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Nabbaggini sui libri, LOL

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view post Posted on 28/9/2018, 22:22
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UNDICESIMO CAPITOLO: Uomini e no di E.Vittorini

Ho finito giusto oggi questo breve libro. Ero indecisa, a dire il vero, prima della scelta, perché non sapevo che volevo: poi mi son resa conto che volevo qualcosa di più leggero, questa volta. Avevo appena finito Don Chisciotte e poi Sogno di una notte di mezza estate - che non è tanto pesante, essendo una commedia è molto breve. Però volevo un po' cambiare aria e tornare alla letteratura novecentesca.
Praticamente, tengo a casa una collezione di classici della letteratura, editi dal corriere della sera - sapete tutte quelle collezioni interminabili, che ogni tanto mandano in allegato con i giornali. Ecco, guardo questo libro, leggo il titolo, lo prendo indecisa, e leggo la linguetta laterale per sapere all'incirca i punti fondamentali, la tematica, tutte quelle cose lì che dovrebbero essere scritte nella linguetta. Stranamente, questa volta pareva essere stata scritta bene: di solito queste linguette dicono tutto quello che il libro NON è :asd: Invece che dire, a questo giro mi ha convinta, e alla fine mi sono decisa a leggere Uomini e no.
Si tratta di un libro sulla Resistenza e la lotta di Liberazione. Avevo buoni ricordi, a dire il vero, su questa tematica: pure la Luna e i falò era lì come tematica, e mi era piaciuto molto. E infatti Uomini e no mi ha per molti versi ricordato La luna e i falò: per il discorso, un po' sottotono, e l'atmosfera molto malinconica. Ci sono dei punti di differenza eh, tipo qui si prediligono i dialoghi mentre Pavese ha fatto una specie di monologo, poi qui c'è molta più narrazione.
Lo stile si riconosce subito nella sua originalità: molti dialoghi, poche descrizioni, anche quando si tratta di raccontare un'azione questa viene narrata per sommi capi, senza indugiarvi troppo. A dire il vero, questa è stata una delle difficoltà della lettura: certe volte non capivo cosa succedeva, poi Vittorini giù a nominare piazze e vie di Milano che io non
conosco per niente, di conseguenza capire gli spostamenti dei personaggi è spesso risultato difficile. Ma forse sono stata io un po' inadeguata, e comunque, alla fine, il senso ultimo della storia si capisce, e anche la trama.
Che dire, il protagonista è un partigiano di nome Enne 2, coinvolto in una storia d'amore impossibile con Berta, una donna già sposata. Enne 2 molto spesso riflette sul senso della sua vita e delle azioni che fa - le uccisioni che deve fare, in pratica. Enne 2 non si sente veramente, come dire, in sintonia con quello che è portato a fare. Più volte dice che sarebbe più semplice, sia per lui, sia per Berta, vivere insieme, lontani dalla guerra civile. Però in qualcosa è bloccato dal farlo, come anche Berta, ed entrambi alla fine continuano a fare cose che ritengono insensate e spiacevoli.
Spesso la parola "semplice" viene ribadita nel romanzo, con un significato positivo: semplice inteso come "buono", se riferito a una persona, o inteso come "bello, giusto" se riferito a una cosa. Però questa semplicità entra in contrasto con l'ambiente, con la situazione che i personaggi si trovano a vivere e con le cose che sono costretti a fare.
Magari non sono stata chiara, e faccio un esempio: c'è una parte in cui l'autore indica diversi partigiani, descrivendoli come persone "semplici e buone"; subito dopo si chiede perché uccidano persone. Gli stessi "antagonisti", - mettiamola così - all'inizio non appaiono dei classici supercattivissimi crudeli spietati ecc.ecc: vengono descritti anzi in situazioni
semplici, come per esempio giocare con un cane, a sculacciarsi (??), scherzare e cose simili. Se ognuno fa quello che fa, sembra essere spinto da un qualcosa di esterno, che non gli appartiene. L'autore si sofferma più su queste piccole scene quotidiane, serene,
"semplici" appunto, che sulle azioni vere e proprie, che costituiscono lo scheletro della trama.
Fondamentalmente quello che dice l'autore, per gran parte del libro, è che la natura umana è buona - anche se la parola che si usa di più per definirla, è "semplice" -, e che l'uomo nega sé stesso nel commettere crudeltà. Però la questione rimane aperta: come mai questi uomini semplici, buoni e tutto, facevano quelle cose?
La storia prosegue come se dovesse dare risposta a questa domanda. Il romanzo alterna capitoli narrativi a capitoli di riflessione, scritti in corsivo, in cui non si capisce chi è che pensa, forse Enne 2, o l'autore, o vari personaggi. Ma non importa saperlo, basta pensare che nei capitoli riflessivi viene espresso il grosso del messaggio del romanzo. Uno dei capitoli finali, che è una riflessione, Vittorini sostiene che l'uomo è buono, però in lui vi è la possibilità di fare il male - che non è la stessa cosa che dire che nell'uomo vi è il fare del male; qui il nesso tra l'uomo e il male è più distante.
Questo capitolo può un po' destabilizzare, perché Vittorini sembra dire tutta un'altra cosa rispetto a quella asserita finora; però leggendolo con attenzione non altera il senso ultimo del romanzo. Basta tenere conto che l'autore nomina il concetto della possibilità, non della necessità. L'uomo non fa il male perché è suo tipico, ma perché gli è possibile.
Giusto per dire, Enne 2 è convinto che c'è del buono in ogni uomo; e tutto il libro è permeato da un senso di universalità, per cui tutti, anche i malvagi, sono uomini; persino i cani, a un certo punto, vengono detti uomini. Non a caso, la parola "uomo" ricorre con una certa insistenza, e viene spesso apposta ai nomi. Tipo, spesso l'autore non dice, per esempio, "Enne 2", ma dice "l'uomo Enne 2", come a sottolineare la sua umanità. Forse, il voler dire che è uomo anche chi fa il male, come gli ufficiali nazi-fascisti nel romanzo, è proprio espressione di quest'universalità, come per dire: non è che i partigiani vanno ad uccidere l'orco cattivo, uccidono sempre persone come loro. Questo è un altro aspetto interessante del romanzo, infatti la lotta di liberazione non viene idealizzata. In Enne 2 c'è sempre la ricerca di una vita diversa, "semplice", magari con Berta; e alla fine, senza voler spoilerare nulla, Enne 2 finisce per seguire questo tipo di vita, fino alle estreme conseguenze. Motivo per cui, ve lo dico tra parentesi, in certi momenti mi è venuto di prenderlo a calci nel sedere, perché dai, non si poteva fare così :omg: ma è inutile che mi dilungo in considerazioni personali, perché se non conoscete il romanzo, non sapete a cosa mi riferisco.
Ovviamente, anche il finale è significativo, e riassume tutti i punti affrontati nel corso del romanzo. Non vi preoccupate, non c'è spoiler qui. In pratica, un operaio diventa partigiano, e cerca d'imparare come fare il partigiano; tipo, mentre sta sul camion, spara a dei tedeschi su una motoretta, durante un inseguimento. Quando però si tratta di sparare a un tedesco in una bettola, e quindi di sparare faccia a faccia una persona, non trova il coraggio di farlo. Nota che il tedesco si comporta timidamente, ha l'aria triste, - alla fine gli sorride pure - e non lo spara, perché in quel tedesco vede un uomo come lui stesso, ancor prima che un conquistatore. Ovviamente, quando quest'operaio esce senza aver ucciso il tedesco, i suoi compagni lo rimproverano di brutto, e lui, rassegnato, dice: "imparerò meglio". Così si chiude il romanzo.
Dirò, mi è piaciuto davvero tanto (belli sti libri sulla liberazione :epilessia: ): lo stile è molto lirico in alcuni punti, poi la lettura trasmette quell'aria malinconica che non guasta. Ottimo tra l'altro il modo in cui l'autore ha inserito il suo messaggio: esso passa attraverso le situazioni descritte, e viene ripetuto molto spesso nei dialoghi, così da consentire al lettore una facile individuazione delle idee-chiave. Poi personalmente ho apprezzato molto il messaggio, che non tutti possono condividere, ma che ha sicuramente dell'eroico.
Però faccio i miei piccoli appunti: come detto prima, certi passaggi sono poco chiari, complice il fatto che l'autore nomina vie e piazze di Milano dando per scontato che il lettore le conosca; però io non conosco Milano per niente, quindi, a leggere che Tizio va da Piazza X a Via Y, e Caio da Monumento Z a Via X, insomma, mi ha messa un po' in difficoltà. I
dialoghi risultano spesso un pochino inverosimili, e anche le situazioni, ma in fondo non lo rimprovero: un romanzo non dev'essere una fotocopia della realtà, deve lasciar passare un messaggio, e adattare tutti i suoi elementi a tale messaggio.
L'ultimo appunto che faccio non è da imputarsi al povero Vittorini, ma agli editori, o forse alla loro stampante.
Questo libro è pieno zeppo di errori di stampa.
Davvero, ti ritrovi a leggere "cera" al posto di "c'era", poi vedi che la r si unisce alla n e ne viene fuori una m (farne diventa fame :facepalm: ), o ancora, errori clamorosi con la punteggiatura, e molto altro. E non è una cosa occasionale, ma si ripete continuamente, pare la fiera degli errori.
Boh, di sicuro sarà stata colpa della stampante, che devo dire. Comunque alla fine li ho sopportati bene, si capiva cosa volessero dire :rotfl: e ho avuto comunque una lettura godibile.
 
