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Nabbaggini sui libri, LOL

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view post Posted on 17/3/2018, 20:20
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Wanderer

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Molto belle le tue analisi, scrivi davvero bene!:D
Mi hai ricordato, tra l'altro, che devo recuperare Notre-Dame de Paris da tempo immemore. :quellapianginadidawson:
 
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view post Posted on 17/3/2018, 22:29
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Grazie, Tuonetar! :D (Eppure non mi ritengo una buona scrittrice :dramma: )

Ti è capitato di leggere Notre Dame de Paris??
 
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view post Posted on 17/3/2018, 23:07
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Ai tempi della scuola mi capitò di leggere alcuni passi sul libro di letteratura e mi piacque molto. :sisi:
Mi ero ripromessa che lo avrei recuperato poi, tra una cosa e l'altra, son passati anni e ancora non sono riuscita. :delusione:
 
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view post Posted on 23/3/2018, 17:54
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QUINTO CAPITOLO: IL VISCONTE DIMEZZATO, IL BARONE RAMPANTE e IL CAVALIERE INESISTENTE di I.Calvino

Oook. Questa volta provo a parlare un po' di questi tre romanzi, che in realtà fanno parte di una trilogia: I nostri Antenati - penso che la trilogia prenda questo nome perché tutte le storie narrate sono ambientate in un passato lontano.
Anzitutto, aldilà delle apparenze, Calvino non è facile da leggere, anzi...le sue sembrano quasi favolette per bambini, con personaggi tagliati a metà o che vivono sugli alberi, oppure Marcovaldi che guardano i funghi nati per strada ecc. ma ripeto è solo apparenza. Per comprendere a fondo le sue opere bisogna conoscere una serie di cose, ad esempio il contesto storico, la letteratura del tempo, cosa che io a prima lettura, avendo letto soltanto l'introduzione, non sapevo. Infatti dopo aver letto tutta la trilogia il discorso non mi era in tutto chiaro, e anche dopo aver letto le spiegazioni di Calvino ho avuto l'impressione che mi sfuggisse qualcosa.
Cominciamo col Visconte: è un romanzo cortissimo, meno di 100 pagine e più di tutti gli altri sembra ambientato in un tempo dimenticato, quasi fosse mai esistito. Inoltre è uno di quelli che più sembrano una storiella leggera, una favoletta, complice la lunghezza limitata, le situazioni fiabesche, però il suo messaggio non è altrettanto immediato. C'è un visconte, Medardo di Terralba, che in guerra contro i Turchi viene colpito da una palla di cannone che lo divide a metà: la metà destra torna nel suo contado e là si rivela malvagia e spietatamente tirannica, mentre la metà sinistra viene salvata da eremiti - se ricordo bene - e vagabonda per il mondo facendo sempre il bene, fino a tornare anch'essa nel contado. Queste due metà così diverse creeranno un'atmosfera confusionaria che si scioglie quando una contadina di nome Pamela, oggetto dell'amore di tutte e due le metà, scopre cosa c'è dietro, ed elabora un piano per far tornare indietro una condizione di equilibrio. Tutte queste cose sono raccontate dal nipote del visconte dimezzato: sembrerebbe allora che la narrazione sia in prima persona, eppure il protagonista è il visconte, non il suo nipote, e quindi il romanzo sembra comunque in terza persona XD cosa che non mi pare mai di aver trovato in altri romanzi.
Capire il messaggio di questo è difficile anche perché non c'è analisi psicologica: il narratore non spiega mai quello che prova lui come non spiega mai quello che prova Medardo o qualsiasi altro personaggio: c'è un atteggiamento distaccato da parte dell'autore, che si scioglie parzialmente soltanto alla fine, quando il nipote di Medardo, vedendo un suo amico - il dottor Trelawney - che se ne parte via, si sente solo e quasi smarrito. E in effetti, tutto il romanzo da un senso di smarrimento, di solitudine al lettore. Non ci sono rapporti stretti, amori, amicizie serie: c'è invece una serie di personaggi tutti strani, con le loro bizzarre manie, e siccome non vengono mai spiegati i loro atteggiamenti strani i personaggi appaiono isolati. è come se si cercasse una risposta a tutto, ma che questa risposta non esiste: infatti il personaggio prima va da un gruppo di fanatici religiosi - perdonatemi che non me ne ricordo il nome - poi va dai lebbrosi - che sarebbero i decadentisti, secondo la spiegazione dell'autore - ma non riceve mai alcuna soddisfazione a quello che cerca, né sa cosa sia quello che cerca. Calvino ha spiegato che il Visconte è maturato in un periodo di poca speranza e di smarrimento morale: quando, nel finale, la situazione del visconte si stabilizza, non si tratta di un messaggio di speranza perché l'autore non vi dedica che pochi righi, puntando invece l'attenzione sul senso di smarrimento che il ragazzino prova quando il dottor Trelawney se ne parte.
