’. Tu sei?”
L’anziano si avvicinò, occupando la sedia accanto al letto “Joachim, per servirti. Poco. Sono pur sempre al servizio di Lord Sigurd.”
“Certo, certo… uff… Senti, Joachim, anche tu sei un vampiro?”
“Ovviamente. Come tutta la servitù.”
“E certo. Scema io per non averci pensato… Quindi, non è che sai cosa è successo tra il Maestro e Sigurd?”
“Certamente. Ero qui quando la loro disputa iniziò: Lord Sigurd e il vostro “Maestro”, Carver, si conoscono da molti, molti anni.
Tempo fa, che voi ci crediate o no, Sigurd non era il vampiro che è oggi: era ben più violento e sanguinario, prono a scatti d’ira improvvisi e terribili. Comandava terrificanti forze, magie nere che si mormorava insegnateli dal diavolo in persona. Interi villaggi sparivano da un giorno all’altro, se ne aveva voglia.
Fino a un certo giorno, qualche centinaio di anni fa.
Non vi dirò nel dettaglio cosa accadde, non sta a me rivelare i segreti del mio Lord, ma successe una certa cosa che lo cambiò.
Da violento e selvaggio quale era divenne pacato e razionale, quasi… umano. Spostammo il castello in questo luogo, lontano dagli umani, e vivemmo in pace per molti, molti anni.
E poi, settanta anni fa, il tuo maestro ci trovò.” Joachim fece una pausa, fissando la porta da cui il suo Lord era uscito “il Lord e io non eravamo al castello in quel momento, ma… altro… si. Carver si accanì su ciò che trovò, arrivando fino a danneggiare profondamente il castello stesso. Quando io e il Lord tornammo, un paio di giorni dopo, e scoprimmo cos’era accaduto… Lord Sigurd giurò vendetta.”
“Cosa successe poi?” chiese Elizabeth, intrigata da quella storia nonostante stesse iniziando a rimettere insieme alcuni pezzi.
“Lord Sigurd passò anni a cercare il responsabile. E quando lo trovò… non fu piacevole. Sembrava tornato quello di un tempo: si accanì per prima cosa su ciò che il cacciatore aveva di più caro in questo mondo, prima di rivolgere la sua ira su di lui. Si scontrarono per molti anni, in molti luoghi diversi del mondo. A volte da soli, a volte con alleati… ma l’odio tra loro due non sembrava avere fine.”
“E tu?”
“Io ero qui, adempiendo all’ultimo compito che il mio Lord mi aveva dato prima di imbarcarsi nella sua crociata: ricostruire il castello.
Alla fine, quarant’anni dopo quella fatidica notte, Lord Sigurd fece ritorno a casa. Non dimenticherò mai la scena: emerse dalla foresta, i vestiti a brandelli e l’aria mesta, invecchiato. Probabilmente non si nutriva da tempo. Si avvicinò a me, che lo stavo aspettando sul ponte come ogni giorno, e solo in quel momento notai che aveva qualcosa in mano: un braccio, strappato di netto, che lasciò cadere a terra non appena mise piede sulla pietra.
‘Ho vinto’ mi sussurrò ‘E questo è il mio trofeo’ aggiunse, prima di superarmi e zoppicare dentro il castello. Quella notte, tre giovani uomini caddero sotto i suoi canini.”
Elizabeth era inorridita “Ma… allora… Il braccio del maestro… ”
“Vedo che inizi a capire”
“E quelle foto… la donna, i… i bambini… ”
“Erano sua moglie e i suoi figli.” Joachim rispose, con voce molto sottile “Erano.”
Inclinò il capo e uscì dalla porta, lasciando la giovane sola con i suoi pensieri.

***

Joachim, uscito dalla stanza della ragazza, sapeva dove trovare Sigurd: tornò al piano terra imboccando la strada della cripta e scendendo fino a raggiungere il luogo di riposo del suo amico. Solo, ora le pareti della stanza non erano più lisce e uniformi come qualche ora prima, quando Rosso vi aveva fatto irruzione: una piccola alcova era visibile nella parete dietro alla bara, alcova davanti alla quale si ergeva il suo Signore, immobile e con il capo chinato, in silenzio.
Joachim gli si affiancò, osservando il piccolo memoriale davanti a loro e rispettando il silenzio di quel momento.
Fu Sigurd a prendere la parola, la voce mesta, senza staccare gli occhi dal pavimento “Credi… credi che stia facendo la cosa giusta?”
La domanda non era per lui, ma Joachim decise di rispondere ugualmente “Credo di si, Sig. Credo di si. E sono sicuro che… che approverebbe.”
“Approverebbe, dici? Le mie azioni, forse. Ma approverebbe quello che sono diventato? Quello che ho fatto in questi anni?”
“Sono sicuro di si, amico mio.”
“Tu sarai sicuro, ma io… Santo cielo, Joachim, quei bambini… una parte di me è inorridita dal fatto che possa essere arrivato a tanto, ma un’altra mi urla che ho fatto troppo poco. Approverebbe anche questo?”
“Non lo so, Sigurd.” sospirò Joachim, poggiandogli una mano sulla spalla “Non lo so.”
 
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view post Posted on 19/4/2022, 18:31
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Fog - Capitolo 2

Gli occhi violacei dell’uomo si fissarono sulla donna, freddi “Mh-hm” mormorò, per poi alzarsi in piedi “Rifiuto” commentò, senza troppi giri di parole, prima di girare i tacchi e muoversi per la porta.
“Ma…! Lord Quinn! Non potete rifiutare! Assistere in queste situazioni è il vostro dovere…” iniziò Vincent, che stava facendo per seguirlo, prima di venir tagliato dal rinnegato “… il mio dovere come Mago dell’Accademia immagino, o come Teurgo di Demonologia. Beh, indovina un po’, non sono più né l’uno né l’altro, né ho la benché minima intenzione di rischiare la pelle per questo posto. Dite a Rufus di insegnare delle Protezioni decenti, piuttosto, dato che non sono buone a fermare questo Demone-Nebbia che vi ritrovate in mano. Il mio laboratorio è protetto, io sono protetto,” continuò, scostando di poco il bavero della camicia per mostrare quello che pareva un simbolo marchiato a fuoco sulla collottola “e pertanto me ne frego.” concluse, prima di ricominciare ad avviarsi verso la porta.
L’aveva aperta, sotto lo sguardo attonito di Vincent, e stava per uscire, quando la voce di Layla ruppe nuovamente il silenzio.
“Ha usato le tue Protezioni.”
Eldred si girò immediatamente, il volto confuso, come se non avesse capito bene “Come prego?”
“Quando quelle standard hanno fallito, è venuto a chiedermi se avessi ancora qualche tuo appunto, se magari poteva trovarci qualcosa di più utile… e ne avevo alcuni. Ma anche le formule lì sopra non sono servite a nulla.”
Eldred chiuse la porta, marciò nuovamente alla scrivania della donna e la guardò negli occhi, sul volto un’espressione sconvolta che Vincent mai gli aveva visto fare “Hai ancora i miei appunti?” chiese, la voce quasi tremante.
“Si”
L’uomo sbatté una mano sulla scrivania “Dammeli. Ora.” riuscì a sputare, la voce impastata come se fosse ubriaco, ma la donna scosse la testa “No. Appartengono all’Accademia… E, come hai ben ricordato prima, tu non sei un Mago dell’Accademia.”
Eldred espirò rumorosamente dal naso, digrignando i denti “Layla, su quegli appunti c’è il lavoro della mia vita. Qualcosa che rivoluzionerebbe il modo stesso in cui vediamo la magia. Qualcosa che potrebbe salvarti la vita… ” continuò, prima di rendersi conto di quello che aveva detto, e mordersi la lingua. Ma l’ultima frase non era sfuggita alla donna, che sorrise, genuinamente, per la prima volta in quella nottata “Ah, quindi è così…” mormorò, prima di tornare seria, un sorriso malizioso sulle sue labbra “Bene, Eldred, ti propongo un accordo. Un patto, se vuoi, che è qualcosa che dovrebbe esserti più familiare: se parteciperai a quest’investigazione, se offrirai la tua conoscenza all’Accademia di Roxmore, se metterai la tua esperienza a frutto per contrastare questo Demone, ti verranno restituiti i tuoi appunti, nella loro interezza. Accetti?”
Eldred la guardò ancora per un paio di secondi, per poi annuire “Accetto, Arcimaga. Collaborerò con l’Accademia per questa investigazione.”
Il profondo sospiro di sollievo di Vincent ruppe il silenzio.
Entrambi si girarono verso di lui, lo sguardo colmo di disapprovazione, ma il ragazzo si limitò a scrollare le spalle “Non giudicatemi, era un momento teso.”
Layla sbuffò “Uff, e anche questa è fatta. Ora, Eldred, puoi rimanere qui a dormire, nessuno ha più usato quella che era la tua stanza. E, se lo fai, fatti un bagno prima, che vivere sotto i quartieri bassi non ha aiutato con il tuo odore.”

Un’oretta abbondante e un altrettanto abbondante bagno corredato da taglio di barba e capelli dopo la fine dell’incontro, Eldred giaceva sul letto che dieci anni prima gli era appartenuto, immobile, con il braccio scheletrico protratto in alto.
“Dieci anni… ” mormorò, senza staccare gli occhi dalle ossa “dopo dieci anni torno in questa stanza, dopo dieci anni potrei finalmente riprendere in mano i miei appunti… riprendere la mia ricerca da dove l’avevo interrotta… Prima del pagamento… ”
Lascio cadere il braccio, che impattò sulle coperte con un rumore sordo. Il Demone, ovviamente, non aveva specificato quale ricordo si sarebbe preso, e lui nel panico non aveva chiesto, non aveva provato a negoziare… e ovviamente il Demone aveva preso il ricordo a lui più caro, quello più importante.
Ho degli appunti, si era detto non appena si era reso conto di quale ricordo era sparito. Posso ricominciare, aveva affermato.
Poi Layla e gli altri Teurghi avevano fatto irruzione nella sala, e il resto era storia.
Sospirò profondamente, scostando le coperte e sedendosi sul lato del letto. Si tirò la manica della vestaglia che gli era stata data fino alla spalla, scoprendo il braccio scheletrico e stendendolo davanti a sé.
Erano diciassette anni che non pronunciava quel nome, ma lo sentiva agitarsi nella sua mente come fosse la prima volta: in un sussurro, gli occhi chiusi, esalò una singola parola.
“Verstael”
La stanza era completamente buia, senza nemmeno la luce della luna a provvedere un minio di conforto dall’oscurità, ma paradossalmente il buio si fece ancora più opprimente non appena il nome ebbe lasciato le sue labbra.
Non era un’evocazione completa, ovviamente: il solo nome di un demone non aveva abbastanza potere per permettergli di superare il Velo, in circostanze normali non sarebbe successo nulla.
Ma le sue non erano circostanze normali, come gli stava dolorosamente ricordando il marchio alla base della schiena che fino a quel momento aveva nascosto sotto i vestiti.
Due occhi rossi fecero capolino poco sopra la sua mano, un peso aggiunto che si materializzava improvvisamente sul suo braccio teso.
“Eldred, caro ragazzo… ” sibilò una voce nella sua testa mentre il paio di occhi strisciava più vicino “Quanto tempo è passssato… dopo diciasssssette anni finalmente ti ricordi di me… ” gli occhi arrivarono a incrociare i suoi, due abissi cremisi e senz’anima.
L’uomo sostenne lo sguardo, quindi il demone parlò di nuovo “Cossssa ti ssspinge a chiamarmi? Bissssogno di conssssigli? Di aiuto? Di più potere, forssse…?”
“Ho bisogno di informazioni.” sussurrò lui, in risposta, ricevendo un sibilo eccitato in risposta “Oh, ssssi, informazioni… Possso darti informazioni, certo… Ma tu conssssci benisssssimo il prezzo.”
“Un altro ricordo?”
“Oh, no, no, no, no… ” il tono del serpente si era fatto quasi canzonatorio “Quello era il prezzo introduttivo… Voglio il tuo corpo, per un anno, tra un anno.”
La camera ricadde nel silenzio più assoluto. Né l’uomo né il demone si azzardavano a emettere il minimo rumore.
“Rifiuto” la voce di Eldred penetrò come una lama nella cappa che si era creata “Posso cederti i miei ricordi, ma non avrai mai il mio corpo. Avrò pur fatto un patto con te, ma nemmeno io sono così folle, Demone.”
“Lo vedremo, Eldred Quinn.” rispose Verstael, lasciando cadere ogni pretesa di amicabilità, il tono duro e freddo come l’acciaio “Arriverà un giorno in cui mi chiamerai per la terza volta, un giorno in cui la possibilità di fallire e le conseguenze del fallimento ti sembreranno insormontabili. E quel giorno io sarò lì, pronto a ricevere la tua offerta.”
Con quell’ultima non così velata minaccia, i due occhi rossi svanirono e la stanza ripiombò nell’oscurità.