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view post Posted on 21/2/2019, 13:06
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DODICESIMO CAPITOLO: Niente, riflessioni random su trama e personaggi.

Torno qui perché è da un secolo che non posto. Non è questione che me ne dimentico, più che altro sto leggendo a ritmi parecchio lenti, dedicandomi ad altre cose; e confesso che ultimamente l'ispirazione mi è pure passata e che spesso mi trovo a non sapere che dire. Tra l'altro su quel che sto leggendo ora non dirò ovviamente niente, perché più che leggendo lo sto rileggendo. Ma vabbé, chiudo qui questa premessa.

Come accennato dal titolo, oggi ho voluto fare un piccolo strappo alla regola, parlando, più che di romanzi, di alcune riflessioni che stavo facendo negli ultimi tempi su due cose: trama e personaggi.
Ho già accennato come per me i personaggi superino in importanza la trama. è chiaro che anche la trama ha la sua parte; ma i personaggi sono il traino. Se questi hanno potenziale, sono belli, caratterizzati bene, anche la trama avvincerà di più. Se un romanzo ha una trama piena di colpi di scena, svolte, intrecci complessi, ma dei personaggi mediocri verso cui non provo alcun sentimento, non mi avvince :nono:
Non a caso, i romanzi cui mi sono avvinta di più sono anche quelli con i personaggi che ho preferito: Sam per il Signore degli Anelli, Quasimodo per Notre-Dame de Paris, e, ponendola in termini meno classici, il priore Philip per i Pilastri della Terra.
Facendo un esempio, sia i Pilastri sia Mondo senza Fine hanno lo stesso potenziale come trama: ma Pilastri è stato per me più avvincente, perché c'era questo personaggio che mi piaceva particolarmente. Nell'altro nessuno dei personaggi mi è davvero rimasto in testa; sì, magari c'era quello più simpatico e quello meno, ma non avevo quella sensazione di "ohmmioddio adoro questo personaggio, voglio vedere cosa gli succede, se ha una gioia nella vita".

A volte mi affeziono particolarmente a un personaggio non per il suo potenziale, ma perché è scalognato, e m'intestardisco a leggere per vedere se un lieto fine lo attende. è il caso della storia di Turin Turambar per il Silmarillion (ci sono rimasta davvero male per lui :( infatti non ho il coraggio di leggere la storia inedita).
A volte invece le vicende mi assorbono verso la fine della storia, quando tutto precipita e cambia improvvisamente, come a Uomini e No o Addio alle armi. Ma quello che cerco, fondamentalmente, sono i personaggi.

Mi sono accorta che a volte un personaggio, pur avendo di per sé potenziale perché mi piaccia, o mi fa indifferenza o non lo sopporto proprio. Ho già spiegato, a proposito dei Pilastri - sono ripetitiva, lo so - di quanto non sopportassi il personaggio di Ellen, che lì per lì mi sarebbe potuta piacere, ma era simpatica come un virus intestinale.
Però rimanevo dubbiosa su personaggi che non erano davvero antipatici come lei, ma che mi suscitavano sentimenti di indifferenza lievemente spostati verso l'antipatia, come Caris di Mondo senza Fine. Sostanzialmente Caris è simile a Philip dei Pilastri, eppure c'era qualcosa di lei che non mi convinceva.

Allora ci ho riflettuto, e credo di aver capito qual era il problema. Io di un personaggio non sopporto queste cose:

1. La perfezione. Non sopporto i personaggi perfetti, che non sbagliano mai, che non vengono mai rimproverati né si rimproverano da soli. Personaggi sempre sicuri di essere nel giusto, sempre convinti di quello che fanno. Tutti i buoni li adorano, ma tu per qualche motivo oscuro e segreto non li sopporti. E questo perché, beati loro, sono perfetti.

2. Il sarcasmo. Da questa perfezione, spesso consegue che questi personaggi, dietro alla loro aureola di bontà, guardano i loro nemici dall'alto in basso, sparando frecciatine, battute sarcastiche, al punto che tu finisci per parteggiare per il cattivo piuttosto che per loro.

ho scoperto (tardi, come mio solito :asd: ) che questo genere di personaggi ha pure una definizione precisa: Mary Sue le femminucce, Gary Stu i maschietti. Forse lo sapevate pure, ma io lo metto qui per chiarezza e completezza. Ebbene il motivo per cui Caris non mi è piaciuta è proprio perché mi sapeva di Mary Sue.


3. La superficialità. Premetto che questo non ha a che fare con i romanzi di Follett sopraccitati, ma in generale. Non sopporto i personaggi superficiali, dal giudizio pronto, pieni di preconcetti. è la ragione per cui detestavo Mattia Pascal, o perché sulle prime mi stava antipatico il protagonista di Addio alle Armi. Molto spesso questo difetto, al contrario di quelli precedenti, è però voluto dall'autore, e va compreso e contestualizzato. Dopotutto non sempre un grande eroe va bene ai fini del contenuto, e i personaggi superficiali sono anche molto reali. Ma non veri :nono: quella è una cosa diversa per me.

4. L''incomprensibilità. Le ragioni psicologiche che spingono questo personaggio a comportarsi in un determinato modo non sono ben precisate. Hai l'impressione che il personaggio ti nasconda qualcosa, che la sua mente e i suoi pensieri non siano chiari; in poche parole, non puoi simpatizzare con lui e comprenderlo, neanche se è buono. Ho simpatizzato con Frollo che è il celebre cattivo di Notre-Dame de Paris, un prete pedofilo, di cui però tutti i tormenti psicologici erano chiari ed evidenti per me. (Non dico assolutamente che sono per la pedofilia nella Chiesa eh, non mi fraintendete! :asd: Intendo solo che sono riuscita più a capire lui, Frollo, che non tanti personaggi buoni che mi apparivano sfuggenti e torbidi).

5. I personaggi lamentosi. Non sopporto i personaggi che si lamentano di tutto, soprattutto se non fanno un fico secco per migliorare la situazione. Il principe Alì nelle Mille e una Notte prende il premio per il miglior rappresentate di questa categoria, ma ho conosciuto altri personaggi estremamente piagnucolosi anche fuori dai libri.


>>e infine, 6. Ok, ho detto quello che non sopporto; ma se un personaggio cambia radicalmente, eliminando con il tempo questi difetti, aggiungendo, perché no, anche una buona dose di pentimento, allora sono pronta a perdonarli e a cambiare ottica nei loro confronti. Dopotutto è bello un personaggio che cambia, matura, anche più di un personaggio che resta sempre immutato.
A questo proposito, l'ultima cosa che non sopporto è proprio quando un personaggio che abbia i sopraccitati difetti, uno, non cambia, due, non si pente. Da inizio a fine romanzo, è sempre lui, sempre uguale, con la sua perfezione/sarcasmo/superficialità/incomprensibilità o che altro.

Questo è quello che avevo da dire; spero di non essermi scordata qualcosa. Nel caso, aggiungo con un edit. Non dirò che quei difetti da me elencati sono universali, ci tengo a precisarlo. Uno può apprezzare personaggi che io non ho sopportato, e non tollerare invece aspetti diversi.
A questo punto sarei pure curiosa di sapere quale difetto voi non riuscite proprio a sopportare, di un personaggio :asd: Se serve, non c'è bisogno di limitarsi ai libri: i personaggi, grandi o mediocri, abbondano anche nei film e nei videogiochi.

Edited by Xarlys - 21/12/2020, 08:33
 
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view post Posted on 21/2/2019, 14:16
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Daedra

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A questo punto sarei pure curiosa di sapere quale difetto voi non riuscite proprio a sopportare, di un personaggio :asd: Se serve, non c'è bisogno di limitarsi ai libri: i personaggi, grandi o mediocri, abbondano anche nei film e nei videogiochi.

Ciao :hi:
Allora, i caratteri che non mi piacciono in un personaggio sono abbastanza e hanno molte sfumature ma generalizzando sono:

L'ingenuità
Io detesto ogni personaggio che abbia questa caratteristica, sia buono o cattivo.
Ad esempio Renzo(Fermo) de I Promessi Sposi.
Lui ha un sacco di qualità che ammiro, come il coraggio e la testardaggine, ma questo particolare (che si può vedere durante la rivolta di Milano) lo rovina completamente.

L'accondiscendenza
Sempre nei promessi sia Lucia che la monaca di Monza hanno questo tratto che definire caratteristico e dire poco
Un bel personaggio dev'essere fermo nelle sua decisioni, a meno che non gli sia suggerita una migliore.
Personalmente preferisco un personaggio fermo nelle sue convinzioni, anche se sono malvagie, piuttosto di uno che accetta tutto, non curante di essere d'accordo o no.

L'infedeltà
No, non sto parlando dei tradimenti matrimoniali :asd:
Per farvi capire:
Dragon Age Inquisition, Vivienne.
Chi l'ha giocato sa di cosa sto parlando ma, per chi non lo avesse fatto, lei è una maga politica che, appena la incontri, ti chiede di unirsi a te principalmente perché vuole avere maggiore potere e SOLO DOPO perché il mondo è nel caos
Praticamente se ci fosse stato un modo migliore ma con un'ideale diverso, avrebbe scelto quello!
Infatti personalmente lo tenuta solo perché mi serviva ma altrimenti l'avrei rimandata a casa sua con un calcio nel sedere.
In poche parole, un personaggio, perché mi piaccia, deve credere in qualcosa e non seguire solamente il potere.

