DODICESIMO CAPITOLO:
Fede e Bellezza di N. Tommaseo e
Fosca di I.U. Tarchetti
Oggi esco fuori con una porcheria bella e buona: faccio pendant di due autori diversi
I motivi sono questi: sono entrambi brevi, e li ho finiti a poca distanza l'uno dall'altro; condividono gli stessi generi (cornice narrativa tradizionale, in cui s'inseriscono tratti epistolari e di diario) e la stessa tematica, l'amore. Infine, sono coevi.
Per diverse ragioni che chiarirò a suo tempo, non consiglio nessuno dei due
Cominciando col primo (ovviamente).
Fede e Bellezza s'incentra sulla storia d'amore tra Maria e Giovanni. Entrambi vengono da una condizione umile, e a un certo punto della loro vita si trovano proiettati in una dimensione diversa, urbana: quella di Parigi. In molti tratti emerge un certo contrasto tra la realtà umile, l'Italia del popolo, e quella cittadina, la Francia. La prima è vista non dico come depositaria di valori, ma come un mondo più genuino e vero. Questo si riflette nei dialoghi, che Tommaseo riproduce uguali al linguaggio parlato: battute a botta e risposta, molto schiette e vere. Si contrappone a questo mondo quello urbano parigino, visto al contrario come falso, di costume, privo di rapporti sentiti: più volte l'autore dice che qui non si ama sentendo, ma 'computando'.
Il romanzo è pieno di sottili frecciate antifrancesi: non è solo la città in generale vista come un covo di vizi e falsità, ma proprio il mondo francese. Per quel che mi riguarda, non l'ho sentito pesante o fastidioso: quello che emerge è più un risentimento, che non un atteggiamento di sufficienza verso la Francia. Lascio perdere che alla fine sembra avvenire una conciliazione con la Francia: dico sembra, perché dopo che Giovanni dice: "Francesi, non vi vergognate della vostra razza, ma non disprezzate quella degli altri" (qualcosa di simile) le sottili frecciate continuano, e non si ha la sensazione di un vero cambiamento d'animo. Se non sbaglio il romanzo è stato composto dopo l'età napoleonica, e lo stesso autore ha vissuto qualche anno in Francia, quindi queste esperienze devono averne determinato il carattere antifrancese. Certo non è il massimo, perché è pur sempre una generalizzazione che si fa; bisogna tenere conto però che il romanzo non è concepito per offrire un messaggio preciso. è un romanzo autobiografico, quindi una confessione dell'autore. Non a caso molte sue vicende personali sono le stesse vissute da Giovanni: l'esperienza francese, i numerosi amori falliti, l'insegnamento.
Un aspetto che mi è piaciuto è però l'attenzione nel tratteggiare la psicologia dei personaggi. Non ci sono personaggi stereotipati o macchiette: l'autore rivela, per il suo periodo, una buona dose d'interesse e attenzione verso le donne. Tutte le protagoniste femminili sono molto vere e umane, più interessanti direi dei corrispettivi maschili.
Belli i ritratti dei vari personaggi, che uniscono la descrizione fisica allo studio della loro psicologia. Ricorrono, come qualità positive, la discrezione - quasi timidezza - e anche la capacità d'intendersi in silenzio, in contrapposizione alla ciarleria.
Bellissime anche le descrizioni dei paesaggi naturali: qui l'autore pare più un pittore impressionista che uno scrittore. Non sono descrizioni ultra-dettagliate come quelle offerte da Manzoni, ma sono vissute, e rivelano un certo amore per la natura - anche in questo caso, in contrapposizione alla tristezza della città di Parigi, cupa, sporca e bagnata da lunghi inverni di pioggia. Infine mi è piaciuto come vengono narrati i rapporti sessuali, risparmiandomi tutti quei dettaglini spiccioli da telecamera puntata nell'intimo
sono invece raccontati con un connubio particolare di delicatezza e sensualità.