La mattina dopo, Eldred si svegliò da un sonno tormentato con qualcuno che bussava alla sua porta.
Come prevedibile, era Vincent.
“Lord Quinn? L’Arcimaga ci sta aspettando.” arrivò la sua voce da dietro la spessa porta di quercia.
“Arrivo!” rispose Eldred, scansionando la stanza con gli occhi per trovare qualcosa di presentabile da mettersi. Non aveva più i vestiti con cui era arrivato, ovviamente: era stato istruito a lasciarli nel bagno, dove qualcuno li avrebbe prelevati e probabilmente bruciati fino a non lasciarvi nemmeno le ceneri.
Eldred non li biasimava, pensò mentre il suo sguardo cadeva su una serie di panni ripiegati su una sedia, probabilmente solo guardarli bastava per prendersi un’intera collezioni di malanni.
Gli abiti che Layla aveva preposto che lui indossasse lo riportarono immediatamente a diciassette anni prima: una camicia bianca, sopra la quale avrebbe dovuto indossare una giacca dal colletto alto, nera con finimenti dorati, corredata a pantaloni dello stesso colore, e per concludere un pesante mantello di lana con cappuccio per il freddo e un paio di guanti bianchi.
Una copia di quello che aveva indossato ogni giorno, per quindici anni.
“Maledetta sentimentalista” sussurrò, non riuscendo però lui stesso a trattenere un sorriso mentre indossava il tutto, trovando sotto gli abiti anche un piccolo pacchetto che una veloce ispezione rivelò contenere un paio di stecche di gesso e un piccolo taglierino.
Trovò Vincent a braccia conserte davanti alla sua porta, abbigliato nello stesso modo del giorno prima, intento a tamburellarsi con le dita sul gomito, impaziente.
“Oh, finalmente” esordì vedendolo uscire, per poi rendersi conto di quello che aveva detto e subito mordersi la lingua “Nel senso… finalmente date notizie di voi, Lord Quinn, temevo vi fosse successo qualcosa durante la notte.”
Eldred alzò un sopracciglio “Avevo detto che stavo arrivando, no? Ah, poi, dammi pure del tu, non sono più un Lord.” si stiracchiò, aggiustandosi il capo sulle spalle “Immagino Layla ci stia aspettando, no?”
Vincent scosse la testa “No, sulla sua scrivania l’Arcimaga ha lasciato un biglietto con istruzioni, dobbiamo raggiungere il luogo dell’ultimo attacco. Ci sono sopravvissuti, a quanto pare.”
Eldred si limitò a un versaccio “Tipica Layla: ti dice ‘va’, corri libero a fare quello che devi fare’ e si presenta alla fine” subito dopo, tuttavia, sorrise “certo, alla fine contribuiva anche lei… Ma comunque rimane inaccettabile! Andava bene quando avevamo quindici anni ed eravamo studenti, ma adesso ne ha quaranta ed è l’Arcimaga, per il Velo, un po’ di responsabilità!” continuò, sempre però con un sorriso sul volto.
Tornato serio, si girò verso Vincent, trovandolo però sorridente a sua volta: anche il giovane tornò subito serio, ma non prima che Eldred gli lanciasse uno sguardo interrogativo.
“Oh, no, nulla… ” rispose Vincent, iniziando a camminare “… è solo che sentirti parlare così mi ricorda da quanto tempo tu e l’Arcimaga vi conoscete. È un peccato che i rapporti tra di voi si siano rovinati, assieme avreste potuto fare grandi cose, ne sono certo.”
Eldred sospirò, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni e rimanendo in silenzio per un paio di minuti “Chissà?” esordì, finalmente “Eravamo una bella squadra, senza dubbio… ma Layla è sempre stata troppo fissata col seguire le regole alla lettera. L’hai visto anche tu, no? Dopo tutti questi anni, dopo tutto quello che abbiamo passato assieme, dopo aver sentito finalmente la mia versione della storia, ancora è convinta di aver fatto la cosa giusta. Certo, anche la sua terribile testardaggine non aiuta… ” sospirò di nuovo “Ma, onestamente… sono contento di averla rivista. Sarei stato più contento se non avessi scoperto di Teofilo, ma eh, magari puoi convincerla tu a rimetterci il mio nome là sopra.”
“Posso fare un tentativo, ma non credo di riuscirci… Piuttosto, una domanda che mi frulla in testa da ieri sera…” rispose Vincent, pensieroso “Come mai hai accettato di venire, alla fine? Le protezioni sui miei vestiti non avrebbero retto un altro di quei fulmini, potevi benissimo colpirmi di nuovo e continuare con la tua vita.”
“Oh, due motivi” rispose l’altro, mentre i due varcavano finalmente il cancello dell’Accademia e salivano sulla carrozza che evidentemente li stava aspettando “Il primo, è che mi hai effettivamente colpito. Sei venuto preparato, seppur in maniera abbastanza incosciente, e le tue protezioni hanno effettivamente retto un colpo. Certo, la magia da battaglia non è il mio forte, ma ho messo parecchia energia in queste bellezze” aggiunse, mostrando la mano destra, sulle nocche della quale potevano intravedersi dei bagliori violacei sotto il guanto bianco “Il secondo, come avrai capito non avevo intenzione di accettare. Volevo sapere cosa volesse da me Layla, togliermi la soddisfazione di dirle di no e magari spaccare qualcosa per ripicca. Poi lei ha tirato fuori la storia degli appunti e non ho potuto rifiutare.”
“E a proposito di quegli appunti… ” iniziò timidamente Vincent, ma Eldred lo tagliò subito corto “Non è un argomento per adesso, né uno che ti interessi. Anche perché riguarda dettagli della vita di Layla che non è mio diritto rivelare… Soprattutto non se lei non l’ha fatto.”
I due rimasero in silenzio per altro tempo, accompagnati solo dal ritmico rumore del motore, finché Vincent non prese di nuovo la parola “Nonostante tutto quello che è successo, sembrate essere ancora molto legati.”
Eldred annuì “Si, lo siamo. Certi legami sono difficili da spezzare, direi… Siamo partiti come rivali, da studenti, poi siamo passati a essere amici, gli unici amici l’uno dell’altra… Siamo stati amanti, per un periodo, ma non ha funzionato, quindi siamo tornati a essere amici. Colleghi, poi, io Teurgo e lei Arcimaga, e infine quasi sconosciuti… Ma diciassette anni, per quanto lunghi, non bastano a cancellare completamente quello che abbiamo passato assieme, non credi?”
Vincent non rispose, cosa che Eldred prese come segno che poteva continuare “Dovevo essere ucciso, tecnicamente, ma mi è stato detto che era solo grazie a lei che la pena era diventata l’esilio. Per diciassette anni mi sono convinto di odiarla, lei assieme agli altri Teurghi… poi l’ho rivista ieri sera. Ero furioso, certo, ma non riuscivo a odiarla, non come odio gli altri fautori del mio esilio, almeno.” l’uomo si lasciò scappare una risata amara “È incredibile cosa la vita ci riservi, a volte… Tu invece? Come mai ha scelto proprio te, come suo assistente?”
Vincent si fece pensieroso “Eh, in realtà la risposta non è così semplice… Diciamo che mi sono proposto io.” Eldred sollevò un sopracciglio, incuriosito, ma non disse nulla “Ero stato convocato nel suo ufficio per discutere del prestito di un testo per il mio Arcanum, un testo di cui solo lei possedeva una copia. Quando sono arrivato, tuttavia, l’Arcimaga non sembrava esattamente in forma e l’ufficio era disordinato… mi sono lasciato sfuggire che le sarebbe servita un’assistente, al che lei ha risposto qualcosa come ‘l’ultima volta non è finita bene’ ma io ho insistito… e diciamo che sono stato assunto. Non era mia intenzione proporre me stesso, ma non mi lamento, onestamente. L’Arcimaga è un’ottima fonte di ispirazione sul corretto comportamento di un Mago dell’Accademia.”
Eldred si lasciò scappare un versaccio.
“Non per dire che voi non siate ugualmente un ottimo esempio, Lord Quinn! Un esempio diverso, ma comunque un ese-” il rinnegato gli fece cenno di tacere “Ah, non preoccuparti, non me la sono presa. Non hai torto, io non sono il perfetto Mago dell’Accademia… diamine, non faccio nemmeno più parte dell’Accademia. E tu” continuò, indicandolo con la mano inguantata “hai ricominciato a darmi del lei. Smettila.”
Vincent annuì, deglutendo rumorosamente, ma sollevato allo stesso tempo.

Il resto del viaggio procedette nel quasi totale silenzio, eccezion fatta per il costante mormorio di Eldred: Vincent non era riuscito a capire benissimo cosa stesse dicendo, ma riconosceva fossero frasi in Demonico. Incantesimi, probabilmente.
Come i due sospettavano il sito dell’ultima tragedia, una sorta di agglomerato di più complessi abitativi in un unico edificio, era strapieno di membri del corpo di polizia; quello che non si aspettavano era di trovarvi il Lord Ispettore, Graham Brooke, ad attenderli.
“Ah, voi dovete essere gli inviati dell’Accademia, perfetto, perfetto” esordì Lord Brooke, un uomo massiccio nonostante l’ormai sempre più tarda età, dal viso duro e la voce profonda “Posso conoscere i vostri nomi?”
“Mi fa piacere che l’Arcimaga l’abbia informata del nostro arrivo, Lord Ispettore” rispose immediatamente Vincent “Io sono Vincent Reid, mentre il mio collega qui è Lord Eldred Quinn.” “Perfetto, perfetto” rispose Brooke, facendo loro cenno di seguirlo mentre iniziava ad addentrarsi nella scena del crimine. I due lo seguirono, silenziosi.
“Non so quanto sappiate, Lord Reid, Lord Quinn, ma la situazione è tragica. Oltre cinquanta persone abitavano qui, non nelle migliori condizioni certamente, ma vi abitavano… tutti morti. Non se ne è salvato uno.”
“Eravamo al corrente dei decessi, ma non immaginavamo la conta fosse così alta” rispose Eldred, dandosi al contempo un’occhiata intorno “I cadaveri sono già stati seppelliti?”
“Quasi tutti” rispose il Lord Ispettore, dopo una brevissima pausa “Ne abbiamo lasciati un paio, immaginando vi sarebbe stato d’aiuto esaminarli. Ma ditemi, Lord Quinn… È vero che si tratta di un Demone?” concluse, la voce strozzata momentaneamente da un groppo di terrore.
Eldred non rispose immediatamente, prendendosi un secondo per valutare la situazione dell’uomo. Dirgli la verità lo avrebbe atterrito sicuramente, con potenziali conseguenze catastrofiche… ma allo stesso tempo, nascondergliela non avrebbe aiutato.
“È sicuramente una possibilità, che siamo qui per indagare. L’ipotesi del Demone spiegherebbe il tasso di mortalità totale, ma allo stesso tempo i Demoni non spuntano a caso per uccidere gente. Se si tratta veramente di un Demone omicida, qualcuno gliel’ha ordinato.”
Graham Brooke impallidì, estraendo dal taschino un pannetto di velluto e asciugandosi la fronte madida “Ah, meraviglioso, quindi non abbiamo a che fare solo con un Demone ma anche con un Mago fuori controllo. Perfetto, perfetto.” rispose, più a se stesso che ai suoi accompagnatori, con una voce carica di ansia.
I tre individui si diressero verso uno spiazzo poco lontano, davanti all’ingresso principale dell’edificio: adagiati sulla sporca pavimentazione della strada si trovavano tre oggetti coperti completamente da sudari bianchi. I cadaveri che Brooke aveva “lasciato da parte” per loro.
Vincent, istintivamente, si tolse il cappello, in una semplice forma di rispetto, ma era evidente che Eldred non condivideva la sua sensibilità: senza una parola scostò il sottile telo dal cadavere più a sinistra, osservandolo attentamente.
L’uomo, di circa mezz’età, non si era ancora decomposto ma presentava un innaturale pallore diffuso su tutte le aree scoperte. Il rinnegato estrasse il taglierino e provocò una serie di tagli all’altezza della gola e dei polsi, suscitando versi di disapprovazione dai presenti, constatando la mancanza di sangue. Girò il cadavere, utilizzando il taglierino per rimuovere la camicia sbrindellata che indossava: sulla schiena non c’erano segni di deflusso.
Era come se l’uomo fosse stato completamente dissanguato… senza ferite evidenti che portassero al dissanguamento.
Una veloce analisi degli altri due individui confermò le stesse caratteristiche, quindi Eldred si sentì autorizzato a passare alla fase successiva: estrasse un gesso e, inginocchiatosi a terra, iniziò a tracciare una serie di simboli geometrici accompagnati da quelli che Vincent riconobbe come caratteri dell’alfabeto Demonico.
“Di cosa si tratta?” chiese il mago più giovane, inginocchiandosi al fianco di Eldred ma stando ben attento a non intralciarlo.
“Un piccolo rituale per confermare se c’è stato un Demone qui.” rispose l’altro, senza smettere di disegnare simboli sempre più intricati “Non è completamente affidabile, purtroppo – le traccie di un Demone rimangono circa una giornata, poi la loro ‘impronta’ viene riassorbita dal Velo… ma se le tempistiche che ci hanno dato sono corrette, dovremmo essere ancora in tempo. Ecco… un ultima frase… finito.” concluse, alzandosi nuovamente in piedi e dandosi pacche sulle cosce per rimuovere la polvere.
Eldred stese una mano davanti a sé, quella scheletrica e nascosta dal guanto notò Vincent, e mormorò un paio di parole in Demonico: il simbolo si illuminò di una luce violetta, per poi passare subito a una tonalità più scura, quasi nera, e improvvisamente risplendette di un rosso cremisi accesissimo.
“Lord Quinn? Che sta succedendo?” chiese il Lord Ispettore, mentre il simbolo perdeva colore e veniva velocemente cancellato con un paio di passate di stivale dal Mago. Eldred si voltò verso di lui, sorridendo, ma subito assunse un’espressione contrita “Beh, Lord Ispettore, ho due notizie, una buona e una cattiva. Quella buona è che si tratta effettivamente opera di un Demone. La seconda, beh… è la stessa. Si tratta di un Demone.”
Brooke sembrava sull’orlo di uno svenimento “Ah, certo, una buona notizia. Oh cielo, oh cielo, perfetto, perfetto, perfetto. Terribile. Terribile, assolutamente terribile.” il pannetto era ormai inutile ad asciugare il sudore da quanto era zuppo “Bene, vi ringrazio per la vostra collaborazione, Lord Quinn, Lord Reid. Io credo… credo andrò a stendermi un attimo.” concluse, con un sospiro, prima di trotterellare incerto verso la sua carrozza.
“Qui abbiamo finito” osservò Eldred, dando una pacca sulla spalla a Vincent e avviandosi a propria volta verso la carrozza che li aveva portati lì. Vincent gli venne dietro, prendendo posto davanti a lui, e rimanendo in silenzio per un paio di minuti, osservando la faccia soddisfatta del rinnegato.
“Oh, per il Velo, non riesco a stare in silenzio. Perché quella faccia? Cosa c’è di tanto soddisfacente?” chiese, ricevendo in risposta un sorriso ancora più soddisfatto.
“Oh, tutto. Ho ottenuto due informazioni cruciali stamattina: si tratta effettivamente di un Demone, come ho riferito anche al Lord Ispettore, e soprattutto ho una buona idea di che tipo di Demone possa trattarsi. È un Ematofago.”