CITAZIONE
>>e infine, 5. Ok, ho detto quello che non sopporto; ma se un personaggio cambia radicalmente, eliminando con il tempo questi difetti, aggiungendo, perché no, anche una buona dose di pentimento, allora sono pronta a perdonarli e a cambiare ottica nei loro confronti. Dopotutto è bello un personaggio che cambia, matura, anche più di un personaggio che resta sempre immutato.
A questo proposito, l'ultima cosa che non sopporto è proprio quando un personaggio che abbia i sopraccitati difetti, uno, non cambia, due, non si pente.

La penso assolutamente allo stesso modo


Molto probabilmente avrò dimenticato qualcosa ma adesso non mi viene, al massimo correggo con un edit anch'io

Edited by Ffff4f - 21/2/2019, 15:11
 
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view post Posted on 21/2/2019, 18:16
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Capisco :sisi:

Per quel che riguarda l'ingenuità, per me dipende da come la si tratta. Quella di Renzo non mi da fastidio, ma quella di Esmeralda (Notre-Dame de Paris) è decisamente irritante mad
Snervante, sdolcinata.

Lucia ok, ci sta, ma la monaca di Monza non la ricordo proprio accondiscendente :durso: in che cosa lo è di preciso? Forse perché non riesce a ribellarsi al padre?

Per l'infedeltà non so che dirti, devo vedere qualcosa in più :asd:
 
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view post Posted on 22/2/2019, 16:19
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Daedra

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Per quel che riguarda l'ingenuità, per me dipende da come la si tratta. Quella di Renzo non mi da fastidio, ma quella di Esmeralda (Notre-Dame de Paris) è decisamente irritante mad
Snervante, sdolcinata.

Non ho letto né visto il film perché non è il mio tipo ma dopo aver visto la tua recensione ho capito che tipo è :sisi:
Fammi indovinare, è anche particolarmente egoista?
CITAZIONE
Lucia ok, ci sta, ma la monaca di Monza non la ricordo proprio accondiscendente :durso: in che cosa lo è di preciso? Forse perché non riesce a ribellarsi al padre?

Beh, in realtà per tutto:

In tenera età vorrebbe affetto ma, visto che gli è stato detto che lei è la migliore (perché è una nobile principessa ecc. ) si rende antipatica a tutti

Poi sì, c'è il padre :asd:
Lui li dice "Devi farti suora" e le PENSA "ma io non voglio" ma non lo dice il faccia
Solo quando è al convento gli spedisce la lettera, poi va a casa e trova il gelo più totale
L'unica persona che la tratta con rispetto e pietà è un piaggio, lei li scrive una lettera d'amore che però viene vista dal padre
Credendo di aver fatto qualcosa di grave viene spinta dal padre a farsi suora
Ora, da quel momento lei ha avuto più volte l'opportunità di evitare il convento (ad esempio quando il parroco è venuto lì a controllare, oppure quando ha fatto il primo giuramento o ancora quando ha fatto il giuramento finale) ma non lo ha mai sfruttato perché aveva paura di dire di no

Quando arriva Lucia lei la prende in simpatia
Però, visto che il suo amante lavora per l'innominato che ha il compito di rapirla, quando glielo chiede lei non prova nemmeno a dire di no ma lo fa e basta
CITAZIONE
Per l'infedeltà non so che dirti, devo vedere qualcosa in più :asd:

Non ho capito, mi sono spiegato male? :gratt:
 
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view post Posted on 22/2/2019, 21:06
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Fammi indovinare, è anche particolarmente egoista?

Mah, forse un po' sì, anche se io direi più menefreghista.
Il Gobbo si spacca il sedere per lei, Febo gioca con i suoi sentimenti, e lei invece di pensare ad essere riconoscente al Gobbo continua a pensare a Febo. Che poi Febo non è nemmeno un buon attore, si vede benissimo che è un tipo superficiale come lei.

Non sa guardare quello che provano gli altri, è tutta incentrata su sé stessa. Fino alla fine :sisi:

Per la monaca di Monza ora mi hai chiarito meglio le idee :sisi:
Vero, diciamo che è prigioniera di tutto. Delle convenzioni sociali, e di sé stessa anche. Un po' come i protagonisti di Gente di Dublino, che a questo punto non credo ti piacerebbero :asd:

CITAZIONE
Non ho capito, mi sono spiegato male? :gratt:

Nono, sei stato chiaro, tranqui ;)
Dicevo piuttosto che non ci sono esempi che mi vengano in mente/mi siano rimasti impressi di personaggi con questa caratteristica :sisi:
 
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view post Posted on 22/2/2019, 21:51
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Vero, diciamo che è prigioniera di tutto. Delle convenzioni sociali, e di sé stessa anche.

Verissimo, non per niente non sa cosa vuole(secondo me ha anche qualche rotelle fuori posto visto questi sbalzi di carattere :sisi: )
CITAZIONE
Un po' come i protagonisti di Gente di Dublino, che a questo punto non credo ti piacerebbero :asd:

Mi hai incuriosito, di cosa parla?

Edited by Ffff4f - 23/2/2019, 07:32
 
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view post Posted on 23/2/2019, 10:17
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È una serie di racconti di Joyce, ambientati nella Dublino di fine 800-inizio 900.
I protagonisti sono appunto persone che, vista la situazione economica, politica e sociale dell'Irlanda dell'epoca, non riescono a liberarsi dei loro vincoli sociali e psicologici, restando prigionieri di una vita triste e mediocre.

Io non ho letto tutto, qualcuno in inglese al liceo, però sono scritti molto bene (il finale dell'ultimo racconto è bellissimo, soprattutto in lingua :dramma: )
Chissà se potrebbero pure piacerti, ma i personaggi sono un po' così :sisi:
 
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view post Posted on 22/3/2019, 09:57
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Gente di Dublino è uno dei miei libri preferiti, anche se all'epoca lo lessi in tutta fretta.
Il finale però mi ha sempre colpito, tanto da farmi venire i brividi (manco zio Lovecraft ci è riuscito).

Lo consiglio a chiunque abbia del tempo.
 
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view post Posted on 9/4/2019, 12:18
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DODICESIMO CAPITOLO: Fede e Bellezza di N. Tommaseo e Fosca di I.U. Tarchetti

Oggi esco fuori con una porcheria bella e buona: faccio pendant di due autori diversi :asd:
I motivi sono questi: sono entrambi brevi, e li ho finiti a poca distanza l'uno dall'altro; condividono gli stessi generi (cornice narrativa tradizionale, in cui s'inseriscono tratti epistolari e di diario) e la stessa tematica, l'amore. Infine, sono coevi.
Per diverse ragioni che chiarirò a suo tempo, non consiglio nessuno dei due :nono:

Cominciando col primo (ovviamente).
Fede e Bellezza s'incentra sulla storia d'amore tra Maria e Giovanni. Entrambi vengono da una condizione umile, e a un certo punto della loro vita si trovano proiettati in una dimensione diversa, urbana: quella di Parigi. In molti tratti emerge un certo contrasto tra la realtà umile, l'Italia del popolo, e quella cittadina, la Francia. La prima è vista non dico come depositaria di valori, ma come un mondo più genuino e vero. Questo si riflette nei dialoghi, che Tommaseo riproduce uguali al linguaggio parlato: battute a botta e risposta, molto schiette e vere. Si contrappone a questo mondo quello urbano parigino, visto al contrario come falso, di costume, privo di rapporti sentiti: più volte l'autore dice che qui non si ama sentendo, ma 'computando'.
Il romanzo è pieno di sottili frecciate antifrancesi: non è solo la città in generale vista come un covo di vizi e falsità, ma proprio il mondo francese. Per quel che mi riguarda, non l'ho sentito pesante o fastidioso: quello che emerge è più un risentimento, che non un atteggiamento di sufficienza verso la Francia. Lascio perdere che alla fine sembra avvenire una conciliazione con la Francia: dico sembra, perché dopo che Giovanni dice: "Francesi, non vi vergognate della vostra razza, ma non disprezzate quella degli altri" (qualcosa di simile) le sottili frecciate continuano, e non si ha la sensazione di un vero cambiamento d'animo. Se non sbaglio il romanzo è stato composto dopo l'età napoleonica, e lo stesso autore ha vissuto qualche anno in Francia, quindi queste esperienze devono averne determinato il carattere antifrancese. Certo non è il massimo, perché è pur sempre una generalizzazione che si fa; bisogna tenere conto però che il romanzo non è concepito per offrire un messaggio preciso. è un romanzo autobiografico, quindi una confessione dell'autore. Non a caso molte sue vicende personali sono le stesse vissute da Giovanni: l'esperienza francese, i numerosi amori falliti, l'insegnamento.
Un aspetto che mi è piaciuto è però l'attenzione nel tratteggiare la psicologia dei personaggi. Non ci sono personaggi stereotipati o macchiette: l'autore rivela, per il suo periodo, una buona dose d'interesse e attenzione verso le donne. Tutte le protagoniste femminili sono molto vere e umane, più interessanti direi dei corrispettivi maschili.
Belli i ritratti dei vari personaggi, che uniscono la descrizione fisica allo studio della loro psicologia. Ricorrono, come qualità positive, la discrezione - quasi timidezza - e anche la capacità d'intendersi in silenzio, in contrapposizione alla ciarleria.
Bellissime anche le descrizioni dei paesaggi naturali: qui l'autore pare più un pittore impressionista che uno scrittore. Non sono descrizioni ultra-dettagliate come quelle offerte da Manzoni, ma sono vissute, e rivelano un certo amore per la natura - anche in questo caso, in contrapposizione alla tristezza della città di Parigi, cupa, sporca e bagnata da lunghi inverni di pioggia. Infine mi è piaciuto come vengono narrati i rapporti sessuali, risparmiandomi tutti quei dettaglini spiccioli da telecamera puntata nell'intimo :rotfl: sono invece raccontati con un connubio particolare di delicatezza e sensualità.
Si è detto, a proposito di questo libro, che ci sia un contrasto tra la carnalità e la fede religiosa - altro motivo portante del romanzo: la fede è vista come espressione di saggezza, a dispetto degli illuministi che la bollavano a superstizione. Ma sto uscendo dall'argomento. Io sinceramente questo contrasto tra fede e carne non l'ho visto bene, mi pare anzi che le due realtà coesistano, senza sensi di colpa. Poi è probabile che sono scema io :rotfl:
Non mi soffermo su altre cose, sia perché al momento non mi vengono in mente, sia perché
finisco col fare una roba troppo lunga XD Passerò quindi subito allo stile.
Ecco, lo stile mi è piaciuto e non mi è piaciuto. Non rimprovero il linguaggio usato – ché alla fine sto parlando di un libro di sette-ottocento - e mi è piaciuto moltissimo il tono a tratti lirico, specie nelle descrizioni degli ambienti naturali, a tratti estremamente realistico, nei dialoghi. Il fatto è che il libro, nel suo complesso, mi è risultato piuttosto monocorde. In un libro, è ovvio, ci sono momenti più scemi e momenti a più alta tensione drammatica: Fede e Bellezza non è escluso da questa regola. Il finale è il momento a più alto livello drammatico. Ma a me è parso che quei momenti siano raccontati in maniera identica a momenti più prosaici, meno elevati, anzi a tutto il resto del libro. Ci ho riflettuto bene, e alla fine ho concluso queste cose: il problema non dipende dallo stile né dal tono del romanzo. Anche il Don Chisciotte mantiene sempre lo stesso tono ironico, ma ciò non lo rende affatto monocorde. Secondo me la questione è il modo in cui è strutturata la
narrazione: questa procede sempre col solito schema, descrizione paesaggio - confessione
personaggio - narrazione a sommi capi - dialogo - descrizione paesaggio eccetera eccetera, fino alla fine. Se la drammaticità della narrazione s'intensifica sul finire, lo fa però con molta moderazione, in modo quasi impercettibile. La sensazione è che sì, ci siano sentimenti diversi, ma amalgamati in un tutto omogeneo; o anche, che il romanzo sia così lirico in ogni punto, che ci fai l'abitudine e il finale, che è lirico, non spicca.
Ciò non toglie però che il finale è bellissimo, non solo il quadro generale; intendo anche le battute finali. La descrizione delle ultime azioni del personaggio sono impressionistiche, ma qui le frasi sono più secche, più brevi; dà l'idea di un'atmosfera fredda, invernale, ma dolce e malinconica. Da ricordare :sisi:
Però prima ho accennato che non lo consiglierei. Non che il romanzo non mi sia piaciuto, anzi; il problema è che ad oggi il linguaggio usato, la narrazione per sommi capi, l'aria monocorde non aiuta a renderlo molto leggibile. Ti devi quindi armare di una certa pazienza, pur avendo di fronte un microbo di 350 pagine.

So che sono stata piuttosto sintetica, ma sul serio non trovo molto altro da dire, e forse sono io che in questo periodo mi sento poco ispirata. Il libro mi è piaciuto, ma non mi ha esaltata al punto da farmi scrivere fiumi di parole (è da un po' che un libro non mi esalta veramente).
Passo quindi al secondo, premettendo questa volta i motivi per cui non lo consiglio: Fosca non mi è piaciuto. è anche vero che è un po' disonesto da parte mia, perché che non piaccia a me, non vuol dire non piaccia neanche agli altri. Fosca è decisamente più accessibile di Fede e Bellezza: per il linguaggio usato, e per la trama. Partendo dal linguaggio, è di un pezzo più vicino al nostro, quasi lo stesso; di conseguenza la lettura, a parte qualche periodo un po' lungo e aggettivato, è più scorrevole e facile.
Per quel che invece riguarda la trama, l'autore la organizza in modo da accattivare l'attenzione del lettore e stimolarlo a proseguire: insomma, è abbastanza avvincente. Quanto a me, non mi sono attaccata come un polpo al libro; il fatto è che nessuno dei personaggi mi ha davvero motivata ad apprezzare la storia, a sentirla. Se mi sono sparata 130 pagine in una sera, era perché quel giorno non avevo il PC, e dovevo supplire in qualche modo :asd:
La conseguenza era che alla fine mi sentivo stonata, talmente stanca da giurare che non avrei più letto manco la lista della spesa. Ho avuto la sensazione netta di non aver letto un libro, ma di aver visto un film thriller, di quelli che mandano sulla Mediaset, e che ti riempiono di agitazione e ansia; solo che questo era ancora peggio, perché lungo 5 ore e passa.
Lo ammetto, prima di leggere avevo già le mie riserve. Fosca è un romanzo maturato nell'ambiente
della Scapigliatura, e incentrato su uno stereotipo, quello della femme fatale; già per me un libro, per essere letteratura, non deve avere luoghi comuni (e quello della femme fatale non mi va giù); e comunque c'è anche una questione mia in ballo: a parte per le ambientazioni, un po' mortuarie e affascinanti, la letteratura del decadentismo non mi piace.
Però non me la sentivo di avere pregiudizi: se il prof ci dà da studiare questo libro, un motivo c'è. Allora me lo sono letto. Ora, già dall'inizio ho avuto la sensazione che, rispetto a Fede e Bellezza, ci fosse un salto di qualità, verso il basso però; il modo in cui era scritto mi sapeva di una minore maturità. Certo, voglio anche spezzare una lancia in favore di Tarchetti: l'ha scritto nel suo ultimo anno di vita, ed è morto a 29 anni, prima di maturare del tutto come scrittore; in più è un libro d'appendice, pubblicato in riviste, e quindi studiato per accattivare il pubblico. è naturale, quindi, che non ci si può aspettare troppo. Tarchetti tra l'altro ha scritto anche racconti soprannaturali, e io ne ho letto uno, Un Osso di Morto; ne ho apprezzato l'ironia e l'impostazione, e mi è piaciuto di più del romanzo. Quindi, se sono chiara: boccio il libro, non l'autore.
Ho accennato che il libro è impostato per essere avvincente: la trama, quindi, riveste una certa importanza, con colpi di scena e finali di capitolo aperti, per creare suspence; i contenuti ci sono, ma ho avuto la sensazione che non fossero ben amalgamati con gli altri elementi del romanzo. Spiegandomi più chiaramente: se in un libro c'è un contenuto, ogni altro elemento, trama, personaggi, stile, tono, tutto deve rispondere a questo contenuto, esserne il riflesso. Mi è invece sembrato che qui questa comunione mancasse. L'autore dice frasi che riflettono il suo modo d'intendere la realtà (decadente, beninteso), ma non te lo fa sentire. Tirando le somme, la trama predomina decisamente sui contenuti, che paiono quasi una cosa a parte. L'unico messaggio che mi è sembrato essere reso meglio, è la questione del libero arbitrio. Tarchetti lo nega, e ciò si riflette nell'incapacità del protagonista, Giorgio, di tirarsi fuori da una situazione difficile, e la stessa parola con cui si chiude il romanzo ('strumento'). Più tiepido lo sviluppo del tema delle memorie e del passato perduto; il resto, (fugacità della gioventù e, parallelamente, dell'amore tra tutti) viene detto, ma non si sente. E comunque ho trovato piuttosto trita la concezione negativa del libero arbitrio, troppo inserita in un contesto culturale (quello Scapigliato) e poco personale.
Per quel che riguarda i personaggi, mi aspettavo tra Giorgio e la femme fatale, Fosca, qualcosa di ancora più stereotipato: lui, secondo il canone, doveva essere ammaliato dal tenebroso fascino di lei; qui invece Giorgio non è minimamente innamorato di Fosca, e sembra alle prese con una psicotica più che con una donna affascinante. Tuttavia Fosca è di tutti il personaggio che mi è piaciuto di più: è interessante il fatto che lei sia combattuta tra la sua spinta costante ad amare, e il senso di colpa (perché il suo amore per Giorgio lo danneggia). Non ha nulla di cattivo, e suscita più simpatie lei del protagonista, che io ritengo perfettamente dimenticabile. Però, come tutte le donne del romanzo, è spesso stucchevole e zuccherosa nelle sue manifestazioni amorose (anche se le stucchevolezze sono un po' la tara della letteratura d'amore ottocentesca). Stucchevole e puerile anche la fidanzata di Giorgio, Clara, che ha con lui un rapporto amoroso privo di sensualità, cosa che ho trovato piuttosto irrealistica e stereotipata.
Passo alla trama (e poi mi fermo, perché mi sto dilungando troppo): avvincente, sì, ma non mi ha fatta impazzire. Ci sono certe trovate un po' sbagliate, che rasentano l'assurdo.
Giorgio sta tutta la giornata in camera con Fosca, e ho trovato davvero scemo che il cugino di Fosca non s'insospettisse neanche un filo. Tarchetti dice che questo personaggio non pensa mai male, e va bene, ma fino a sto punto... Anche perché tutti gli altri si accorgevano che la situazione non era normale (e non intervenivano!). Poi succede una cosa, tipo che Fosca ha una crisi epilettica, e il medico consiglia a Giorgio di stare delle ore con lei per evitare che la donna muoia. Le soluzioni! :rotfl:
Infine, ultima cosa che mi è sembrata assurda, è che tutto questo succede in ambiente militare. Giorgio fa parte dell'esercito, ma passa tutta la giornata con Fosca, e si fa pure le passeggiate in carrozza. Capisco la critica che l'autore fa all'esercito, ma spingersi a un tal punto, dando al protagonista tutto il tempo libero possibile e immaginabile...
Sono insomma tutti questi fattori che hanno concorso a non farmi apprezzare il libro, facendomelo sembrare, per il suo irrealismo, a un qualsiasi film thriller. In più, si trova ogni tanto qualche tirata maschilista, che Tommaseo evitava, e che quindi non va bene nemmeno per i tempi. Farò qualche citazione:

CITAZIONE
(...) io che vo' pazzo dei fiori come le femmine

O peggio:

CITAZIONE
Io subiva d'altronde, come tutte le altre donne, quella malia prepotente e incomprensibile
che esercitano su di noi gli uomini di carattere violento, e spesso anche perverso. Lo avrai
osservato, è cosa comune. Le donne, ancorché non cessino di essere cortesi coi buoni e coi miti, cedono sempre di preferenza agli uomini audaci, prepotenti, pronti all'offesa, disprezzatori degli altri, vanagloriosi di sé; in una parola, ai peggiori degli uomini.

Ora, non voglio offendere le opinioni di nessuno, e se qualcuno la pensa così non me ne voglia; ma si può? Una cosa che un libro deve evitare come la peste, sono proprio gli stereotipi. Discutibile anche la teoria che non ci possa essere amicizia tra un uomo e una donna giovani; ma lì va bene, siamo nel campo delle opinioni.

Oltre che poco chiara, spero di non essere stata eccessiva. Non ho voluto denigrare un romanzo che, oggettivamente, non è brutto, ha i suoi contenuti, e perciò può piacere; quindi mi scuso se l'ho fatto.
Non è una stroncata totale, infatti alcune cose mi sono piaciute: le ambientazioni con un gusto per l'orrido, permeate da un'idea di morte che ricorre nel libro in elementi come ossa e teschi usati per arredamento, o nello stesso volto di Fosca, simile a uno scheletro. Carino il fatto che, col tempo, Giorgio somigli sempre di più a Fosca, nel modo di concepire l'amore (che passa da un livello più pragmatico, a uno più ossessivo).
Ma non è bastato per farmi apprezzare tutto il libro, che nel complesso mi è parso poco ispirato, e troppo incentrato sulla trama.
In ogni caso non mi sono pentita di averlo letto, perché sempre un'esperienza è, e quindi utile ad evitare certe cose che io stessa potrei ficcare nelle mie storielle da quattro soldi :asd:
 
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view post Posted on 26/4/2019, 08:31
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Modificata la cosa dei personaggi, aggiungendo un dettaglio che prima non conoscevo (e pensavo fosse solo un problema mio) :sisi:
 
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view post Posted on 29/5/2019, 20:40
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TREDICESIMO CAPITOLO: Le Confessioni d'un italiano di I. Nievo

Ok. Sfrutto il tempo libero per rifilarvi la mia solita pilloletta, da me chiamata "capitolo". Nemmeno io so perché.

Ho finito di leggere da qualche tempo questo libro, e nel frattempo anche un altro. Solo adesso ho rimediato il tempo, oltre che le parole, per parlarne.
L'ho finito in tempo da record (per i miei standard, s'intende): tre settimane per ottocento pagine e passa, scritte, tra l'altro, a caratteri minuscoli. Questo non perché mi abbia preso particolarmente (anche se qualche colpo di scena non manca), ma perché è scritto con una chiarezza tale, che non ho quasi mai avuto bisogno di tornare indietro per rileggere qualche particolare non afferrato. Forse il libro più chiaro che abbia mai letto: un deciso vantaggio per un lettore con carenza di tempo. Questo risponde a un programma dell'autore, da lui spiegato nello stesso romanzo: produrre una letteratura accessibile a tutti, in modo da educare il popolo italiano alle virtù civiche, specie all'impegno politico e alla dedizione nei doveri, agli albori dell'unità. Di sicuro Nievo ci è riuscito: io ho addirittura trovato il libro fin troppo chiaro, come se lasciasse poca immaginazione al lettore. L'analisi psicologica è finissima per tutti i personaggi, cosa che ho apprezzato molto e al contempo trovato poco credibile. A me l'aspetto psicologico piace, presuppone una conoscenza e un'analisi che l'autore fa di sé stesso; se è poco credibile, è perché il narratore protagonista è in prima persona, però sa tutto quello che passa in testa agli altri, salvo raccontare con minuzia di dettagli scene che non ha mai visto. Ok che alla fine non ci fai caso, e che avremmo perso belle cose senza questo compromesso; ma a momenti la credibilità ci perde.
Apprezzato anche il realismo delle scene, che senza troppe ostentazioni ti proietta nel mondo della Venezia prima dell'unità: ambienti ed episodi sono descritti in modo così vivido che ti rimangono impressi, e sembra quasi di provare la sensazione di un ottuagenario quando rievoca senza ordine i ricordi della sua vita; quale è, appunto, il narratore.
Questo corrisponde a Carlo Altoviti, un uomo nato alla fine dell'antico regime, e che assiste nella sua vita a tutti gli scombussolamenti della rivoluzione francese e dell'età napoleonica. Come molti lui inizialmente è fiducioso nei francesi e nella loro missione storica, ma col tempo, vedendo Venezia, la terra della sua infanzia, cadere in rovina, diventa sfiduciato. Però Carlo non è esattamente uno che si dedica tutto alla politica; più volte si dice una persona mite, e ha un atteggiamento costantemente buono verso la vita e le persone. È una persona del tutto normale, con tanta esperienza e delle cicatrici anche gravi, ma che trae un felice bilancio della sua vita, aprendosi alla morte ormai vicina senza rimpianti.
Molto diverso è l'amore della sua vita, la Pisana. Lei è la contessina di Fratta, un villaggio in Friuli, amica d'infanzia di Carlo. Carlo, da bambino, è una specie di reietto nel castello, perché nato da una relazione difficile, ma la sua infanzia è anche piena di ricordi felici legati alla Pisana. Molto realistica la descrizione del mondo infantile, tanto che le pagine sull'infanzia sono credute le migliori; anche se io non sono d'accordo. All'inizio i personaggi sono solo bozze di quello che diventeranno da adulti, e non c'è stato per me quel gran "feeling"; lo stesso Carlo mi stava vagamente sulle scatole perché era un bambino dispettoso (per quanto solo con le persone cattive). Non dico troppo, ma un poco irritante è anche la figura del buon brigante, lo Spaccafumo, con cui il piccolo Carlo fa amicizia: riesce sempre a fuggire e mette in situazioni di cacca chi lo protegge; Lucilio, il medico del castello di Fratta, per il suo atteggiamento quasi freddo e calcolatore mi riusciva un po' antipatico; per quel che riguarda le eroine femminili, ho trovato irrealistica la contessa Clara, sorella maggiore della Pisana, che corrisponde allo stereotipo dell'angelo del focolare, e che il narratore ribadisce costantemente essere la quintessenza della bontà. Io la dico franca, non vedo perché la bontà non possa coesistere con qualche difetto. Lei è perfetta, sempre calma, sorridente, dolce...eh sì, ok, non mi è antipatica, ma che noia! A un certo punto, in realtà, arriva a opporsi alle decisioni della madre (che ho odiato) ma sempre con lo stesso atteggiamento angelico, senza mai fare un errore.
Chiudo la catena con la Pisana, che, stando alla descrizione, non mi piaceva: solita bambina "civettuola", servita da una schiera di bambini che le fanno il filo, Carlo compreso (altro modello di personaggio che trovo davvero, ma davvero irrealistico). Inoltre avevo cattivi ricordi di un personaggio simile, la Violante del Barone Rampante, che odiavo :rotfl:
Insomma, sono troppo rompiballe coi miei gusti sui personaggi, ma il quadretto qui descritto forse risulta peggiore di quello che è stato effettivamente. Qualcuno mi è stato un po'antipatico, ma mai davvero; e inaspettatamente, la Pisana non era tra questi. Era evidente, anzi, che lei fosse particolarmente attaccata a Carlo sin dall'infanzia, e che lui sarà per lei un punto di riferimento anche quando i due saranno adulti.
A questo nucleo si aggiungono via via altri personaggi: tralasciando gli altri ed evitando, come sempre, spoiler, mi è rimasta impressa la contessina Doretta di Venchieredo: il personaggio più stupido e odioso di tutto il romanzo. È una donna gretta, superficiale e dalla testa vuota, che pensa sempre alle cose materiali (tipo che il servo non le ha dato lo scialle) anche nelle circostanze più tragiche.
Le pagine sull'infanzia sono caratterizzate da un tono ironico, che io apprezzo sempre; eppure mi è piaciuta più il racconto sulla vita adulta dei personaggi. Qui l'ironia non c'è più, ma ci sono molte scene memorabili nella loro tristezza: come quella che racconta la conclusione di un'amicizia tra un cane e un gatto. Personaggi che prima ti stavano antipatici (a eccezione di quelli irriducibilmente negativi) arrivi a capirli: il dottore Lucilio, che cerca di farsi una vita nonostante le cocenti delusioni politiche e affettive; la Pisana, poi, che confessa al protagonista il motivo per cui gli è legata: Carlo è l'unico che, nonostante i suoi errori, l'ha sempre amata per quella che è. Tutti gli altri amanti della Pisana, infatti, l'hanno sempre lasciata e rifiutata, e non hanno mai accettato il suo carattere. In realtà, poi, la Pisana non commette "errori" per cattiveria: la sua è ansia di libertà e di avventura. Non ha nessun problema a parlare dei suoi pensieri, con una schiettezza che può essere interpretata per sfacciataggine, ma che io ho invece visto come naturalezza (pure un po' ingenua, volendo).
A differenza della Violante, la Pisana non è solo "civettuola" (odio questa parola :rotfl: ) sensuale, affettuosa e imprevedibile: ciò che rende bello il personaggio è, a mio parere, la sua generosità, la volontà di sacrificarsi fino all'ultimo per Carlo. Senza questo tratto, a mio parere, non sarebbe stata completa. Bello il rapporto con Carlo, di amore, amicizia e fratellanza insieme: una storia in cui Carlo imparerà a conoscere sempre meglio la Pisana, a esprimere meno giudizi su di lei e ad apprezzarla sempre di più; cosa che avviene anche con altri personaggi, con il maturare del protagonista. Infatti alla fine lui arriva ad accogliere i figli di uno con cui prima non andava d'accordo (una specie di sciupafemmine, Raimondo Venchieredo).
Belle anche le atmosfere di quando il protagonista, ormai anziano, torna ai luoghi dell'infanzia, trovando così il castello di Fratta in condizione di abbandono: mi ha colpito la descrizione della camera da letto dei conti, col particolare di un gufo appollaiato sulla spalliera del letto; o ancora di un nido di rondini nella cameretta dell'inserviente Martino, uno degli amici d'infanzia di Carlo.
Ho rivalutato anche lo Spaccafumo ( :asd: ) perché nelle ultime pagine non è più il fuorilegge che riesce sempre a svignarsela, ma è un vecchio rimbambito e barbuto che i ragazzi prendono un po' in giro (e per questo mi è riuscito più simpatico).
Passando invece ai lati negativi della lettura: purtroppo, nessun personaggio ha davvero fatto breccia dentro me. Neanche la Pisana, che, per quanto creda sia un grande personaggio, penso renda meglio a un lettore maschile. Ho immaginato che, essendo il punto di vista del romanzo un uomo, e lei una donna sensuale, la Pisana è più accattivante per un lettore che per una lettrice. Penso eh, è sempre una congettura.
Ci sono inserti storici che richiamano Manzoni, e che per quanto Nievo si sforzi di renderli interessanti, possono risultare un tantino confusi. Per fortuna il succo si capisce, ed è evidente come i fatti storici si ripercuotano sulla psicologia dei personaggi.
Infine, ultimo appunto è la narrazione, che spesso è riassuntiva in fatti che dovrebbero essere importanti per la vita del protagonista. Ma qui non ne faccio una colpa: evidentemente quei fatti erano meno importanti di altri, che invece sono stati privilegiati. Inoltre il libro è già lungo così, si fosse esteso ancora sarebbe stato interminabile. In realtà è forse più breve del Signore degli Anelli, ma sembra più lungo di quello (dandoti davvero l'idea di ripercorrere una vita). Altra cosa che ho apprezzato sono i colpi di scena, non esagerati, e alcuni cliché nella trama (tipo il duello, che ricorre nella narrativa ottecentesca). Qualcuno può dirmi che sono scema se mi piacciono i cliché di trama, e ha ragione. A me non è che piacciano i cliché in sé: quel che mi affascina è la possibilità di rivisitarli in modo nuovo e originale. Non credo siano per forza un male da evitare a tutti i costi. E lo so, non ho ragione XD Ma basti pensare a Morrowind: non ha una trama straricolma di cliché? (il vecchio criptico mentore, il prescelto, la profezia, il talismano, il cattivone della montagna infuocata che ride bwawawahahaha).