Si è detto, a proposito di questo libro, che ci sia un contrasto tra la carnalità e la fede religiosa - altro motivo portante del romanzo: la fede è vista come espressione di saggezza, a dispetto degli illuministi che la bollavano a superstizione. Ma sto uscendo dall'argomento. Io sinceramente questo contrasto tra fede e carne non l'ho visto bene, mi pare anzi che le due realtà coesistano, senza sensi di colpa. Poi è probabile che sono scema io
Non mi soffermo su altre cose, sia perché al momento non mi vengono in mente, sia perché
finisco col fare una roba troppo lunga XD Passerò quindi subito allo stile.
Ecco, lo stile mi è piaciuto e non mi è piaciuto. Non rimprovero il linguaggio usato – ché alla fine sto parlando di un libro di sette-ottocento - e mi è piaciuto moltissimo il tono a tratti lirico, specie nelle descrizioni degli ambienti naturali, a tratti estremamente realistico, nei dialoghi. Il fatto è che il libro, nel suo complesso, mi è risultato piuttosto monocorde. In un libro, è ovvio, ci sono momenti più scemi e momenti a più alta tensione drammatica: Fede e Bellezza non è escluso da questa regola. Il finale è il momento a più alto livello drammatico. Ma a me è parso che quei momenti siano raccontati in maniera identica a momenti più prosaici, meno elevati, anzi a tutto il resto del libro. Ci ho riflettuto bene, e alla fine ho concluso queste cose: il problema non dipende dallo stile né dal tono del romanzo. Anche il Don Chisciotte mantiene sempre lo stesso tono ironico, ma ciò non lo rende affatto monocorde. Secondo me la questione è il modo in cui è strutturata la
narrazione: questa procede sempre col solito schema, descrizione paesaggio - confessione
personaggio - narrazione a sommi capi - dialogo - descrizione paesaggio eccetera eccetera, fino alla fine. Se la drammaticità della narrazione s'intensifica sul finire, lo fa però con molta moderazione, in modo quasi impercettibile. La sensazione è che sì, ci siano sentimenti diversi, ma amalgamati in un tutto omogeneo; o anche, che il romanzo sia così lirico in ogni punto, che ci fai l'abitudine e il finale, che è lirico, non spicca.
Ciò non toglie però che il finale è bellissimo, non solo il quadro generale; intendo anche le battute finali. La descrizione delle ultime azioni del personaggio sono impressionistiche, ma qui le frasi sono più secche, più brevi; dà l'idea di un'atmosfera fredda, invernale, ma dolce e malinconica. Da ricordare
Però prima ho accennato che non lo consiglierei. Non che il romanzo non mi sia piaciuto, anzi; il problema è che ad oggi il linguaggio usato, la narrazione per sommi capi, l'aria monocorde non aiuta a renderlo molto leggibile. Ti devi quindi armare di una certa pazienza, pur avendo di fronte un microbo di 350 pagine.
So che sono stata piuttosto sintetica, ma sul serio non trovo molto altro da dire, e forse sono io che in questo periodo mi sento poco ispirata. Il libro mi è piaciuto, ma non mi ha esaltata al punto da farmi scrivere fiumi di parole (è da un po' che un libro non mi esalta veramente).
Passo quindi al secondo, premettendo questa volta i motivi per cui non lo consiglio: Fosca non mi è piaciuto. è anche vero che è un po' disonesto da parte mia, perché che non piaccia a me, non vuol dire non piaccia neanche agli altri. Fosca è decisamente più accessibile di Fede e Bellezza: per il linguaggio usato, e per la trama. Partendo dal linguaggio, è di un pezzo più vicino al nostro, quasi lo stesso; di conseguenza la lettura, a parte qualche periodo un po' lungo e aggettivato, è più scorrevole e facile.