Non ero sicurissimo se chiudere lì o metterci anche il pezzo dopo (uno spiegone), ma alla fine ho deciso di relegare lo spiegone all'inizio del capitolo 3 e lasciare uno pseudo-cliffhanger
 
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view post Posted on 7/9/2022, 08:37
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Lord of the Dead - Capitolo I

Quando Aelfric aprì gli occhi, per un attimo non riconobbe dove si trovava: tutt’intorno a lui, pareti di legno accolsero il suo sguardo, assieme ad altri ragazzi e ragazzi della sua età posizionati alla bene e meglio nello spazio in penombra.
“Ah, giusto… La nave.” pensò, mentre finalmente riconnetteva luogo e circostanze: si trovava sulla nave per l’Accademia di Skalaholt, nel Mare Mediano, dato che lo stregone che lo aveva testato, come aveva fatto con tutti i giovani del suo paesello, aveva sentenziato il suo possesso della capacità magica.
Con parole più complesse, ma non che ci avesse capito molto, lui.
Si lasciò cadere all’indietro, sospirando, trovandosi però appoggiato alla parete della chiglia: doveva essersi addormentato lì nel corso delle ore, così come molti altri passeggeri. Non c’erano sedili o panche o altre comodità del genere, quindi tutti i passeggeri, una ventina considerando anche lui, erano tutti stesi a terra, appoggiati a delle casse che contenevano chissà cosa o stavano facendo uso della chiglia come lui.
Aelfric si alzò in piedi, le articolazioni rigide per il chissà quanto tempo passato a dormire seduto, cercando il più possibile di stirarsi. Dalla scala che portava sul ponte proveniva una flebile luce: era probabilmente l’alba. “Il momento perfetto per alzarsi” si disse, dandosi un’ultima occhiata intorno. Molti dei passeggeri avevano fatto gruppo per dormire: venivano probabilmente dalla stessa città o dallo stesso villaggio… o semplicemente erano più competenti di lui nel fare conoscenza con completi estranei.
Non che ne valesse la pena indagare, decise Aelfric, prima di far muovere l’ennesima volta le proprie articolazioni, con numerosi e soddisfacenti scricchiolii di risposta, e avviarsi lungo la scala.

Il ponte era pressoché vuoto, salvo per i marinai che stavano lavorando placidamente… e una ragazza appoggiata al parapetto. Dalla scala Aelfric poteva osservarne solo il retro, e pertanto i corti capelli neri e il vestito bianco che indossava, ma poteva intuire facilmente si trattasse di una futura studentessa come lui, intenta a osservare il sole che sorgeva.
“È solo l’alba? Maledizione… sono quasi tentato di tornarmene di sotto, ma allo stesso tempo il sole è molto meglio di quelle quattro pareti di legno.” pensò il ragazzo, prima di appoggiarsi a sua volta e fissare il sole che sorgeva. Skalaholt era ancora lontana, pareva, ma Aelfric poteva già immaginarla, solo dalle storie che aveva sentito: al centro di un lago talmente esteso da essere convenzionalmente chiamato “mare”, costruita su di un’isola volante, sospesa tra cielo e mare, unica fonte e deposito della conoscenza magica.
Rimase a fissare il cielo cremisi per chissà quanto tempo, perso nei propri pensieri, fino a che una voce non lo scosse forzatamente dal proprio umore contemplativo.
“Ehi? Ci senti?”
Era una voce di donna: con ben poche sorprese, Aelfric si girò alla propria destra per trovare la ragazza del parapetto che lo fissava, l’espressione confusa. Aveva una carnagione estremamente pallida, segno di una vita passata all’interno, e lineamenti alquanto blandi, eccezion fatta per i penetranti occhi azzurri che lo fissavano.
“Eh-uh, si, si, perché?” rispose, confuso a sua volta dalla domanda posta così d’improvviso, ma la ragazza si limitò a scuotere la testa e appoggiarsi nuovamente al parapetto “Nulla di ché” rispose afferrandosi una ciocca di capelli e arrotolandosela in mano “Ho provato a chiamarti già un paio di volte da più lontano, ma non hai risposto, quindi ho deciso di avvicinarmi” sbuffò, il tono estremamente annoiato “Il cielo è davvero così interessante da tapparti le orecchie?” chiese, lasciando andare i capelli e tirando fuori un secondo sospiro.
“No, suppongo di no…” rispose lui, sempre più confuso. Cosa voleva adesso questa? “Semplicemente tendo a… distrarmi quando mi trovo da solo in silenzio. Mi scuso se sono sembrato rude, non era mia intenzione.”
La ragazza sbuffò di nuovo, quindi si girò a fissarlo, squadrandolo con cipiglio agguerrito “Abiti puliti ma non eccessivamente eleganti, postura rigida e parlata misurata… Cosa sei, nobile? Figlio di qualche signorotto di terza categoria?” chiese, la voce schietta e diretta ma non esplicitamente ostile.
Aelfric sentì le guance avvampare, suo malgrado, ma si sforzò comunque di sorridere “Si, ma nulla di importante… Sono Aelfric aes Hyrr, da Destes, un posto abbastanza sperduto. Terzo figlio di Runi aes Hyrr, governatore del suddetto paesello, e per mia fortuna unico della famiglia con qualche grammo di potere magico, quindi posso aspirare a essere un magos e non dipendere unicamente dalla generosità di Njall… il che equivarrebbe a morire di fame.” concluse con tono scocciato, per poi rendersi conto che la sua interlocutrice lo stava fissando con un cipiglio poco interessato ai suoi drammi familiari. Aelfric si morse immediatamente l’interno del labbro, per poi sorridere di nuovo “Voi invece, signorina? Qual è il vostro nome?”
Lei si limitò a fissarlo per un paio di secondi, secondi in cui Aelfric sentì il proprio sorriso diventare sempre più tirato, prima di rispondere. “Val” mormorò, smettendo anche di guardarlo e tornando a tormentarsi le ciocche. “Val… e poi?” chiese lui, ricevendo però solo un mezzo grugnito di difficile interpretazione in risposta.
“Oh beh, Val funziona più che bene, è ovvio che non vuole parlare di se stessa. Questo però porta alla mente… ” “Ditemi, signorina, come mai siete venuta a parlarmi? Mi sembravate estremamente a vostro agio da sola.”
Nuovamente, la ragazza si girò verso di lui, stavolta appoggiando direttamente la schiena contro il parapetto ma senza lasciar andare i capelli “Innanzitutto, non azzardarti a darmi più del voi o del lei o a chiamarmi signorina. Chiamami Val e basta.” Aelfric annuì, non esattamente contento ma alla fine poco interessato a come la misteriosa ragazza voleva essere chiamata “Poi, per rispondere alla domanda… Mi annoiavo e sembravi una persona interessante con cui scambiare due chiacchiere, ma è evidente che mi sbagliassi alla grande. Evviva… ” concluse, con l’ennesimo sospiro, tornando a fissare il ponte della nave davanti a sé.
“Non so se sentirmi ferito o sollevato onestamente… ” pensò il ragazzo, portandosi una mano al volto e stringendosi il dorso del naso tra le dita “Senti, Val… ” iniziò, per scoraggiarsi immediatamente quando la ragazza non si voltò nemmeno “Ma perché a me… è Hildr quella brava con la gente maledizione” “… non volevo offenderti, veramente. Possiamo ancora parlare, se vuoi.” concluse, sorridendo quanto più la situazione glielo permetteva.
Finalmente la ragazza si girò a fissarlo, lo sguardo sempre più annoiato ma finalmente con l’abbozzo di un sorriso sulle labbra.
“Passo.” rispose, per poi superarlo e scendere nuovamente sottocoperta.
“Che stronza” riuscì solo a pensare Aelfric, mentre si appoggiava nuovamente al parapetto e tornava a fissare il sole che sorgeva.

Passò un paio d’ore in quel modo, fissando l’orizzonte, poco volenteroso di tornare al buio e rischiare nuovamente di incontrare la misteriosa Val, ignorando gli sguardi confusi che, non poteva vederlo ma ne era sicuro, i marinai stavano lanciandogli.
E, finalmente, dopo tutto quel tempo passato a rimuginare illuminato dalla luce sempre crescente del sole, la loro destinazione si mostrò alla vista, apparendo come un miraggio tra la nebbia del mattino.
Dire che la sua rappresentazione mentale non rendeva giustizia all’Accademia era dire poco, notò Aelfric: per dirne una, era una struttura gargantuesca, molto più grande di quanto lui potesse immaginare. Solo “l’isola” in sé, che sosteneva poi il castello, era tanto grande da oscurare il sole a quell’ora del mattino.
Seconda cosa, quando i racconti parlavano di un’isola “sospesa tra cielo e mare”, il ragazzo aveva sempre immaginato un pezzo di terra levitante sì sopra le onde, ma a comunque breve distanza. Non avrebbe potuto essere più lontano dalla realtà: Skalaholt volava molto alto, talmente in alto che anche solo il terreno era difficile da scorgere.
“Ragazzo”
Incantato com’era dallo spettacolo che gli si era presentato davanti, o per meglio dire sopra, la voce del marinaio alle sue spalle lo fece quasi sobbalzare “Si?” riuscì a chiedere, stupendosi dell’essere riuscito a mantenere la voce ferma.
“È meglio se scendi, il vostro passaggio per lì sopra dovrebbe arrivare tra poco e se lo perdi il capitano non ci penserà due volte a buttarti ai pesci” rispose quello, prima di dargli immediatamente le spalle e tornare alle proprie mansioni.
Aelfric deglutì a vuoto e corse immediatamente sottocoperta.