Uhm perfetto, son passata dalle Confessioni d'un italiano di Nievo a Dagoth Ur. Le associazioni :rotfl:
Chiudo comunque qui la nabbaggine, con una curiosità: Nievo ha scritto tutto di getto in sei mesi. Non so come diavolo abbia fatto con un risultato così buono, dato che era pure giovane.

e io che sono in ballo da anni con le mie robe, e scrivo ancora coi piedi, mi mozzico il polso :quellapianginadidawson:


Mi scuso se sono stata confusa/sintetica/altro. Spero di tornare presto per parlare dell'altro libro, visto che ne sto leggendo un altro. Piccolo spoiler: lo sto adorando.







 
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view post Posted on 7/6/2019, 23:14
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QUATTORDICESIMO CAPITOLO: Commedia di D. Alighieri

Dire come ho letto questo libro è una storia un po' strana :asd: L'avevo iniziato tempo prima, ero arrivata a metà, poi ho dovuto interrompere per studiare. Il fatto è che l'interruzione è durata tanto tempo, da pregiudicare il ritmo di lettura. Io però penso che per apprezzare al meglio un libro occorra tenere un ritmo: così infatti, oltre ad avere più chiari la trama e il contesto, si colgono più richiami. Allora visto che non potevo leggere la Commedia in questa barbara maniera, ho preso e ricominciato tutto da capo.
Era la prima volta che leggevo da sola la Commedia, integralmente e a mente più o meno sgombra. E devo dire che questa lettura mi ha sorpresa. Tutti noi conosciamo questo poema per come ce l'hanno insegnato a scuola, sappiamo gli aspetti dottrinali, la simbologia e l'allegoria, la varietà linguistica; io ho apprezzato tutto questo, ma da sola ho scoperto altri aspetti che non sono normalmente insegnati, e che mi hanno parecchio stupita.
Non intendo parlarvi dei contenuti morali/religiosi della Commedia, non ho le competenze per farlo, né credo sia d'interesse, dato che ne parlano già i manuali scolastici che sanno spiegare molto meglio di me. Quello che voglio chiarire sono proprio quegli aspetti poco conosciuti per cui la Commedia mi ha colpita.

1. La fantasia.

Questa in realtà sapevo di trovarla ben prima di cominciare la lettura. Qui non si è trattato solo d'inventare un mondo, ma anche di ordinarlo, e Dante l'ha fatto magnificamente. Vedete la legge del contrappasso, come si applica in conformità a ciascun peccato, vedete quella specie di simmetria tra Inferno e Purgatorio (tralasciando il racconto di come i due regni si sono formati!). Ho sempre pensato che queste trovate fossero dannatamente geniali. Tra l'altro Dante ha scritto questo in un clima letterario in cui (per quello che so) non si era mai realizzato nulla di simile.

2. L'aspetto umano.

Ebbene, per quanto adori la fantasia di Dante, l'aspetto umano è quello che mi è suonato davvero nuovo. Prima d'iniziare, non mi sarei mai aspettata di potermi affezionare a qualche personaggio. Vedevo ciascun personaggio irrigidito nel suo ruolo simbolico: Virgilio la ragione, Beatrice la fede, e simili. Ma non è stato così.
Io seguo alchimie inspiegabili a me stessa, quando mi lego ai personaggi. E questa volta mi sono affezionata molto a Virgilio. Quando s'incontrano nella foresta iniziale, Virgilio si presenta a Dante - e al lettore - col contegno solenne di un maestro. Ma il bello è che non è solo maestro per Dante: è anche padre, e quindi uomo. Tante volte Virgilio mostra difficoltà e disagio nel suo compito: già all'inizio impallidisce all'idea di scendere nell'Inferno, ma tende sempre la mano a Dante, sforzandosi di sorridere. Più in là, poi, c'è un episodio poco conosciuto che però io ho trovato bellissimo. Per esigenze di spazio (e anche perché qualcuno non ci terrebbe a sapere) lo metto sotto spoiler. Ma non è un vero spoiler, eh :asd:

In pratica, siccome la via è sconnessa, Virgilio chiede indicazione ai diavoli, che lo indirizzano a una via alternativa. Dante e Virgilio, dopo essere andati avanti, s'imbattono in alcuni dannati. Virgilio chiede loro conferma della via alternativa; ma quando gli dicono che c'è solo quella sconnessa, lui si arrabbia e si allontana. Non credo che fosse arrabbiato con i diavoli, ma più con sé stesso, per essersi fatto prendere per i fondelli e anche per un senso d'inadeguatezza. La scena che segue, poi, mi è rimasta molto impressa: ci sono loro due, Dante e Virgilio, da soli in uno scenario buio e disastrato, e Dante, vedendo turbata la sua guida, si sente smarrito. Dopo però Virgilio gli sorride e decide di portarlo in braccio sulla strada sconnessa.