Per quel che invece riguarda la trama, l'autore la organizza in modo da accattivare l'attenzione del lettore e stimolarlo a proseguire: insomma, è abbastanza avvincente. Quanto a me, non mi sono attaccata come un polpo al libro; il fatto è che nessuno dei personaggi mi ha davvero motivata ad apprezzare la storia, a sentirla. Se mi sono sparata 130 pagine in una sera, era perché quel giorno non avevo il PC, e dovevo supplire in qualche modo
La conseguenza era che alla fine mi sentivo stonata, talmente stanca da giurare che non avrei più letto manco la lista della spesa. Ho avuto la sensazione netta di non aver letto un libro, ma di aver visto un film thriller, di quelli che mandano sulla Mediaset, e che ti riempiono di agitazione e ansia; solo che questo era ancora peggio, perché lungo 5 ore e passa.
Lo ammetto, prima di leggere avevo già le mie riserve. Fosca è un romanzo maturato nell'ambiente
della Scapigliatura, e incentrato su uno stereotipo, quello della femme fatale; già per me un libro, per essere letteratura, non deve avere luoghi comuni (e quello della femme fatale non mi va giù); e comunque c'è anche una questione mia in ballo: a parte per le ambientazioni, un po' mortuarie e affascinanti, la letteratura del decadentismo non mi piace.
Però non me la sentivo di avere pregiudizi: se il prof ci dà da studiare questo libro, un motivo c'è. Allora me lo sono letto. Ora, già dall'inizio ho avuto la sensazione che, rispetto a Fede e Bellezza, ci fosse un salto di qualità, verso il basso però; il modo in cui era scritto mi sapeva di una minore maturità. Certo, voglio anche spezzare una lancia in favore di Tarchetti: l'ha scritto nel suo ultimo anno di vita, ed è morto a 29 anni, prima di maturare del tutto come scrittore; in più è un libro d'appendice, pubblicato in riviste, e quindi studiato per accattivare il pubblico. è naturale, quindi, che non ci si può aspettare troppo. Tarchetti tra l'altro ha scritto anche racconti soprannaturali, e io ne ho letto uno, Un Osso di Morto; ne ho apprezzato l'ironia e l'impostazione, e mi è piaciuto di più del romanzo. Quindi, se sono chiara: boccio il libro, non l'autore.
Ho accennato che il libro è impostato per essere avvincente: la trama, quindi, riveste una certa importanza, con colpi di scena e finali di capitolo aperti, per creare suspence; i contenuti ci sono, ma ho avuto la sensazione che non fossero ben amalgamati con gli altri elementi del romanzo. Spiegandomi più chiaramente: se in un libro c'è un contenuto, ogni altro elemento, trama, personaggi, stile, tono, tutto deve rispondere a questo contenuto, esserne il riflesso. Mi è invece sembrato che qui questa comunione mancasse. L'autore dice frasi che riflettono il suo modo d'intendere la realtà (decadente, beninteso), ma non te lo fa sentire. Tirando le somme, la trama predomina decisamente sui contenuti, che paiono quasi una cosa a parte. L'unico messaggio che mi è sembrato essere reso meglio, è la questione del libero arbitrio. Tarchetti lo nega, e ciò si riflette nell'incapacità del protagonista, Giorgio, di tirarsi fuori da una situazione difficile, e la stessa parola con cui si chiude il romanzo ('strumento'). Più tiepido lo sviluppo del tema delle memorie e del passato perduto; il resto, (fugacità della gioventù e, parallelamente, dell'amore tra tutti) viene detto, ma non si sente. E comunque ho trovato piuttosto trita la concezione negativa del libero arbitrio, troppo inserita in un contesto culturale (quello Scapigliato) e poco personale.
Per quel che riguarda i personaggi, mi aspettavo tra Giorgio e la femme fatale, Fosca, qualcosa di ancora più stereotipato: lui, secondo il canone, doveva essere ammaliato dal tenebroso fascino di lei; qui invece Giorgio non è minimamente innamorato di Fosca, e sembra alle prese con una psicotica più che con una donna affascinante. Tuttavia Fosca è di tutti il personaggio che mi è piaciuto di più: è interessante il fatto che lei sia combattuta tra la sua spinta costante ad amare, e il senso di colpa (perché il suo amore per Giorgio lo danneggia). Non ha nulla di cattivo, e suscita più simpatie lei del protagonista, che io ritengo perfettamente dimenticabile. Però, come tutte le donne del romanzo, è spesso stucchevole e zuccherosa nelle sue manifestazioni amorose (anche se le stucchevolezze sono un po' la tara della letteratura d'amore ottocentesca). Stucchevole e puerile anche la fidanzata di Giorgio, Clara, che ha con lui un rapporto amoroso privo di sensualità, cosa che ho trovato piuttosto irrealistica e stereotipata.