Finalmente gli altri futuri studenti avevano iniziato a svegliarsi, probabilmente avvertiti da uno dei marinai, e stavano vagando confusi e in attesa per la stiva. Aelfric notò Val, ma ne rimase bene alla larga: dopo il dialogo di poco prima non aveva la benché minima voglia di parlare con la ragazza.
Dopo un paio di minuti, quando tutti i ragazzi presenti erano svegli e non più confusi, per un secondo un lampo biancastro illuminò a giorno il buio ventre della nave: dal nulla apparve un uomo, discretamente alto, vestito di quella che pareva essere una specie di mantello nella fioca luce che era tornata a essere l’unica fonte d’illuminazione, e con in mano quello che pareva un nodoso bastone di legno. I capelli e la barba, entrambi neri come la pece, erano tenuti corti, perfettamente scolpiti e impomatati per renderli sempre rigidi e immobili.
“Bene ragazzi” prese parola l’uomo, la voce profonda e con un marcato accento del nord “Il mio nome è Isbrand e sono uno dei Meistr dell’Universalis, una delle Sei Torri della Magia. Nello specifico, mi occupo della traslazione spaziale… in parole povere, del teletrasporto, ossia il mezzo con cui raggiungerete Skalaholt.” un mormorio eccitato si diffuse tra gli studenti, ma Isbrand riprese immediatamente la parola e portò nuovamente il silenzio “Ora, disponetevi a circolo intorno a me, ognuno con una mano sulla spalla del compagno alla sua sinistra e la mano destra allungata verso il centro. E, mi raccomando, non lasciate andare la persona davanti a voi per nessun motivo al mondo.”
Con non poca fatica, i quasi venti studenti fecero quanto richiesto, tutti i volti rivolti verso il Magus al centro di quel cerchio improvvisato.
“Perfetto, perfetto… ” mormorò Isbrand, più a se stesso che a loro “Ora tocca a me.” Sollevò la verga in aria, con entrambe le mani, inspirò e la fece impattare a tutta velocità contro il legno della chiglia.
Una seconda luce abbagliante li avvolse, costringendo Aelfric a chiudere gli occhi per il fastidio. Di riflesso strinse la spalla del ragazzo (o ragazza? Non ci aveva fatto caso) davanti a lui, ricevendo in risposta un grugnito poco contento.
La luce durò poco più di un secondo: quando fu svanita, i passeggeri si ritrovarono in una sala di pietra, al centro di quello che pareva un cerchio scavato nella roccia stessa. La sala rettangolare era spoglia, con solo una sorta di pedana rialzata sul lato corto direttamente davanti a loro, dietro alla quale si trovavano sei arazzi di vari colori, ognuno con un simbolo dorato diverso: da destra a sinistra, in ordine, vi erano un cerchio con un punto al centro su sfondo grigio, una fiamma su sfondo rosso, quella che Aelfric poté identificare come una specie di spada che svaniva nello sfondo verde, uno scudo circolare con al centro una foglia che facevano fatica a distinguersi dallo sfondo bianco, una bilancia su sfondo blu e un teschio di profilo che spiccava alquanto inquietante dallo sfondo nero.
Sotto gli arazzi si trovavano diversi individui, sia uomini che donne, ognuno con indosso lo stesso strano mantello di Isbrand, negli stessi colori degli arazzi. Ogni arazzo sembrava essere assegnato a una sola persona, con l’eccezione di quello grigio, lo stesso colore del mantello di Isbrand, che ne aveva cinque.
“Verrete chiamati uno alla volta” disse loro l’uomo che li aveva portati lì “una volta ricevuto il verdetto vi verrà detto dove mettervi, verrete smistati in uno dei sei dormitori per il primo anno” concluse, indicando loro i due lati lunghi, dove si trovavano altri sei stendardi, tre per lato, con i numeri da uno a sei. Isbrand fece loro un occhiolino, prima di raggiungere gli altri maghi sulla piattaforma rialzata e prendere posto vicino agli altri cinque figuri col mantello grigio.

Improvvisamente, mentre gli sguardi di tutti i ragazzi erano puntati sulle figure che sembravano non degnarli di attenzione, un altro lampo segnalò l’arrivo di un altro individuo sulla pedana.
Si trattava di una donna, probabilmente sulla parte più tarda della mezza età viste le rughe che andavano formandosi sul suo volto. Aveva la pelle scura e dei corti capelli neri, che contrastavano enormemente la tunica bianca che aveva indosso, sulla quale potevano intravedersi più volte tutti i simboli degli arazzi.
“Benvenuti” iniziò la donna, la voce dura e affilata, perfettamente ferma e decisa nonostante l’età apparente “all’Accademia di Skalaholt. Il mio nome è Aslaug e sono l’Archmeistr dell’Accademia: ciò vuol dire, per quelli di voi che non lo sapessero, che ricopro la carica più alta.”
Aslaug fece una breve pausa “Vi starete sicuramente chiedendo perché vi trovate qui: permettetemi di spiegarvelo.” la donna si girò verso gli arazzi, dando loro le spalle “Quegli arazzi rappresentano le Sei Torri della Magia, i sei ambiti principali in cui essa è divisa. Ogni mago, nel processo che risveglia i suoi poteri dormienti, osserva due delle Torri, creando un legame con esse: la prima è sempre la Torre Grigia, quella che noi chiamiamo Universalitas, mentre la seconda varia da individuo a individuo. Un mago risvegliato alle due Torri potrà accedere solo alle energie degli ambiti a esse associate: le energie elementali per i risvegliati a Fortis, la Torre Rossa;” indicò l’arazzo con la fiamma “la creazione dal nulla per coloro che osserveranno Creo, la Torre Verde;” indicò l’arazzo verde, che ora Aelfric capì rappresentare una spada che appariva, non che veniva distrutta “il dominio sulla vita e sulle sue energie per gli adepti di Albus, la Torre Bianca;” l’attenzione di tutti si spostò sull’arazzo bianco “la trasmutazione e lo scambio della materia per i praticanti di Muto, la Torre Blu” ormai mancava solo l’arazzo nero con il teschio, che però richiese una pausa più lunga rispetto alle altre “e la conoscenza della morte e delle sue perversioni per Mortis, la Torre Nera.”
Aslaug si girò nuovamente verso di loro, sempre impassibile “Ora procederò a chiamare i vostri nomi. Astrid.” una ragazza, la pelle estremamente chiara e i capelli rossi, immediatamente si staccò dal gruppo, raggiungendo la pedana in un paio di secondi.
Nessuno osò proferire parola mentre Alsaug estraeva un coltello dall’interno delle vesti, afferrava il braccio destro della ragazza e le provocava un taglio sulla mano. Astrid non fece nemmeno in tempo a emettere uno strozzato grido di dolore che cadde all’indietro, apparentemente svenuta, tenuta in piedi solo dalla presa che l’Archmeistr aveva sul suo braccio.
Rimase così per un paio di secondi, immobile, finché non riuscì a tornare cosciente: prese un respiro profondo, sussultando, mentre la fiamma dorata di Fortis appariva nell’aria sopra di lei.
Aslaug le diede un paio di secondi per riprendersi, per poi spedirla verso l’arazzo del dormitorio 6 e chiamare il nome successivo.

I minuti passarono, senza che Aelfric prestasse molta attenzione agli altri studenti e ai loro risvegli, finché non toccò a lui. Deglutì, raggiungendo in fretta la pedana e porgendo il braccio destro ad Aslaug e al suo coltello: un taglio sulla mano e anche lui si sentì trascinare via la coscienza lontano dal corpo.
Gli sembrò di aver chiuso gli occhi per un secondo: quando li riaprì si ritrovò in quello che sembrava un enorme spazio vuoto, con un prato sotto di sé e un generico cielo azzurro sopra la sua testa. Aelfric girò la testa, guardandosi intorno, finché lo sguardo non venne attirato da una struttura sulla distanza: una gigantesca torre grigiastra, talmente alta che none era visibile la punta. Mentre la guardava, un sigillo infuocato, lo stesso cerchio con un punto dell’arazzo, apparve nel cielo.
“E quella era la Torre Grigia di Universalitas… e la seconda?” si chiese, venendo quasi immediatamente raggiunto da una sensazione di estremo freddo e vago terrore: il cielo si scurì improvvisamente, come se si fosse fatta notte nel corso di un secondo, mentre il prato ai suoi piedi ingrigiva e avvizziva. Una torre completamente nera emerse dal terreno mentre il simbolo della teschio faceva la sua comparsa nel cielo.
“Ah” riuscì a mormorare il ragazzo prima che gli occhi gli si chiudessero nuovamente e si sentisse cadere a terra.
Anche lui, come gli altri, si sentì privo d’aria nel rinvenire, come se fosse stato in apnea per molto tempo: tirò su un respiro profondo e si voltò verso gli altri studenti, giusto in tempo per osservare il teschio infuocato apparire a mezz’aria. Si voltò verso Aslaug, in attesa del proprio dormitorio, ma invece trovò la donna a fissarlo con uno sguardo carico di stupore, sospetto… e pietà. Alle sue orecchie arrivò il bisbiglio degli altri maghi, quelli che ora supponeva fossero i vari Meistr visto che Isbrand li aveva raggiunti, e non sembravano allegri.
“Che è successo?” provò ad azzardare una domanda, ma la donna lo ignorò, tornando con non poca fatica all’espressione neutra di prima e assegnandolo al dormitorio 6.
Mentre raggiungeva gli altri tre compagni di dormitorio, Aelfric poteva sentire su di sé gli sguardi di tutti, senza che però avesse idea del perché.
Certo, fino a quel momento era stato l’unico a ricevere il teschio, Mortis l’aveva chiamato l’Archmeistr, ma non poteva essere qualcosa di così grave… giusto?
“Valdis q- ” le parole di Aslaug lo distrassero dal proprio flusso di coscienza e il fatto che la misteriosa Val fosse praticamente corsa sul palco per evitare che andasse oltre al nome aveva attirato la sua attenzione. Valdis eh? Ed era una “q” quella che stava iniziando a pronunciare?
“No, non può essere di certo. Lei? Non prendiamoci in giro” pensò, mentre come tutti gli altri la ragazza cadeva in trance e meno di un minuto dopo mostrava la fiamma di Fortis e veniva assegnata al dormitorio 6. Aelfric la cercò con lo sguardo, cercando una conferma ai suoi dubbi, ma la ragazza fece uno sforzo per ignorare lui e tutti gli altri “compagni” mentre prendeva posto.
Il resto della cerimonia procedette senza altre sorprese come la sua mentre gli ultimi studenti rimasti venivano divisi tra i dormitori: uno solo venne assegnato al numero 6, un ragazzo di nome Leofric risvegliato alla Torre Bianca che gli lanciò uno sguardo sprezzante nel passargli accanto.
“Meraviglioso… anche questo ce l’ha con me per… motivi.” pensò, mentre Aslaug svaniva nuovamente nel nulla, teletrasportandosi chissà dove, e i sei Meistr dall’abito grigio raggiungevano i sei gruppi. Vide Isbrand parlare con gli studenti del Dormitorio 3, mentre a loro si avvicinò una donna: decisamente più giovane dei suoi colleghi, non poteva superare la ventina d’anni, non eccessivamente alta, pallida e con un’imponente chioma di capelli rossi che le incorniciava il viso.
Sorrideva nell’avvicinarsi, sorriso che sembrò tremolare un secondo non appena posò lo sguardo su Aelfric ma che riuscì a sostenersi “Nuovamente benvenuti all’Accademia di Skalaholt.” iniziò non appena fu abbastanza vicina, la voce acuta ma non fastidiosa “Il mio nome è Alia, Meistr di Protezione dell’Universalitas: mi occupo dello studio della creazione e del mantenimento di scudi e barriere magiche per difendere sia da colpi fisici che non. E, ovviamente, lo insegno in tutti e tre gli anni.” fece una pausa momentanea, come per vedere se le sue parole avevano impressionato qualcuno. Aelfric si guarò intorno: non sembrava. Alia, notando la stessa cosa, ricominciò, non sembrando particolarmente avvilita dalla cosa “Ora, vi chiederete sicuramente perché sono qui. Beh, sono la supervisore del vostro Dormitorio: sarà mio compito darvi una guida per orientarvi nell’Accademia, spiegarvi un po’ come funzionano le cose qui dentro e, in generale, essere il vostro punto di riferimento nel caso vi servisse qualcosa. Ora, se volete gentilmente mettervi in cerchio come avete fatto con Isbrand possiamo andare via da qui, che l’aria inizia ad essere stantia… ” i sei studenti obbedirono “… perfetto. Un secondo… e… fatto!”
Un nuovo flash li avvolse e, un secondo dopo, i sei si trovavano in una stanza completamente diversa: tonda e più piccola della sala in cui si trovavano fino a un secondo prima, presentava davanti a loro un camino con due poltrone davanti, sommate a svariate altre sparpagliate per il resto della stanza; ai lati del camino si trovavano due vetrate, in quel momento spalancate, che davano su due balconi (o magari un unico balcone con due ingressi?) mentre opposto a esso si trovava una porta, anch’essa aperta, che permetteva di intravedere delle scale che scendevano. Concludevano il quadro due altri ingressi, senza porta, con due scalinate che salivano.
“Bene, benvenuti” iniziò Alia “questo è il Dormitorio 6. Quelli” e indicò i due ingressi che si fronteggiavano “sono gli effettivi dormitori, a destra dell’ingresso per i ragazzi e a sinistra per le ragazze. Sui letti c’è tutto l’essenziale, quindi l’uniforme, il necessario per vivere e una mappa dell’Accademia. I letti sono già assegnati e accanto al nome dovreste trovare il vostro orario per il resto dell’anno… ah, già, quasi dimenticavo: qui a Skalaholt usiamo un sistema divide il tempo in gruppi di sei giorni, uno per Torre della Magia. Abbiamo Litas, Fortis, Creo, Albus, Muto e Mortis.” scrollò le spalle davanti allo sguardo confuso degli studenti “Non li ho scelti io i nomi ed evidentemente chi l’ha fatto non aveva fantasia, abituatevici. Comunque, oggi è Litas, quindi controllate di conseguenza i vostri orari e cercate di non perdervi.” concluse, prima di salutarli con un cenno della mano e sparire nell’ennesimo fascio di luce.
I sei studenti si guardarono, indecisi se andare ognuno per la propria strada o esercitare le basiche cortesie e presentarsi: lo scambio di sguardi durò per un agonizzante minuto, prima che una delle ragazze, la prima che era stata Risvegliata, riconoscibile immediatamente dalla folta chioma rossa, prendesse la parola.
“Beh, inutile rimanere qui a fissarsi in silenzio. Io sono Astrid, voi?” chiese.
Aelfric deglutì, prima di schiarirsi la gola e rispondere “Aelfric, piacere. Se vi interessa, ma immagino di no, il resto del nome è aes Hyrr, ma non credo sia importante.”. Le parole gli uscirono molto più flebili di quanto avesse intenzione, ma nessuno sembrò farci caso; Astrid gli anche sorrise, probabilmente grata che qualcuno avesse seguito la sua iniziativa.
Sorprendentemente, la seconda a prendere la parola fu la ragazza della nave: non fece chissà quale discorso, limitandosi a un secco “Valdis”, ma Aelfric non se lo sarebbe comunque aspettato.
A seguire, nello stesso modo caustico, furono un ragazzo dai tratti molto simili a quelli dell’Archmeistr, probabilmente erano parenti, ipotizzò Aelfric, che rispondeva al nome di Lothar e una ragazza parecchio più alta degli altri e altresì parecchio robusta che invece faceva di nome Thyrn. Per un secondo ad Aelfric parve che Lothar l’avesse guardato terrorizzato, ma quando si girò verso di lui il ragazzo stava, come tutti gli altri, fissando il componente del loro dormitorio che ancora non si era presentato.
Aelfric lo riconobbe immediatamente: biondo e con gli occhi azzurri, il secondo più alt della sala dopo Thyrn, gli pareva si chiamasse Leofric. Leofric…
“Umpf” sbuffò il ragazzo biondo “Se proprio devo… Leofric mil Ayr, primogenito di Hreidarr mil Ayr. Sicuramente anche i più provinciali tra di voi” disse, lanciando un’occhiata prima a Thyrn e ad Aelfric “riconosceranno la particella e il cognome.”
“Hreidarr mil Ayrr… senatore della provincia centrale dell’Impero, praticamente il secondo uomo più importante del mondo dopo l’Imperatore stesso… proprio quello che ci voleva.”
“Si, quel nome è difficilmente fraintendibile… ” mormorò Aelfric, prima di venir interrotto da Valdis, di tutte le persone “Difficilmente fraintendibile, si… nonché inutile, qui dentro. O non sei a conoscenza, Leofric mil Ayr, della politica di Skalaholt di annullare la validità dei titoli al suo interno? Sono famosi per trattare tutti gli studenti allo stesso modo… o il tuo papino non te l’ha detto prima di spedirti qui, eh Leofric?”
Gli occhi del ragazzo biondo si rabbuiarono, ma non rispose, limitandosi a mormorare qualche imprecazione a mezza bocca, girare le spalle a tutti e dirigersi verso la parte del dormitorio maschile.
Aelfric e Lothar si guardarono, con il secondo che insistentemente si rifiutava di guardarlo negli occhi, scrollarono le spalle e lo seguirono.
Il dormitorio maschile era estremamente… banale: svariati letti con baldacchino, molti di più di quelli necessari, disposti in file ordinate, con un camino su di un lato lontano da tutto ciò che potesse prendere fuoco e con sopra di esso quello che pareva essere un orologio a pendolo; a destra del camino si trovava invece uno specchio verticale mentre a sinistra l’ingresso a quello che doveva essere il bagno.
Una breve ispezione portò i due, mentre Leofric aveva già indossato la divisa e abbandonato la stanza, a trovare i loro letti, convenientemente separati: sul suo Aelfric trovò svariate pile di vestiti piegati, a occhio almeno sei pile, con in cima una piccola pergamena con orari e date. La mise da parte, dispiegando il primo abito della pila: era una semplice tunica grigia, di tessuto abbastanza pesante visto il clima non esattamente mite; l’azione rivelò un secondo fardello, piegato all’interno della tunica: una camicia bianca e dei pantaloni neri, vestiario simile a quello che Aelfric già indossava ma se possibile ancora più spartano, probabilmente da indossare sotto la tunica.
Aelfric si cambiò in fretta, constatando come i vestiti fossero perfetti per lui, come se fatti su misura, cosa che era probabile: una volta cambiatosi afferrò la pergamena e diede una veloce letta.
Era una mappa del castello da un lato, come Alia aveva annunciato, mentre dall’altro aveva una tabella di giorni, orari, nomi e luoghi.
“Oggi è Litas, aveva detto… e sono le…” diede uno sguardo veloce all’orologio “11… quindi ho… Mortis nei sotterranei.” girò immediatamente la mappa, cercando come prima cosa il dormitorio 6. Erano su una delle torri, quindi per arrivare al seminterrato…
Passò un paio di minuti studiando il percorso ottimale, per poi intascare la pergamena (fortuna che la tunica aveva delle tasche!) e uscire dal dormitorio quasi correndo.