Sono i canti XXIII-XXIV dell'Inferno: è da qui che mi sono affezionata così al personaggio. Virgilio non è solo il maestro di Dante, l'infallibile simbolo della ragione; è molto umano e vero, si sente spesso inadeguato, eppure ha sempre la forza di andare avanti, di farsi un sedere così accompagnando Dante per tutto l'Inferno.
E non è cosa facile, considerato che non c'è alcun premio per Virgilio - che tanto non vedrà mai Dio. In questo regno dell'oltretomba c'è un'atmosfera di stress e disagio costanti. La narrazione rapida sembra riflettere quasi un'ansia, da parte dei due protagonisti, di uscire il prima possibile "a rivedere le stelle". E questo perché l'Inferno è un posto terribile. Crudo è di riflesso il linguaggio che l'autore usa in questa cantica, a volte scurrile; ma questo non fa suonare comico l'Inferno. Al contrario non fa che accentuare il senso di disagio. Davanti ai famosi diavoli che fanno boccacce e scorreggiano, i due protagonisti non ridono, ma sono seri, come irrigiditi.
Certe descrizioni poi, per la loro crudezza, le ho trovate raccapriccianti. Quella che più mi è rimasta impressa è quella di Maometto: come "seminatore di divisioni", il profeta è tagliato a metà dal naso all'ano, e tra le gambe gli pendono le interiora. A me fanno particolarmente senso certe cose, ma finché la cosa è messa con queste parole...
Invece Dante non si limita a dirla così. Fornisce molti più dettagli, dice qualcosa tipo
CITAZIONE
Maometto ha un taglio che lo divide dal naso fin dove si scorreggia. Tra le gambe gli pendono le interiora e il sacco schifoso che trasforma il cibo in cacca.

E io così :durso: E tra l'altro non leggete "cacca", ché Dante ha usato una parola molto peggiore. Poi, dalla padella alla brace, mi mostra un dannato che si apre in due la gola, con tutto il sangue che esce fuori e gli sporca le braccia.
E queste non sono che ricordi approssimativi di quelle descrizioni. Spaventoso :omg:

In generale la Commedia si caratterizza, soprattutto a partire dalla seconda metà dell'Inferno (perché si nota un'evoluzione) per delle immagini molto suggestive. Bellissima la descrizione del Pozzo dei Giganti (paragonati a torri nel crepuscolo) , come quella della spiaggia del Purgatorio, e quelle dei cieli che occupano il Paradiso.
Non saprei dire quale cantica ho apprezzato di più. Mi dispiace escludere il Paradiso; è davvero troppo troppo diverso dagli altri due, pieno di dottrina, di metafore, dietro alle quali ti si affumica il cervello. Purtroppo l'ho trovato pesante, oltre che privo di alcune cose presenti nei due canti precedenti.
Anzitutto il lato umano. Non che non ci sia, ma è molto, troppo di meno. Ti sembra spesso di leggere un libro di dottrina; e la presenza di Dante quasi non si avverte. Molte volte non è il poeta a fare domande, ma i beati a prevedere le sue domande e a rispondergli prima che lui le faccia. E rispondono con discorsi lunghi, pieni di metafore, davvero difficili da capire se non stai perennemente appiccicato alle note.
E poi il Paradiso è il regno della perfezione. Beatrice sa tutto e non sbaglia mai, mai si sente inadeguata, e perciò non mi ha affascinata.
Scarso è poi l'elemento narrativo, che caratterizzava i primi due regni e che qui è sacrificato in favore della dottrina. Certo tutto questo risponde all'intento dell'autore, che non poteva fare altrimenti per il regno di Dio; e sicuramente l'ambientazione del Paradiso è bellissima, estatica, tale che spesso Dante dichiara di non avere il potere di descriverla. Ma è più forte di me, e non ho apprezzato il Paradiso come le altre due cantiche.
Tra Inferno e Purgatorio, piuttosto, non saprei quale dire la mia preferita. Il Purgatorio esalta quanto di più umano è presente nel poema, più ancora dell'Inferno, a mio parere. Ci sono delle scene dal taglio molto vero e umano; come a esempio l'episodio del cantore Casella, che si mette a cantare sulla spiaggia del Purgatorio rallegrando la folla intorno e anche Dante e Virgilio, che paiono dimenticare per un attimo il loro dovere; salvo poi essere richiamati. è una delle scene che ho trovato più belle, perché, dopo lo stress del viaggio infernale, i poeti si concedono un momento rilassante e in compagnia. O ancora, quando Dante incontra sulla montagna un amico che sta purgando la sua colpa, e questo amico, prima di congedarlo, gli chiede: "Quando ci rivedremo?"
Splendida anche la scena in cui Virgilio esorta Dante a passare una parete di fuoco, tendendogli la mano, e lo scherza affettuosamente, dicendo: "Vogliamo restare qui? Beatrice ti aspetta".
Insomma, senza che mi dilunghi e m'impappini ancora, il Purgatorio è il canto che ho sentito più vicino a me. Ha un ritmo meno incalzante dell'Inferno, è intriso di nostalgia verso i morti, e anche di molta malinconia. Infatti Virgilio mi ha messo tristezza: è costretto ad accompagnare Dante fino al Paradiso Terrestre; lì lo lascia perché Dante, accompagnato dalla morosa, raggiunga Dio; invece a lui, dopo tutta la fatica, tocca tornare nel Limbo e rimanerci per sempre.

Non so se si è capito il mio entusiasmo, e spero di non essermi lasciata trasportare. Chiarirò, ovviamente, anche i punti negativi di questa lettura (che, dico subito, non sono colpa dell'autore).
Il linguaggio ormai è quello che è, non è facile da capire. Spesso mi è toccato dare una sbirciata alle note, e questa sbirciata è diventata una lettura costante nel Paradiso. Così si spezza la tensione narrativa, e di conseguenza la lettura diventa meno godibile.
E poi, io avevo pure intenzione di rileggere in futuro la Commedia; ma dopo aver letto il Paradiso mi sono scoraggiata a farlo. Leggendo l'ultima cantica, è stato frustrante dover stare dietro le note, e lambiccarsi il cervello fino a farselo fumare, sempre, costantemente, dal primo canto all'ultimo :uffa:

Però Dante non mi ha delusa, anzi ha superato le mie aspettative. Posso dirmi davvero soddisfatta di averlo letto :sisi: Mi scuso eventualmente di essere stata confusa, ma ehi, è l'orario, e non so esprimermi se non in maniera caotica :rotfl:
 
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view post Posted on 16/7/2019, 16:36
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QUINDICESIMO CAPITOLO: I promessi sposi di A. Manzoni

Come promesso a 4f, me ne esco con la mia opinione sui Promessi Sposi di Manzoni!!!!1!!

A dire il vero, l'avevo già letto qualche anno fa al liceo. E, sempre a dire il vero, allora mi era piaciuto di più. Non so per quale motivo, può darsi che andando avanti uno si renda conto meglio delle magagne come dei punti forti di un'opera. O forse è stato che al liceo c'era la professoressa che riusciva a farlo amare, e invece questa volta ho dovuto sorbirmelo in fretta e furia in pochi giorni, e inevitabilmente l'esperienza di lettura ne ha risentito.

Posso dire con sicurezza di aver apprezzato di più la seconda parte (quella dopo l'addio ai monti, per intenderci, quando i protagonisti si separano). All'inizio la narrazione è molto incalzante, mentre io preferisco un ritmo un po' più lento. E in generale, a questo giro lo svolgimento della trama mi è suonato meno accattivante di qualche anno prima (forse perché sapevo già come andavano le cose).
Ma, come già accennavo, ho apprezzato anche di più i punti forti, che qualche anno fa mi sfuggivano. Anzitutto, il realismo e la maturità con cui Manzoni tratta la vicenda storica, privi di esagerazioni ed eccessi; e poi l'ironia. A me in genere l'ironia piace; dico in genere perché poi c'è tipo e tipo di ironia (per esempio, trovo quella di Verga particolarmente sinistra e fastidiosa).
L'ironia di Manzoni la trovo invece sempre gradevole. Certi pezzi sono alquanto divertenti: tipo quando descrive il villaggio ai piedi del castellaccio di don Rodrigo, con abitanti talmente biechi che gli anziani, siccome non hanno i denti, ringhiano "mostrando le gengive" ( :rotfl: ) ; o la scena in cui don Abbondio accompagna l'Innominato al palazzo, con un monologo interiore sì divertente, ma anche irritante. Poi quando arrivo ai personaggi spiego perché irritante.

Un'altra cosa che ho apprezzato è come l'autore ha trattato la storia della monaca di Monza, Gertrude.
C'è una grandissima cura nel delineare la psicologia di Gertrude, che ha uno strano rapporto con il padre: da una parte non accetta le sue scelte, dall'altra ha verso di lui un senso di timore/affetto/vergogna. Non va mai in aperta opposizione con lui, perché non riesce a rinunciare all'affetto e alla stima del padre. Quello che mi è piaciuto, oltre a questo, è come l'ironia in questa storia abbia qualcosa di crudele. Un esempio banalissimo è questo: Gertrude, che da bambina voleva sposarsi, viene chiamata "sposina" prima di entrare in convento, perché è così che le donne sono chiamate nel momento di prendere i voti; ma in questo contesto, il nome "sposina" sembra una presa per i fondelli bella e buona. O anche il fatto che, nel momento di organizzare la cerimonia, sembra che i parenti lascino scegliere tutto a Gertrude, ma in realtà sono loro a pilotare in maniera subdola le sue scelte (spingono una signora a essere affabile con lei in modo che Gertrude la scelga come madrina).
Gertrude è quindi psicologicamente molto debole, e questa debolezza deriva anche dall'alterigia che i genitori, di alto rango, le hanno inculcato. Da bambina, infatti, lei non accetta che le tocchi entrare in monastero, quando bambine di ceto più basso si possono sposare. Credo che è questo il motivo per cui alla fine Gertrude non si è potuta redimere. Invece di accettare il suo stato, di sforzarsi a trovarci del buono, sfoga il risentimento e l'alterezza sulle educande e le colleghe; nel momento di tradire Lucia, prova dispiacere per lei, ma invece di opporsi si fa per l'ennesima volta trattare come un burattino dal cattivone di turno.