Il generale atteggiamento distaccato fa sì che il lettore non sia portato a conoscere i personaggi bene e quindi a farne una valutazione: per quanto riguarda i personaggi non ho particolari preferenze, com'era, penso, intenzione dell'autore. Mi era rimasto un po' simpatico il dottor Trelawney, che si dedicava a studiare i fuochi fatui e che era inorridito alla vista del sangue, almeno finché non prende interesse del caso del visconte dimezzato. (Per Calvino il dottor Trelawney - come il falegname che produce strumenti di tortura -sono la rappresentazione degli scienziati che non si pongono al servizio della gente). Mentre mi è rimasta un po' antipatica Pamela, mi ha dato l'idea di una ragazza un po' ignorante e poco intelligente - e poi non sopportavo quelle paperelle che la seguivano ovunque :nono: Ma niente di particolare in generale.
Di registro ben diverso è il Barone Rampante. è il romanzo più lungo, e, al contrario, il più chiaro di tutti e tre per quel che riguarda il significato. Parte inizialmente con gli stessi toni degli altri: il fratello del protagonista Cosimo narra i motivi e le premesse che hanno spinto il barone Cosimo a salire sugli alberi e a non scenderne più per tutta la sua vita. L'atteggiamento distaccato è il solito, ma dopo l'autore lo abbandona e si immedesima anche emotivamente nelle vicende di Cosimo. Ne derivano una partecipazione e un senso di speranza più forti che negli altri romanzi. Il Barone Rampante non è particolarmente avvincente, i suoi sviluppi sono abbastanza prevedibili, ma come mi è già capitato di dire, la trama non è tutto: la cosa bella è seguire l'evoluzione psicologica del personaggio. Molti dicono che la parte più bella è quella degli anni dell'infanzia di Cosimo: a me sinceramente non è sembrato così, ho molto più preferito il Cosimo adulto. Il Cosimo bambino era ancora piuttosto capriccioso e non sapeva realmente come comportarsi, quindi non mi era granché simpatico; come persona, è chiaro che era decisamente meglio da adulto. Da adulto Cosimo legge e diventa una specie di filosofo e impara a essere sé stesso; certi passi sono davvero belli, quasi poetici, specie quando s'innamora. Poiché il tono non è più distaccato, siamo capaci di definire con più precisione il periodo storico in cui si svolgono le vicende: nel '700, circa negli anni della Rivoluzione Francese, e ciò è importante perché Cosimo diventa una specie di illuminista nel pensiero, al punto da rifiutare l'amore di Violante, che implicava per lui scendere dagli alberi, ossia, smettere di essere sé stesso per amore. è nella storia d'amore tra Violante e Cosimo che appare nitida la personalità di Cosimo: ama moltissimo Violante ma non rinuncia a essere sé stesso, anche quando Violante gli chiede, per restare con lei, di scendere dagli alberi e di non badare al fatto che lei vada con altri uomini - tutto un gioco per mettere alla prova l'amore di Cosimo.
Quel che è interessante, in ogni caso, è il tipo di persona rappresentato da Cosimo. Cosimo è un ribelle: sfida i canoni di comportamento comuni e si pone in un atteggiamento razionalmente distaccato di fronte a quello che accade, rifiutando di farsi coinvolgere troppo da quello che accade e quindi, di perdere la ragione. Ci sono passi in cui il narratore racconta che Cosimo, nonostante le sue stranezze, si preoccupava sempre di comportarsi secondo le leggi dello stato: per esempio, andava a fare i bisogni nel fiume dove si raccoglievano gli scarichi, il "Merdanzo" - già il nome è tutto un programma - lasciando quindi tutto pulito e non dando fastidio a nessuno. Insomma, quello che ne esce è che il vero ribelle non è il pirla che sbraita scurrilità senza infischiarsi di niente e portando poco rispetto agli altri, ma è una persona con certe conoscenze ed esperienze di vita dietro e che vuole il bene comune, non soltanto proprio, e per questo è rispettoso nei confronti di tutti. In sostanza, il ribelle non rispetta i codici di comportamento, ma rispetta le regole di comportamento, che sono molto più importanti dei primi per vivere bene insieme.
Non mi è piaciuta, invece, Violante, la fidanzata di Cosimo. è antipatica sin dalla prima volta che compare - quando ha appena dodici anni - appare troppo frivola e snob, insomma, un personaggio che può risultare noioso. Che non mi sia piaciuta la sua concezione dell'amore - secondo cui l'amore viene prima di ogni altra cosa - è una cosa secondaria; alla fine è semplice differenza di pensiero. Quel che la rovina è l'atteggiamento.