Nonostante il “percorso ottimale” il ragazzo impiegò quasi venti minuti a raggiungere la propria destinazione semplicemente per colpa della distanza che separava la torre del Dormitorio 6 dai sotterranei dove avrebbe dovuto svolgere, immaginava, la sua prima lezione nell’Accademia.
Una volta giunto nei sotterranei, tuttavia, non gli fu difficile individuare la sua destinazione: una porta di legno scuro, in contrasto con la pietra chiara dei muri, con sopra dipinto in bianco il simbolo della Torre Nera, il teschio di profilo.
Aelfric bussò, ricevendo in risposta un poco convinto “Avanti!”. Prese un respiro profondo, espirò, cercò di rendersi un minimo presentabile e spalancò la porta.
La sala non era quella che si aspettava: innanzitutto, per essere nominalmente nei sotterranei, era estremamente luminosa. Era rettangolare, non eccessivamente grande ma abbastanza da non sembrare angusta, e uno dei lati, quello opposto alla porta, era aperto, mostrando un ampio balcone di una pietra bianca che sembrava estremamente fuori posto nell’uniforme grigio chiaro dei dintorni. Completavano l’arredamento un paio di librerie discretamente piene, un paio di sedie e un camino.
Aelfric entrò, chiudendosi la porta alle spalle e fissando il proprio sguardi verso l’altro individuo nella stanza: l’uomo con la tunica nera che aveva visto anche alla cerimonia, al momento girato di spalle e intento a fissare l’orizzonte appoggiato al parapetto del balcone.
“Ehm… permesso?” chiese il ragazzo, immobile sulla soglia, indeciso sul che fare e in attesa di una reazione da parte dell’uomo in nero. Uomo in nero che, con estrema calma, si girò a guardarlo: sembrava avere una trentina d’anni, con un volto che iniziava a essere segnato dalle prime rughe e barba e capelli che iniziavano a tingere di grigio il loro originale nero.
“Si, è permesso, è questo quello che vuol dire ‘avanti’.” rispose l’uomo, appoggiando la schiena i gomiti al parapetto, sorridendo. Aelfric lo raggiunse, estremamente timoroso, aspettandosi un qualche tipo di commento, ma l’uomo rimase in silenzio finché anche il ragazzo non raggiunse il parapetto.
“Quindi, tu sei Aelfric, giusto?” chiese, al che il giovane annuì immediatamente, seppur un po’ sorpreso “Si signore”.
L’altro si limitò a ridacchiare “’Signore’… Mi piace come suona, ma allo stesso tempo non ci sono abituato, quindi non farlo mai più. Chiamami Hereward, o se proprio vuoi essere formale Meistr Hereward o solo Meistr.”
Aelfric annuì nuovamente “Certamente sig- Meistr, lo farò. Solo… posso fare una domanda?” chiese, ricevendo in risposta un cenno di continuare “Siamo solo noi qui?”
Hereward sospirò “Purtroppo si ragazzo, siamo solo noi. Osservare Mortis durante il proprio Risveglio è un evento incredibilmente raro… l’ultimo risale a vent’anni fa e ce l’hai davanti. Ultimo e unico, da quando è venuto a mancare il vecchio Meistr cinque anni fa e sono stato costretto a prenderne il posto. Mi piacerebbe dirti che l’esclusività va di pari passo con il prestigio, ma… no. Purtroppo no, anzi: le nostre abilità sono viste alla meglio con estremo sospetto e alla peggio con vero e proprio timore e raccontate come storie per spaventare i bambini.” improvvisamente gli sguardi spaventati di Lothar e la sua propensione a non guardarlo negli occhi avevano molto senso, rifletté Aelfric “Certo, comandiamo forze spiacevoli da guardare, ma nonostante tutto necessarie. Vorrei solo che i miei colleghi lo capissero… ” concluse Hereward con un sospiro.
“Ma, effettivamente… ” iniziò Aelfric “… in cosa consiste Mortis? Quali sono effettivamente questi ‘poteri che comandiamo’?”
Hereward lo guardò per un paio di secondi, curioso, per poi staccarsi dal parapetto e dirigersi verso il centro della stanza “Seguimi, iniziamo la tua prima lezione.”
Aelfric lo seguì, notando come Hereward stesse tracciando una specie di cerchio con del gesso in mezzo alla stanza; attese che finisse, al che il Meistr si sedette su di una sedia al di fuori del cerchio di gesso “Entra nel cerchio” gli disse. Aelfric obbedì e Hereward tirò fuori una piccola scatola da una delle tasche della tunica, immediatamente lanciandogliela.
Il ragazzo cercò di afferrarla, ma non ce ne fu bisogno: semplicemente l’oggetto fluttuò placidamente a mezz’aria prima di depositarsi tra le sue mani. Al suo sguardo confuso, Hereward gli fece un occhiolino “Telecinesi, una delle capacità di Universalitas… ma non quello che ci interessa. Chiudi gli occhi.”
Aelfric chiuse gli occhi.
“Segui la mia voce e solo la mia voce: richiama alla mente la sensazione che hai provato durante il Risveglio, quando hai visto apparire la Torre Nera.”
Aelfric visualizzò nuovamente il prato divenire del colore della cenere, assieme al freddo e soprattutto a quella strana sensazione di vago terrore che aveva provato in quel momento.
“Prendi quella sensazione e interiorizzala. Falla tua, usala per accedere i meandri del tuo essere.”
Il ragazzo si concentrò su quel terrore. Perché era stato terrorizzato? Il freddo era comprensibile, si era fatta notte all’improvviso, ma il terrore…?
“Ma certo” mormorò gli occhi sempre chiusi. Il prato era avvizzito, era morto: quella sensazione che aveva provato era il terrore dei viventi davanti alla morte. Ma lui era un mago, no? L’Archmeistr aveva detto che Mortis governava “la conoscenza della morte e delle sue perversioni”… e se c’era qualcosa che Aelfric aveva imparato dal convivere con suo padre e i suoi fratelli era che la conoscenza è potere.
E se la conoscenza della morte era una sorta di “potere sulla morte”… perché avere paura di qualcosa su cui aveva potere?
“Perfetto!” rispose Hereward, come avesse sentito i suoi pensieri “ora apri gli occhi e apri la scatola.”
Aelfric fece come gli era stato detto: spalancò gli occhi, portando lo sguardo sulla scatola, che sembrava improvvisamente avvolta da una sorta di nebbiolina tremolante, e la aprì.
Un urlo da far gelare il sangue risuonò nella stanza mentre una figura trasparente emergeva dalla scatolina, assieme a un vento gelido e abbastanza intenso da costringerlo a fare un passo indietro.
“Cerca di non uscire dal cerchio!” gli gridò Hereward, cercando di sovrastare le urla: Aelfric si decise finalmente a guardare cosa aveva rilasciato.
Sembrava essere una donna semitrasparente, con una sorta di alone luminoso intorno e la stessa nebbiolina che aveva avvolto la scatola; stava urlando disperata per chissà quale motivo, agitandosi e muovendosi nel cerchio, cercando inutilmente di uscire.
“Cos’è quello?!” urlò a propria volta il ragazzo, ricevendo in risposta un estremamente vago “È un fantasma!”


Questo l'ho scritto molto a tempo perso e infatti è finito subito nella cartella dei progetti abbandonati, onestamente non mi piace per nulla :nono:
 
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view post Posted on 10/11/2022, 17:32
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To Become As Gods - Capitolo I

Falkenvalde.
Poco più che un villaggio di montagna, popolato solo dai turisti che lo affollavano tutti gli inverni per sciare sulle relativamente vicine Alpi austriache, la cui unica attrazione non legata agli sport su neve era un castello medievaleggiante ormai tenuto in piedi più dagli Dei che dalle murature.
Eppure, chissà per quale motivo, Huginn e Muninn l’avevano portato lì, nei primi giorni di dicembre.
Non che si lamentasse, lui. Odino gli aveva dato un compito e Julius Asksson, che non conosceva altro che il dovere, l’avrebbe portato a termine.
I corvi, prima di sparire come loro solito in una nuvola di piume nere, si erano posati su uno dei merli ancora in piedi del castello: sbuffando per l’ironia, Julius si sistemò il bavero del pesante cappotto da aviatore che aveva indosso, assicurandosi che fosse ben chiuso visto il clima non esattamente ospitale di quei giorni, e fece per muoversi verso la struttura, che osservava la cittadina dalla cima di una collina poco distante.
Non era normale per lui trovarsi da quelle parti: non sapeva se suo “padre” avesse altri “figli” oltre a lui, né nel nord né in quella terra dove lo chiamavano Wotan e non Oðinn, ma sapeva che gli altri Aesir e Vani ne avevano di sparsi in tutto il mondo. Perché mandare proprio lui, soprattutto quando la sua area d’influenza era stata tutt’altra per i precedenti anni della sua vita?
“Le Norne operano in maniere chiare solo a loro” si rispose, continuando a camminare, il ritmico tap-tap del bastone di frassino che aveva nella mano destra sul selciato la sua unica compagnia, ma non si sentì comunque soddisfatto. Fino a quel momento gli era andata bene… ma Odino era destinato a perire nel Ragnarokkr tra le fauci del lupo Fenrir e da quello che sapeva i discendenti degli Dèi del suo Pantheon tendevano a replicare l’eventuale fato dei loro progenitori divini. Aveva conosciuto fin troppi figli e figlie di Tyr che avevano perso una mano o discendenti di Baldr che si erano improvvisamente scoperti mortalmente allergici al vischio per liquidare il tutto come mera superstizione.
“Quelli degli altri Pantheon se la passano facile… non ho mai sentito di un figlio di Horus che dovesse combattere con il proprio zio usurpatore” continuò, superando quella che pareva una scolaresca in gita. I ragazzi sembravano avere la sua età, probabilmente qualche anno in meno, ma gli sembravano così… distanti. Segni di un qualcosa che lui, per sua stessa natura, non aveva potuto sperimentare.
Senza nemmeno sapere il perché, si fermò a guardarli per un paio di secondi, il peso tutto sul bastone tenuto sul lato destro. Non aveva iscritto Mannaz su di sé, il tedesco era per lui quasi una seconda prima lingua, ma conosceva abbastanza inglese da cogliere qualche sprazzo di conversazione: erano degli studenti americani, pareva, in gita all’estero. “Poveri loro, costretti in questo paesino di merda per una delle loro prime volte all’estero” sussurrò in islandese, prima di dare ai ragazzi un’ultima occhiata e riprendere il proprio corso.
“Ma… quel ragazzo mi stava restituendo lo sguardo? Non sembrava interessato ai suoi compagni, aveva le cuffie, ma mi guardava.” Julius scrollò ancora le spalle “Me lo sarò immaginato.”