Ma oltre alla storia della monaca, a questo giro ho amato i capitoli sulla peste, il modo in cui Manzoni descrive l'epidemia e le sue conseguenze umane. L'unico altro racconto di peste che ho letto, finora, è quello di Mondo senza fine; lì l'autore insisteva su particolari molto crudi: a un certo punto, un personaggio, non mi ricordo se Caris o Merthin, entrava in una bettola dove vedeva, oltre ai soliti ubriaconi, delle persone che si accoppiavano in pubblico e in modi malsani.
Nei Promessi Sposi non c'è nulla di così crudo, eppure il racconto della peste è molto più angosciante. I personaggi non hanno la minima fiducia di poter fare qualcosa per risolvere il problema, anzi ne sono vittime in diversi modi. E l'autore si sofferma anche sui risvolti psicologici della peste. Particolarmente toccante è il momento in cui Renzo torna da un amico nel suo paese d'origine; quest'amico è rimasto completamente solo, passa le sere seduto sul portico di casa sua a guardare la desolazione lasciata dalla malattia. Quando vede Renzo, ripete più volte, piangendo, di essere rimasto solo; e poi dice una cosa che mi è rimasta impressa:

CITAZIONE
Raccontò anche lui all'amico le sue vicende, e n'ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell'esercito, della peste, d'untori, di prodigi. <<son cose brutte,>>disse l'amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; <<cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l'allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo>>.

E questa l'ho personalmente eletta come la frase più bella del romanzo; forse perché l'ho trovata tristissima (e ho già detto altrove come io adoro le cose tristi :asd: ). Quel che è triste, è che quest'amico è coetaneo di Renzo, e Renzo quanti anni avrà? 21? 22? All'epoca si maturava prima di adesso, questo sì, ma una cosa del genere non poteva che suonarmi devastante.
E poi è indimenticabile la scena in cui Renzo torna a casa sua, e nel cortile invaso dai rovi e dai topi, ritrova un altro amico, Tonio, reso demente dalla malattia. Renzo insiste per farsi riconoscere, ma Tonio, sorridendo e con gli occhi stralunati, ripete una frase insensata, "a chi la tocca la tocca". E lo dico perché quest'episodio me lo ricordavo dalla prima volta che avevo letto i Promessi Sposi. Quando una scena ti rimane impressa, vuol dire che è fatta bene.
Bella anche la scena in cui Renzo si fa accompagnare al lazzaretto da una compagnia di monatti (per chi non lo sapesse, persone incaricate a raccogliere i cadaveri dalle strade); una scena piena di degrado, con i monatti che bevono e schiamazzano sopra i morti, dicendo di essersi impadroniti della città, mentre Renzo, impotente e a disagio, non dice niente.

Queste, insomma, le cose che più ho apprezzato del romanzo, nella seconda lettura; mentre, tornando alle magagne, dico solo un nome: Lucia.
Verso gli altri personaggi non ho nutrito sentimenti così accesi. Alcuni mi sono stati simpatici, altri così così, altri li ho trovati discretamente irritanti. Irritante è stato don Abbondio, non tanto per il suo carattere pavido (in cui, lo ammetto, purtroppo mi ci ritrovo) quanto per il suo atteggiamento di costante vittimismo/egoismo. "eeh, perché succedono tutte a me", "eeeh, perché questa cosa non la facevano fare agli altri", giuro, in certi momenti mi ha fatto venire il nervoso.
Ma don Abbondio non è stato mai irritante come Lucia.
A rendere Lucia più irritante del prete è stato il fatto che lei, a differenza di don Abbondio, gode delle simpatie dell'autore; e presumibilmente, dovrebbe godere anche di quelle del lettore. E invece qui Manzoni per me ha un po' toppato; ma sia, anche i grandi toppano.
Lucia è uno di quei personaggi sprecati, che di base avrebbero le potenzialità per essere dei buoni personaggi, ma che alla fine della fiera non lo sono. Di bello ha il fatto che è combattuta tra l'amore per Renzo e la fede religiosa; sa che il voto le impone di rinunciare all'amore per Renzo, ma lei non riesce a rinunciarci. Ma qui finisce la parte bella, perché, per tutto il resto del libro, non fa che essere una successione ininterrotta di "piange sviene arrossisce sviene arrossisce piange sviene piange arrossisce sviene" ecc.ecc.. e questo per i motivi più stupidi! Le comari le dicono che sta bene col vestito? Arrossisce. Esce fuori la storia di don Rodrigo? Arrossisce, o in alternativa piange. Sul serio, in certi momenti mi veniva da entrare nel romanzo e tirarle una sberla in faccia. A peggiorare la situazione, a un certo punto della storia entra nel fastidioso ruolo di Victim Sue, diventando oggetto di compassione non solo del narratore, ma anche dei cattivi (e guarda caso, cattivi senza scrupoli provano compassione per lei, e Lucia fa scattare la redenzione dell'Innominato). Peccato che non riuscivo a dispiacermi delle sue disgrazie, ma in quelle circostanze Lucia m'irritava ancora di più. Irrealistico, poi, il fatto che non provasse risentimento verso don Rodrigo, e invece raccomandava sempre a Renzo di pregare per lui. Io amo i personaggi altruisti, ma sempre nei limiti del realismo. Se Lucia avesse una volta soltanto perso le staffe e sbottato, l'avrei trovata anni luce più simpatica.

Questo è dunque il fatto :sisi: spero di tornare presto con una nuova fantastica nabbaggine!!!
 
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view post Posted on 17/7/2019, 08:29
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Daedra

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CITAZIONE
Posso dire con sicurezza di aver apprezzato di più la seconda parte (quella dopo l'addio ai monti, per intenderci, quando i protagonisti si separano).

Come sei sadica :rotfl:
CITAZIONE
Un'altra cosa che ho apprezzato è come l'autore ha trattato la storia della monaca di Monza, Gertrude.
C'è una grandissima cura nel delineare la psicologia di Gertrude, che ha uno strano rapporto con il padre: da una parte non accetta le sue scelte, dall'altra ha verso di lui un senso di timore/affetto/vergogna. Non va mai in aperta opposizione con lui, perché non riesce a rinunciare all'affetto e alla stima del padre. Quello che mi è piaciuto, oltre a questo, è come l'ironia in questa storia abbia qualcosa di crudele. Un esempio banalissimo è questo: Gertrude, che da bambina voleva sposarsi, viene chiamata "sposina" prima di entrare in convento, perché è così che le donne sono chiamate nel momento di prendere i voti; ma in questo contesto, il nome "sposina" sembra una presa per i fondelli bella e buona. O anche il fatto che, nel momento di organizzare la cerimonia, sembra che i parenti lascino scegliere tutto a Gertrude, ma in realtà sono loro a pilotare in maniera subdola le sue scelte (spingono una signora a essere affabile con lei in modo che Gertrude la scelga come madrina).
Gertrude è quindi psicologicamente molto debole, e questa debolezza deriva anche dall'alterigia che i genitori, di alto rango, le hanno inculcato. Da bambina, infatti, lei non accetta che le tocchi entrare in monastero, quando bambine di ceto più basso si possono sposare. Credo che è questo il motivo per cui alla fine Gertrude non si è potuta redimere. Invece di accettare il suo stato, di sforzarsi a trovarci del buono, sfoga il risentimento e l'alterezza sulle educande e le colleghe; nel momento di tradire Lucia, prova dispiacere per lei, ma invece di opporsi si fa per l'ennesima volta trattare come un burattino dal cattivone di turno

Non so se l'ho già detto(sto diventando vecchio :omg: ) ma questo è l'altro personaggio, insieme a Lucia, che odio immensamente
Ma visto che non voglio ripetermi, vogliamo parlare dell'anti Gertrude?
La Pimpaccia (della quale non ricorderò mai il vero nome)
Sono rimasto di sasso:

Si ribella al padre che voleva metterla in convento

Sposa un papà morente per ereditare la fortuna

Si risposa usando suo marito come "facciata"

Si fa corrompere come se non ci fosse un domani

Inutile dire che la adoro :sisi:
CITAZIONE
E invece qui Manzoni per tutti noi ha un po' toppato; ma sia, anche i grandi toppano.

Fixed e...
CITAZIONE
sa che il voto, che lei stessa ha stipulato per un motivo idiota, impone di rinunciare all'amore per Renzo, ma lei non riesce a rinunciarci.

Rifixed :sisi:
CITAZIONE
A rendere Lucia più irritante del prete è stato il fatto che lei, a differenza di don Abbondio, gode delle simpatie dell'autore;

Veramente tutte le donne di Manzoni su cui si concentra(Lucia, Gertrude, Agnese) , godono delle sue simpatie
Lucia semplicemente è irritante per via del suo ruolo di pigna nel didietro :asd:
CITAZIONE
Ma qui finisce la parte bella, perché, per tutto il resto del libro, non fa che essere una successione ininterrotta di "piange sviene arrossisce sviene arrossisce piange sviene piange arrossisce sviene" ecc.ecc.. e questo per i motivi più stupidi!

Giustizia è stata fatta :yeah:

Infine ti ringrazio di aver fatto questo paragrafo :fiorellino:
 
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101 replies since 14/2/2018, 17:02   2634 views
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