Passo alla trama (e poi mi fermo, perché mi sto dilungando troppo): avvincente, sì, ma non mi ha fatta impazzire. Ci sono certe trovate un po' sbagliate, che rasentano l'assurdo.
Giorgio sta tutta la giornata in camera con Fosca, e ho trovato davvero scemo che il cugino di Fosca non s'insospettisse neanche un filo. Tarchetti dice che questo personaggio non pensa mai male, e va bene, ma fino a sto punto... Anche perché tutti gli altri si accorgevano che la situazione non era normale (e non intervenivano!). Poi succede una cosa, tipo che Fosca ha una crisi epilettica, e il medico consiglia a Giorgio di stare delle ore con lei per evitare che la donna muoia. Le soluzioni!
Infine, ultima cosa che mi è sembrata assurda, è che tutto questo succede in ambiente militare. Giorgio fa parte dell'esercito, ma passa tutta la giornata con Fosca, e si fa pure le passeggiate in carrozza. Capisco la critica che l'autore fa all'esercito, ma spingersi a un tal punto, dando al protagonista tutto il tempo libero possibile e immaginabile...
Sono insomma tutti questi fattori che hanno concorso a non farmi apprezzare il libro, facendomelo sembrare, per il suo irrealismo, a un qualsiasi film thriller. In più, si trova ogni tanto qualche tirata maschilista, che Tommaseo evitava, e che quindi non va bene nemmeno per i tempi. Farò qualche citazione:
CITAZIONE
(...) io che vo' pazzo dei fiori come le femmine
O peggio:
CITAZIONE
Io subiva d'altronde, come tutte le altre donne, quella malia prepotente e incomprensibile
che esercitano su di noi gli uomini di carattere violento, e spesso anche perverso. Lo avrai
osservato, è cosa comune. Le donne, ancorché non cessino di essere cortesi coi buoni e coi miti, cedono sempre di preferenza agli uomini audaci, prepotenti, pronti all'offesa, disprezzatori degli altri, vanagloriosi di sé; in una parola, ai peggiori degli uomini.
Ora, non voglio offendere le opinioni di nessuno, e se qualcuno la pensa così non me ne voglia; ma si può? Una cosa che un libro deve evitare come la peste, sono proprio gli stereotipi. Discutibile anche la teoria che non ci possa essere amicizia tra un uomo e una donna giovani; ma lì va bene, siamo nel campo delle opinioni.
Oltre che poco chiara, spero di non essere stata eccessiva. Non ho voluto denigrare un romanzo che, oggettivamente, non è brutto, ha i suoi contenuti, e perciò può piacere; quindi mi scuso se l'ho fatto.
Non è una stroncata totale, infatti alcune cose mi sono piaciute: le ambientazioni con un gusto per l'orrido, permeate da un'idea di morte che ricorre nel libro in elementi come ossa e teschi usati per arredamento, o nello stesso volto di Fosca, simile a uno scheletro. Carino il fatto che, col tempo, Giorgio somigli sempre di più a Fosca, nel modo di concepire l'amore (che passa da un livello più pragmatico, a uno più ossessivo).
Ma non è bastato per farmi apprezzare tutto il libro, che nel complesso mi è parso poco ispirato, e troppo incentrato sulla trama.
In ogni caso non mi sono pentita di averlo letto, perché sempre un'esperienza è, e quindi utile ad evitare certe cose che io stessa potrei ficcare nelle mie storielle da quattro soldi