***

Kane, quando la sua scuola aveva annunciato un viaggio in Europa per gli studenti maggiorenni dell’ultimo anno, era stato estasiato. Certo, non era l’Egitto, che avrebbe preferito per ovvi motivi, ma era pur sempre un viaggio all’estero! Aveva fatto fatica a convincere John, purtroppo serviva anche la sua autorizzazione invece che solo quella di sua madre (che aveva detto immediatamente sì, ovviamente), ma alla fine c’era riuscito.
E la destinazione che la sua scuola aveva scelto… era stata Falkenvalde.
Quel paesino di merda senza nemmeno un hotel decente.
E, come se non bastasse, quando finalmente era riuscito a superare il fatto che tutto quello che avrebbero fatto nella loro settimana in Europa sarebbe stato visitare paesini nascosti tra le montagne austriache, la sua famiglia l’aveva contattato proprio quella mattina.
L’altra sua famiglia.
Nefti, nello specifico.
Con una richiesta.
“La mia solita fortuna…” pensò, aprendo la conversazione con l’ennesimo numero sconosciuto a cui sapeva non avrebbe potuto rispondere e iniziando a leggere il sorprendentemente corto messaggio in egiziano antico. Avrebbe veramente preferito si modernizzassero… Ma era anche vero che l’egiziano gli era stato utile per spacciare le richieste degli Dèi come “messaggi dei suoi parenti lontani” ai suoi compagni di classe. Il che non era completamente falso, ma sempre meglio evitare attenzioni indesiderate.
Non che ci fosse nulla di male a farlo sapere in giro, molti discendenti degli Dèi erano considerati vere e proprie celebrità, ma a Kane King, diciotto anni, piaceva la vita tranquilla.
Finito di leggere, il ragazzo mise via il telefono, infilandosi le cuffiette e sospirando per l’ennesima volta: Nefti gli aveva dato un lavoro relativamente semplice, recuperare un vasetto d’acqua magica del Nilo che pareva (era sempre un “pareva” con la sua famiglia, mai nulla di sicuro) si trovasse in città e, nello specifico, nel castello.
Fortuna che stavano andando proprio lì…
Ma quel tipo lo stava fissando?
Kane decise di concentrarsi sul misterioso sconosciuto: sembrava non essere eccessivamente più grande di lui, estremamente alto, pallido e con una folta chioma di capelli rossi, accompagnata da un altrettanto folta e decisamente poco curata barba dello stesso colore che, combinata col suo abbigliamento particolarmente sciatto, un paio di pantaloni neri e una giacca da aviatore di pelle marrone, lo facevano assomigliare a una specie di senzatetto. E probabilmente lo era, visto il nodoso bastone di legno che gli arrivava ben oltre l’anca tenuto nella mano destra.
E lo stava decisamente fissando.
“Che sia…? No, impossibile. Uno del genere?” pensò, decidendo di sostenere lo sguardo dello sconosciuto, che però ben presto decise di riprendere la propria avanzata verso, sembrava, il castello a propria volta.
“Bah… I tizi strani tutti io…” mormorò a mezza bocca, evitando di farsi sentire dai propri compagni di classe, mentre tutta la scolaresca iniziava, raggruppati gli ultimi ritardatari, a muoversi verso la loro destinazione.

Ci misero meno di una decina di minuti per raggiungere il castello e meno di un’ora per esplorarlo a fondo, seppur la guida avesse fatto il possibile per allungare il tour: con un notevole anticipo, Kane e i suoi compagni si ritrovarono inaspettatamente liberi di muoversi per la città fino a dopo l’ora di pranzo.
Quasi tre ore di libertà… che il giovane si trovava costretto a utilizzare per esplorare quel maledetto castello in cerca dell’ennesimo artefatto da mercatino delle pulci che gli Dèi egizi, e quasi sempre i membri dell’Enneade, avevano sparpagliato per il mondo nel corso dei millenni.
Evviva.
E quello strano senzatetto era ancora lì. Anche se, visto che il biglietto costava quindici euro, probabilmente non era un senzatetto… per quanto si stesse sforzando con tutto se stesso di sembrarlo. Oh beh, non un problema suo.
Tornando a guardarsi intorno, attendendo che la calca dei suoi compagni si diradasse, si rese improvvisamente conto di un particolare a cui non aveva fatto attenzione durante il tour: sul muro direttamente davanti all’ingresso, tra due noiosissime esposizioni di cocci e pezzi di ferro ormai reclamati dalla ruggine, si trovava una lastra di pietra.
Una lastra di pietra ricoperta di geroglifici e scene illustrate alla maniera egizia.
“Aspetta… Questo posto doveva essere un castello medievale e il volantino all’ingresso diceva che c’erano leggende di vampiri, non mummie o artefatti egizi.” mormorò tra sé e sé, stropicciandosi gli occhi e dando una seconda occhiata. No, sempre lì.
“Che c’è Kane, assonnato? I tuoi compagni di stanza russavano?” gli chiese Brian, uno dei suoi compagni di classe, ma il ragazzo scosse la testa “No, no, ho avuto problemi io a dormire, sarà stato il jet-lag… Piuttosto, Brian, lo vedi anche tu quello?” rispose, indicando all’altro la lastra di pietra incriminata.
“Il tizio dici? Si, lo vedo… Strano assai, per fissare un muro vuoto, ma si sa che gli europei sono tutti matti. Beh Kane, noi andiamo a farci un giro, che fai vieni?” rispose lo studente, facendo spallucce, al che Kane scosse nuovamente la testa “Non adesso, volevo dare un’altra occhiata… Poi magari ci vediamo per pranzo, eh?”
Brian annuì, prima di iniziare ad allontanarsi, lasciando nuovamente Kane solo coi suoi pensieri e la misteriosa lastra.
“Un muro vuoto eh? Un’illusione, quindi… ma perché quel tipo la sta fissando?” lo sguardo di Brian non mentiva: il misterioso uomo dalla barba rossa stava fissando a propria volta nella stessa direzione di Kane, concentratissimo sul “muro”. “È come me, un discendente degli Dèi… Ma non credo sia un fratellastro, né qualche altro tipo di parente acquisito. No, dev’essere di un altro Pantheon… E cosa sta facendo adesso?”
L’uomo misterioso aveva infatti iniziato a come grattare sul pavimento con il proprio bastone, apparentemente concentrato. Kane, sempre più incuriosito, cercò di avvicinarsi il più possibile senza dare nell’occhio, fino a raggiungere il proprio obiettivo e riuscire a trovarsi a pochissimo dall’uomo fingendo di essere particolarmente interessato al proprio telefono: stava mormorando qualcosa in qualche strana lingua che Kane non conosceva, mentre osservando meglio il ragazzo si accorse che il grattare sul pavimento non era casuale. L’uomo stava infatti ripetendo sempre le stesse movenze, una linea dritta seguita da due brevi linee diagonali, quasi fosse un simbolo per qualcosa.
Poi, all’improvviso, smise di cantilenare, sorrise e tracciò il simbolo per un’ennesima volta: da quel momento in poi, dove scorreva la punta del bastone seguiva una linea di quella che sembrava essere cenere che, appena il simbolo fu concluso, evaporò con una brevissima fiammata biancastra.
Kane si guardò intorno: nessuno sembrava aver notato nulla.
“Andiamo” sentì dire da una voce con un profondo accento nordico: alzando lo sguardo (era il primo momento in cui si era reso conto quanto il tipo fosse più alto di lui) trovò ad attenderlo gli occhi del misterioso sconosciuto, uno verde e uno di un azzurro talmente pallido da sembrare bianco.
“Andiamo” ripeté l’altro, notando la sua esitazione, e Kane, chissà perché, si ritrovò ad annuire e rivolgere lo sguardo verso il punto dove si era trovata l’illusione: davanti a loro si parava una scala in metallo che scendeva nelle viscere del castello, con gli altri avventori ancora apparentemente ignari di tutto.
Kane deglutì e si avviò, insieme allo sconosciuto, lungo la scalinata.

***

Julius non aveva mai pensato di trovare un altro come lui, beh magari non esattamente come lui ma era il concetto che contava, in quel posto sperduto. Ma si sa, le Norne lavorano in maniere misteriose e avrebbe dovuto apprezzare il non dover fare tutto da solo per una volta.
Mentre i due scendevano, molto velocemente, Julius tracciò in aria Mannaz, la runa dell’uomo: avrebbe permesso ai due di capirsi qualsiasi lingua parlassero. Era una soluzione temporanea, ma meglio di nulla per il momento.
Arrivati, in silenzio, in fondo alle scale, Julius si finalmente concesse una lunga e approfondita occhiata al ragazzo: capelli chiari, di un colore abbastanza indefinito tra il castano e il biondo, una felpa con cappuccio adornato da un mezzo pellicciotto, un paio di pantaloni attillati, scarpe da tennis e uno zaino.
“Per gli Aesir, ma vai ancora a scuola?” chiese Julius, stupefatto, ricevendo dal ragazzo solo un’occhiata infastidita, come a dire “non è ovvio?”
L’uomo si schiarì la gola, per poi stendere una mano verso l’altro “Scusami, era una domanda stupida. Julius Askrsson, creato da Odino. E tu sei…?” chiese. L’altro ricambiò la stretta di mano, ma sembrò pensarci bene prima di rispondere “Kane. Figlio di Ra.” concluse, asciutto. Julius scrollò le spalle. Non poteva aspettarsi che tutti fossero amichevoli.
“Bene Kane. Siamo entrambi discendenti di Dèi e ci troviamo entrambi qui oggi. Hai un’idea del perché?” chiese, spostando nel frattempo lo sguardo dal proprio compagno all’ambiente circostante: un asettico corridoio di cemento, illuminato giusto da qualche luce al neon che si propagava dal battiscopa, con in fondo una porta tagliafuoco verde scuro.
“Io ho un compito, da parte dei miei… Zii, diciamo. Devo recuperare un vaso, tu? Cose simili? Odino ti manda a recuperare… che ne so, posacenere?” rispose Kane, togliendosi lo zaino dalle spalle e appoggiandosi a uno dei muri in attesa di una risposta. Julius si limitò a scuotere la testa “No, non so cosa sia a fare qui… al mio creatore piace essere criptico, e ai suoi corvi ancora di più.”
“Continui a usare quella parola” osservò Kane “‘Creatore’, ‘creazione’… È un modo particolare di dire ‘padre’ oppure ha un significato?” Julius rimase un attimo in silenzio, fissandolo, per poi sospirare “Ha un significato, ovviamente. Gente come noi non può permettersi il lusso delle coincidenze, purtroppo, e quelli del mio Pantheon ancora meno degli altri… Odino è il mio ‘creatore’ perché è quello che ha fatto: ha preso un frassino e mi ha scolpito con il suo seiðr, la magia delle mie terre, con il solo scopo di creare qualcuno che gli servisse come strumento. Sono umano in tutto e per tutto… tranne che nella nascita e nello scopo.”
I due rimasero un paio di secondi in silenzio, prima che Kane riprendesse la parola “Oh beh, l’importante è che tu sia incastrato in questa missione di recupero come me, il resto sono dettagli inutili. La mia famiglia… altra… per farmi scoprire che non ero completamente umano mi ha prelevato che avevo dodici anni e fatto combattere con dei demoni scappati ad Anubi, quindi sono abituato alle stranezze” concluse con una risatina, prima di tornare serio “Comunque, cosa credi troveremo dall’altro lato?” chiese, indicando la porta verde davanti a loro “Mostri? O per una volta si tratterà di qualcosa di semplice?”
Julius fece spallucce, prima di dare un colpo a terra con il proprio bastone: ci fu un lampo grigiastro e, improvvisamente, Kane lo vide stringere una lunga lancia completamente in metallo al posto di un bastone in legno “Non ne ho idea” rispose l’uomo dai capelli rossi “Ma meglio prepararsi al peggio. Hai armi?” chiese, ma Kane scosse la testa “Non ne ho bisogno. Su, andiamo” concluse, facendo cenno al proprio compagno di aprire la porta.
Julius, senza mai abbassare la guardia, aprì la porta il più lentamente e cautamente possibile: davanti ai due si dipanava quello che pareva essere in tutto e per tutto un enorme magazzino, con file e file di scaffali di metallo, prevalentemente vuoti ma sulle quali ogni tanto si trovavano ubicate degli scatoloni di legno.
“Woooh…” mormorò Kane, sottovoce “Proprio come ne ‘I predatori della Mela delle Esperidi perduta’…” ricevendo però solo uno sguardo confuso da parte di Julius “Non l’hai mai vi- ah, giusto, Odino, bla bla bla, strumento eccetera. Devi recuperare, però” rispose il ragazzo più giovane, prima di tornare serio e far cenno al proprio compagno di avanzare.
Julius si mosse, la lancia sempre stretta fra le mani e la testa che si muoveva in tutte le direzioni per controllare che fossero soli.
Lo sembravano, ma non potevano ancora esserne sicuri.
I due avanzarono con cautela, sempre con occhi e orecchie aperti, fino a raggiungere la più vicina serie di scaffali: sempre nel massimo silenzio, i due osservarono il primo scatolone a cui riuscirono ad arrivare. Era vuoto all’interno, ma la parte più curiosa era sicuramente l’etichetta su uno dei lati: recitava “Atene – 1988 – Smaltito”.
“Smaltito?” ripeté Julius, confuso “Di che si trattava? Non ci sono indicazioni, descrizioni, nulla… Solo un luogo e una data. Kane, controlla un po’ quella” continuò, indicando una scatola poco lontana. Il ragazzo ubbidì: anche quella scatola era vuota, ma stavolta l’etichetta recitava “Pechino – 2000 – Smaltito”.
“Smaltito anche questo… qualsiasi cosa voglia dire” commentò, continuando a controllare altre scatole mentre Julius compiva lo stesso processo: tutte erano vuote e presentavano la stessa identica etichetta formata da luogo, anno e dicitura “smaltito”.
Tutte tranne una: finalmente Julius si trovò in mano una scatola con all’interno quello che pareva essere un vaso di terracotta, dal rumore che faceva pareva pieno di un qualche liquido, la cui etichetta recitava “Luxor – 2019 – In attesa”.
“Kane! Ho trovato qualcosa!” sussurrò verso il compagno, che lo raggiunse immediatamente, prima di osservare meglio il vaso appena recuperato: sulla superfice presentava, seppur estremamente sbiaditi dal tempo, quelli che sembravano chiaramente dei geroglifici e delle scene che raffiguravano gli Déi del pantheon egizio.
“Credo sia quello che Nefti mi ha mandato a recuperare… ma qual è il senso di questo posto?” commentò il giovane americano, afferrando il vaso e posizionandolo al sicuro nello zaino. Sembrava sigillato, e nello zaino aveva imbottitura proprio per quelle evenienze, quindi non ci sarebbero stati problemi.
Poi, all’improvviso, entrambi notarono una cosa che era sfuggita loro fino a quel momento: nella stessa cassa, sotto il vaso, si trovava quella che pareva una lista di località.
“Oslo, Luxor, Città del Capo, Berlino, Dublino, Tokyo, Il Cairo… e solo le prime due sono state sbarrate. Cosa significherà mai?” si chiese Julius, leggendo la lista a voce alta e porgendola al proprio compagno, che la lesse a propria volta “L’etichetta nominava Luxor e la data è di quest’anno… Magari è una lista di posti da cui stanno recuperando artefatti. Ma in quel caso, cosa vuol dire ‘smaltito’? E poi… il più vecchio che abbiamo trovato risale all’88, è quarant’anni fa. Perché raccogliere artefatti per così a lungo senza che nessuno prima di noi fosse mandato a investigare?” chiese Kane, ma Julius si limitò a scuotere la testa “Magari li hanno mandati, ma non sono sopravvissuti e gli Déi non hanno provato a mandarne altri finché la cosa non si è fatta pericolosa. Sai come sono… Distratti, quando si tratta di mortali.”
“… i siamo tutti? Bene.”
Una voce improvvisa, e soprattutto sconosciuta ai due, spezzò il silenzio in cui erano caduti. Una voce maschile, priva di particolari accenti, in un inglese perfetto, da libro di testo.
Proveniva dal fondo della stanza, verso cui Kane e Julius si girarono immediatamente: quattro individui, tre uomini e una donna, erano appena apparsi lì dove di individuo non c’era nessuno fino a un momento prima.
“No, ne manca ancora una” ringhiò con una voce estremamente gutturale uno dei tre uomini, quello che pareva il più giovane, un ragazzo dai capelli rossi che indossava quella che pareva una t-shirt sbrindellata e un paio di jeans, ricevendo però in risposta un gesto della mano da uno dei suoi “compagni”, un uomo estremamente alto, dai capelli praticamente bianchi, vestito in maniera elegante ma sobria, con una camicia bianca, un gilet grigio e un paio di pantaloni da sera dello stesso colore “Non preoccuparti di lei, sai com’è fatta. Troverà il modo per aggiornarsi”. La voce lo identificò come il primo a parlare, mentre il ragazzo rosso si limitava a sbuffare.
Gli altri due individui, una donna dalla carnagione olivastra e quello che pareva un businessman in abiti completamente neri, rimasero invece in silenzio, al che l’uomo pallido riprese a parlare “Assenti a parte, qualcuno ha novità riguardanti il nostro obiettivo? Adrian, sei riuscito a individuare la Reliquia a Berlino?” chiese, rivolgendosi verso il ragazzo più giovane, che scosse la testa “Non ancora, ma ci sono vicino. So che si trova sotto la città, ma non dove nello specifico.” L’uomo pallido, che sembrava essere il capo della banda, annuì pensieroso.
“Kane” chiamò Julius, a bassa voce, sempre osservando i quattro nascosto dietro uno scaffale “Credo che abbiamo appena scoperto il motivo della presenza di tutte queste scatole… sono loro il gruppo che sta raccogliendo artefatti”. Il ragazzo annuì, prima di iniziare a muoversi lentamente verso i quattro e far cenno al compagno di fare la stessa cosa. Julius annuì a propria volta e i due i mossero con estrema cautela verso i misteriosi individui.
Non avevano potuto prevedere, tuttavia, che il ragazzo giovane, Adrian l’aveva chiamato il capo, si girasse nella loro direzione annusando l’aria.
“Intrusi” ringhiò, fissando con estrema precisione il punto dove i due si trovavano giusto un attimo prima di nascondersi in fretta e furia “E uno di loro è di Odino. Riconoscerei quell’odore ovunque…”
“Quanti?” chiese l’uomo d’affari, allungando una mano davanti a sé e facendo apparire dal nulla una strana alabarda. Adrian si limitò ad alzare due dita, sempre annusando l’aria come un cane.
“Misteriosi intrusi” prese quindi la parola il capo dei tre “uscite allo scoperto. Non vi sarà fatto del male se lo farete… ma non posso assicurarvi la stessa cosa nel caso veniste trovati. Ve lo giuro.”
Julius e Kane si guardarono. Kane scosse la testa, facendo cenno all’altro di tornare indietro, ma Julius lo ignorò. Lentamente, infatti, uscì allo scoperto, la lancia sempre in mano e ben visibile e si incamminò verso i quattro, fermandosi circa a una decina di metri da loro.
“Vedo che almeno uno dei due è ragionevole” commentò l’uomo pallido “Ora, l’altro, prima che Adrian e Jackson debbano convincerti con la forza.”
Kane, maledicendo sottovoce il proprio compagno, si mostrò a propria volta, raggiungendo Julius.
“Oh, meraviglioso” continuò il capo quando furono entrambi visibili “Direi quindi che è arrivato il momento delle presentazioni. Lui” indicò il giovane dai capelli rossi “come avete potuto capire è Adrian, Adrian Vieth, figlio del lupo Fenrir;” Julius si immediatamente irrigidì, mentre Adrian gli lanciava uno sguardo carico d’odio “lei” parlava della donna dai tratti mediterranei “è Sophia Andreas, progenie di Echidna. E quello dietro di lei è suo… fratello, in un certo senso, Orthrus.” una specie di lupo a due teste fece capolino da dietro la ragazza, ringhiando e sbavando sul pavimento “E lui” continuò l’uomo, indicando il tipo vestito di nero “è Jackson Copson, prescelto di Mikaboshi. Quanto a me…” concluse, sorridendo “…potete chiamarmi Mr. Anders. E il nome di colui che mi ha creato… Crono.”
“E quale sarebbe il vostro scopo?” chiese Kane, cercando di apparire poco interessato, mentre mentalmente si segnava nomi e cognomi. Gli avrebbero fatto comodo, nel caso le cose fossero degenerate.
“Oh, nulla di ché,” rispose Mr. Anders, in maniera estremamente imperturbabile “assorbire il potere delle Reliquie degli Déi, liberare i Titani nostri genitori e patroni, detronizzare gli Déi, cose così.”
“Beh Kane” rispose Julius, puntando immediatamente la lancia contro Anders “Immagino di aver capito perché ci siamo incontrati qui.” Il ragazzo stava per rispondere, probabilmente con un’esortazione a correre via e non combattere cinque contro due, ma Anders lo fece al posto suo “Oh, suvvia, Julius Askrsson, metti via quella lancia prima che le cose degenerino. Anche se…” lanciò un’occhiata ad Adrian, che sembrava pronto a balzare sui due carico di molto mal nascosta furia “… potrei lasciarle degenerare un po’. Eliminare qualche problema in anticipo.” L’uomo sembrò pensarci su, prima di tirare fuori da una tasca una piccola clessidra e schioccare le dita “Ma si, dai, che male c’è. Adrian, Jackson, Sophia, eliminateli. Sophia, ti aspetterò lì dove abbiamo concordato, fai in fretta” concluse, prima di spezzare a metà la clessidra e sciogliersi in una montagna di sabbia, immediatamente trasportata via da un vento apparso dal nulla.
Julius puntò i piedi, pronto ad affrontare i tre e probabilmente a morire nel farlo, ma per sua fortuna Kane aveva altre idee: il ragazzo si fece avanti, gli occhi che brillavano, e urlò “Fermi!”, il suo tono autoritario e implacabile. Immediatamente i tre, nel bel mezzo del loro movimento, Adrian addirittura a metà del salto, si fermarono, come bloccati nel tempo.
Non sarebbe durato a lungo: subito dopo aver emesso il proprio comando Kane unì le proprie mani, che presero a rosseggiare di fiamme, e colpì il terreno con esse: subito, tra lui, Julius e i tre, si generò un vero e proprio muro di fiamme alte fino al soffitto del magazzino.
“Andiamo!” urlò a Julius, prima di iniziare a correre verso l’uscita, seguito a ruota (seppur con qualche secondo di ritardo) dal compagno.
L’uscita venne raggiunta in tempi estremamente brevi, non era lontana d’altronde, e appena ebbero varcata la porta tagliafuoco Kane sentì le fiamme svanire “Non hai un modo per chiuderli dentro?” chiese al compagno, piegandosi in due per lo sforzo improvviso. Julius annuì, tirando fuori da una tasca un gessetto bianco e tracciare sul cemento davanti alla porta una I “Isa, la runa del ghiaccio… Non molto, ma abbastanza per farci allontanare” rispose allo sguardo interrogativo di Kane, colpendo la runa con la punta della propria lancia, che immediatamente si ritrasformò in un bastone: la porta e tutto il muro per un paio di metri vennero immediatamente avvolti da uno spesso strato di ghiaccio.
“Quanto abbiamo?” chiese Kane, aprendo lo zaino per controllare che il vaso fosse ancora integro. Lo era, ma dallo stesso zaino si alzò un miagolio infastidito, che provocò un’alzata di sopracciglia da parte di Julius “Kohl te la faccio conoscere dopo” ripeté il figlio di Ra “Ora rispondi, per favore.”
Julius scrollò le spalle “Dipende molto da quanto sono bravi a contrastare questo tipo di magia… Da un’ora a un paio di giorni direi. Più a lungo le rune temporanee come quella tendono a consumarsi da sole”
“Andiamo allora, sperando che nessuno abbia notato nulla… E che non sia passato troppo tempo” rispose Kane, tirando fuori il telefono per controllare l’orario ma ricevendo immediatamente due nuovi messaggi in egiziano antico da un numero anonimo. Gli diede una veloce letta mentre i due salivano le scale: il primo era di Nefti, che si congratulava per il recupero andato a buon fine, mentre il secondo… il secondo era di suo padre, pareva, e recitava solamente “RA: HAI UN COMPITO KANE 😊”
“Eeeeeeeh, la mia solita fortuna… io volevo solo una settimana tranquilla, per gli Dèi…” pensò, controllando l’orario (non era passata nemmeno un’ora, per fortuna) e mettendo via il telefono. Erano finalmente arrivati alla fine delle scale, con davanti a loro il resto del museo: nessuno sembrava fare il minimo caso all’apertura nel muro, segno che l’illusione era ancora attiva in qualche modo.
I due oltrepassarono il “muro”, ricongiungendosi al resto dei visitatori.
Nessuno disse loro nulla, nemmeno l’uomo che se li ritrovò improvvisamente davanti e i due poterono finalmente tirare un sospiro di sollievo, dirigendosi immediatamente fuori dal castello.
“Kane” esordì Julius non appena si furono allontanati abbastanza dal resto della gente “come mai sei voluto fuggire? Non pensavi avremmo potuto sconfiggerli?” chiese, ma l’altro si limitò a scuotere la testa “No, non ce l’avremmo fatta. Erano quattro contro due e io non sono buono nel corpo a corpo, come avrai potuto intuire. Preferisco di gran lunga stare a distanza e lanciare fiamme.”
Un mugugno fu l’unica reazione dell’altro, che però rimase in silenzio fino a che non si furono allontanati completamente dal castello e tornati sulla strada principale, alla base della collina “Conviene che ci separiamo, almeno per il momento” esordì quindi Julius, guardando però il cielo come alla ricerca di qualcosa “Ma rimaniamo in contatto. Sei qui da solo?” chiese, ma Kane scosse la testa “No, sono in gita con la scuola…” iniziò, prima di venir immediatamente interrotto dal nordico “E allora temo dovrai inventarti qualche scusa. Non possiamo rimanere molto più a lungo qui, non con quella lista di luoghi in mano.”
Kane sospirò, visibilmente scocciato ma non negò: doveva essere una situazione comune per lui “Si, dirò che ‘un mio zio’ vuole che io spenda del tempo con lui… Mia madre sa chi è mio padre, ed è figlia unica, quindi capirà cosa vado a fare e reggerà il gioco con la scuola. Solo…” il ragazzo squadrò Julius, che torreggiava su di lui rosso di barba e capelli mentre sua madre era bassa e mora “… non credo si berranno tè come mio zio. Cugino forse, ma forse è meglio se non ci facciamo vedere insieme da troppa gente che conosce mia madre.”
Julius grugnì in approvazione “Sono d’accordo. Bene allora, cerca di liberarti dagli impegni scolastici il prima possibile, io invece cercherò un mezzo che possa portarci a Vienna.” “Vienna, perché?” chiese Kane “È l’aeroporto più vicino e dobbiamo trovare un aereo che ci porti a Dublino il prima possibile. Cercherò anche quello già che ci sono…” Julius guardò un paio di secondi l’orologio del campanile principale, che segnava poco dopo le due di pomeriggio “…ma dubito troveremo qualcosa oggi, tra viaggio e altro. Probabilmente ci converrà passare la notte qui e metterci in viaggio con la prima corsa di domani.”
Kane annuì “È deciso allora. Hai un mezzo con cui posso contattarti?” chiese, ricevendo in risposta un altro grugnito “Si, Odino è stato abbastanza previdente da fornirmi un cellulare e la conoscenza per utilizzarlo. Non che abbia molti contatti, questo è da dire… ma non sono uno sprovveduto” continuò Julius, procedendo poi a scambiarsi il numero con Kane.
I due si separarono quindi: Kane si diresse verso il centro cittadino, alla ricerca dei suoi compagni di scuola ai quali aveva promesso un pranzo assieme, mentre Julius tornò nella modesta struttura dove alloggiava, pronto a passare il resto della giornata a cercare un modo per raggiungere Dublino il prima possibile.

***

Il pomeriggio passò relativamente in fretta per Kane, tra un pranzo con i compagni e altri inutili giri per il borgo con la guida, e in un baleno si fece sera. Aveva già chiamato sua madre in un purtroppo assai breve momento di solitudine, avvisandola che “i parenti” avevano richiesto la sua presenza, e lei aveva acconsentito a sostenere l’alibi dello “zio interessato a passare del tempo con il nipote”.
Non rimaneva che comunicarlo all’accompagnatrice della sua classe, mrs. Tillen: fu davanti alla sua porta, intorno alle diciannove, quando stava per bussare, che Kane finalmente ricevette notizie di Julius.
“Ok, l’autobus per Vienna è alle 7:30… L’aereo è alle 11 ma ci vogliono due ore per arrivare all’aeroporto da questo buco infame in mezzo ai boschi… capito.” Segnalò all’altro che aveva preso visione degli orari, quindi passò alla schermata della rubrica e bussò alla porta della sua insegnante.
Mrs. Tillen gli aprì dopo pochissimo, la minuta anziana intenta immediatamente a squadrarlo da capo a piedi per capire il motivo di quella visita così tarda “Kane? Qual è il problema?” chiese, la voce gracchiante. Il ragazzo assunse l’espressione più contrita che riuscisse, prima di rispondere con tutto il candore che gli Déi avevano depositato sulla terra “Ah mrs. Tillen, mia madre non l’ha avvertita? C’è un mio zio qui a Falkenvalde e lui e mia madre si sono accordati per farmi passare il resto del soggiorno con lui, purtroppo. Quindi ero qui per avvisarla del fatto.”
La vecchia continuò a squadrarla, sospettosa “Chiama tua madre, Kane, e vediamo se è vero. Io non mi fido di voi giovani, un momento libero e andate a drogarvi… ” mormorò, chiaramente avvelenata, ma il ragazzo non se ne curò, immettendo il numero della propria genitrice. Una breve chiamata confermò la versione del ragazzo e mrs. Tillen non poté far altro che acconsentire alla sua sparizione dal resto del viaggio d’istruzione. “Niente rimborso!” urlò, prima di chiudere la porta in faccia al ragazzo, ma non era importante.
Kane sospirò pesantemente, intascandosi di nuovo il telefono e tornando verso la propria camera. Da quello che sapeva i suoi due compagni di stanza dovevano essere nella hall, essendo tornati prima, quindi aveva un’ora abbondante prima della cena per farsi una doccia bollente e, soprattutto, dar da mangiare a Khol ed esaminare il misterioso vaso che Nefti voleva.

Raggiunse in brevissimo tempo la propria camera, non distante da quella della sua insegnante, entrò, si chiuse la porta dietro e finalmente si tolse lo zaino dalle spalle, aprendolo sul pavimento. Un gattino grigio fece immediatamente la sua comparsa dai meandri del tessuto, raggiungendo con un paio di balzi la minuscola scrivania a disposizione e miagolando in maniera offesa.
“Si, si, Kohl, sto arrivando… E scusami per tutto il movimento oggi, ma a onor del vero sapevi in che vita ti stavi infilando quando sei stata spedita da Iside nel mio cassetto della biancheria” rispose Kane, tirando fuori una scatoletta di cibo per gatti dallo zaino e aprendogliela davanti. La gatta miagolò di nuovo, ma iniziò immediatamente a mangiare. Il ragazzo ne approfittò per stirarsi e tirare fuori il vaso dallo zaino, accendendo la torcia del telefono e guardandolo meglio: le decorazioni, oltre ai geroglifici che però non dicevano nulla di particolarmente utile se non raccontare la provenienza del vaso, raffiguravano scene di inondazione del Nilo e i contadini che celebravano il limo fertile che esse portavano.
Kane agitò cautamente il vaso, ascoltandone il rumore di liquido che veniva mosso, e fece per rompere i sigilli e aprirlo.
“Fa attenzione con quello.”
Una voce femminile squarciò immediatamente il silenzio, attirando a sé l’attenzione di umano e gatto contemporaneamente: apparteneva a una ragazza appollaiata sul davanzale della finestra, dalla carnagione tendente allo scuro simile a quella di Kane, lunghi capelli neri che le arrivavano quasi al bacino e un paio di occhi nocciola. Indosso aveva vestiti decisamente inadatti al clima montano, un paio di jeans e una maglietta a maniche corte, entrambi neri.
“E tu chi Ammit saresti, di grazia?” chiese Kane, quasi perdendo la presa sul vaso dalla sorpresa, mentre Kohl iniziava a soffiare piano. Il ragazzo allungò una mano per accarezzare la gatta, girandosi verso la sconosciuta che intanto era saltata all’interno della stanza e stava avvicinandosi e ponendo il vaso dietro di sé.
La ragazza lo raggiunse e gli tese una mano “Puoi chiamarmi Sam, per il momento… Kane King.”
Sapeva il suo nome completo E l’aveva pronunciato. Brutta storia.
“Immagino anche tu sia…” iniziò, per venir immediatamente interrotto “… una Scion, sì.” Kane si rese conto di aver fatto una faccia parecchio confusa, perché la ragazza, Sam, si affrettò immediatamente ad aggiungere un “Mai sentito? È un modo come un altro per chiamare quelli come noi, più di mortali comuni ma meno di semidei veri e propri, discendenti di Déi… o altro.”
Kane capì immediatamente “Sei una di loro. Di quei tizi nel magazzino.” La ragazza sorrise, un sorriso stanco “In un certo senso. Facciamo parte della stessa categoria, nel senso che anche mio padre è un nemico degli Déi… Di tuo padre, nello specifico… ma seppur li abbia ‘aiutati’ fin’ora i miei obiettivi e i loro differiscono notevolmente.”
Kane sgranò gli occhi. Non era possibile, non… “Una figlia di Apophi” sussurrò, in un misto tra bterrore e stupore.
“Si, ma non preoccuparti. Come ti ho detto, i miei obiettivi sono ben diversi da quelli degli altri quattro, io non desidero liberare il mio progenitore dalla sua eterna prigionia né fargli vincere il conflitto con Ra. No, al contrario, io desidero terminare quel conflitto” rispose Sam, ricevendo però in cambio un verso divertito da parte di Kane “Nobile intento” continuò il giovane “ma tu più di tutti, come me, sai che è impossibile. Il conflitto tra Ra e Apophi esiste dall’inizio dei tempi e continuerà eternamente, alimentato dalla loro rivalità, finché uno dei due non sarà morto… Ma sono entrambi immortali e nessuno dei due ha la minima intenzione di trovare un accordo; quindi, solo sostituendoli con delle nuove entità si potrebbe…” Kane realizzò le implicazioni delle parole della ragazza, guardandola nuovamente con occhi sbarrati “Stai scherzando, spero”
Lei sorrise ancora, un sorriso stavolta pieno di gioia “No. È fattibile, teoricamente: guarda a quando Iside ottenne una parte dei poteri di Ra. Con il vero nome di Apophi posso avere una speranza.”
Kane scosse la testa “È comunque una follia, una speranza minuscola. Verresti consumata dall’essenza stessa del Serpente se ci provassi. Un Dio non potrebbe riuscirci, probabilmente: anche Iside ottenne solo una parte del potere di Ra, e quei due sono più o meno allo stesso livello.” Sam continuava a sorridere, mettendo anche una mano sulla spalla di Kane “Appunto sono venuta da te, Kane King, figlio di Ra. Da sola sarebbe impossibile… ma in due? Soprattutto se posso rivelarti un piccolo segreto sulla natura di noi Scion?” continuò, avvicinandosi sempre più fino a sussurrargli le ultime parole all’orecchio.
Kane deglutì “Sentiamo il segreto, poi ti dirò la mia decisione.” Sam ridacchiò “Noi Scion siamo speciali in modi ulteriori dalla nostra nascita e dai nostri poteri… Noi tutti abbiamo il potenziale di ascendere. Eracle. Okuninushi. Romolo. C’è chi ci riesce e chi no, ma tutti noi abbiamo il potenziale di divenire come gli Déi” concluse, sempre sussurrando, prima di allontanarsi dall’orecchio del ragazzo e muoversi nuovamente nella direzione della finestra “Quindi, qual è la tua decisione, Kane?”
Il figlio di Ra deglutì nuovamente “Accetto, Sam. Non so quali siano i dettagli del tuo piano, ma rimuovere l’eterno conflitto non suona male… Ma a una condizione.”
La ragazza inclinò la testa da un lato, curiosa, ma non disse nulla.
“Sii la nostra spia. I tuoi obiettivi sono diversi da quelli degli altri, no? Tienici aggiornati, nel possibile, delle loro azioni.”
La ragazza sorrise di nuovo, salendo in piedi sul davanzale “Affare fatto. Oh, un’ultima cosa… dato che mi sembra corretto, visto il legame del nostro pantheon con i nomi e per il fatto che io conosco il tuo. Sam è carino, ma se vuoi puoi chiamarmi Samantha. Samantha Aston” concluse, prima di lasciarsi cadere nel buio della notte dicembrina. Kane corse immediatamente alla finestra, solo per vedersela spuntare dal basso, sospesa in aria. La ragazza rise della sua reazione, prima di svanire nel nulla.
Kane sospirò, gettando la scatoletta di cibo per gatti che intanto Kohl aveva finito di divorare e iniziando a spogliarsi per la doccia.
Le cose erano diventate improvvisamente molto più complesse. Interessanti, ma estremamente complesse.


Nato come un inside joke tra me e il mio coinquilino, mi sono reso conto che è effettivamente l'idea che preferisco e quindi mi sono messo a scriverla :sisi:
 
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