Comunque, il Barone è piuttosto diverso dagli altri due romanzi, più semplice da capire e più partecipato, anche perché in quel periodo l'autore era in uno stato d'animo diverso rispetto a quando aveva scritto il Visconte, un periodo in cui, come dice Calvino, c'era speranza di poter essere qualcuno. Speranza che viene di nuovo meno nel terzo capitolo, Il Cavaliere Inesistente. Stavolta la narratrice è una suora che racconta la storia di alcuni cavalieri impegnati nella guerra contro i Saraceni. Guerra che ha ispirato un poeta molto amato da Calvino, ossia Ludovico Ariosto - e che a me piace per il gusto fantasy, con i guerrieri e le guerriere, i nani e i draghi...ma non voglio divagare. Calvino riprende da Ariosto il personaggio di Bradamante, una guerriera cristiana, poi sono appena accennati altri paladini come Orlando e il re Carlo Magno, mentre tutti gli altri personaggi sono inventati. Il problema che si pone qui è il solito: la possibilità di essere qualcuno, nel senso di distinguersi. Il cavaliere Rambaldo vuole combattere in guerra per distinguersi come eroe, ma quando viene a contatto con l'ambiente dell'esercito ne rimane deluso: tutti i soldati e i comandanti non hanno gli ideali che Rambaldo si aspettava, e il loro modo di fare guerra è tutto burocrazia e formalità. L'unico in cui Rambaldo trova una guida è il cavaliere inesistente, ossia Agilulfo, che è praticamente un'armatura vuota - un'altra delle soluzioni strane e curiose trovate da Calvino in questa trilogia. Agilulfo esegue gli ordini di Carlo Magno con grande lealtà e rigore, anche se gli manca la partecipazione emotiva, che invece Rambaldo ha. Si crea una situazione classica della letteratura, ossia A ama B che però ama C: Rambaldo s'innamora di Bradamante, che però non ricambia e invece è persa per Agilulfo. Solo alla fine questa situazione si scioglie, e non sto a dirvi come.
Anche qui torna l'atteggiamento distaccato: il narratore partecipa di più quando racconta la sua fatica nello scrivere la storia - infatti la suora narratrice sconta la penitenza in monastero scrivendo questa storia. Si tratta di un elemento importante per la poetica di Calvino, ossia il gusto quasi fine a sé stesso di scrivere storie, e che emerge con grande chiarezza anche nel nostalgico finale del Barone, in cui Calvino paragona le parole della storia ai rami degli alberi di Rondò, ora tutti tagliati, così come la storia è finita.
In ogni caso, il finale del Cavaliere allude a un futuro incerto, un po' come accadeva nel Visconte, anche se con meno smarrimento e più entusiasmo. Per quel che riguarda i personaggi, come al solito, in generale quelli del Cavaliere mi sono rimasti tutti abbastanza simpatici, Rambaldo, Bradamante e Agilulfo soprattutto, mentre non sopportavo Gurdulù, scudiero di Agilulfo, un uomo che non sa cos'è e segue tutte le cose esterne: era troppo rozzo e ripugnante, perdonatemi :rotfl:
Per concludere, un elemento originale delle opere di Calvino è proprio la presenza di tutti questi personaggi isolati, strani e al limite dell'assurdo: soldati che si fanno crescere il muschio sull'armatura, cavalieri impegnati in strani rituali nei boschi, come se tutte queste stranezze rappresentassero i nostri personali tentativi - spesso fallimentari, tranne che nel caso di Cosimo - di distinguerci. Lo stile è molto semplice, privo di momenti intensi, se non nel Barone Rampante, come già detto. Se devo tirare un bilancio complessivo, dopo averli letti mi è rimasta l'impressione di non aver capito veramente tutto, soprattutto per quel che riguarda il Visconte e il Cavaliere...e immagino che, leggendo quello che ho scritto, è palese :asd:
 
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view post Posted on 31/3/2018, 20:13
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SESTO CAPITOLO: I PILASTRI DELLA TERRA di K. Follett

Due paroline prima di cominciare: intendevo leggere anche Mondo Senza Fine dello stesso autore in modo da fare pendant, ma poi mi sono rassegnata a cambiare idea: si tratta di libri abbastanza voluminosi e fare un post per più libri mi costringe a dire le cose in sintesi e a non dilungarmi quanto vorrei.
Mi ero messa in testa di leggere i Pilastri della Terra perché di letteratura contemporanea ho letto davvero poco e niente e un minimo contatto non poteva farmi male. Si tratta di un romanzo storico, ambientato nell'Inghilterra Medievale - tra gli anni '40 del 1100 e gli anni '70 con il famoso assassinio di Thomas Becket a Canterbury - avente diversi protagonisti e come fulcro narrativo la costruzione di una cattedrale.
Il romanzo è un vero e proprio romanzo, nel senso che ci sono tanti intrecci narrativi con diversi protagonisti, eroi, antagonisti, colpi di scena, avventure, storie d'amore, intrighi, casotti, insomma, tutti gli elementi che rendono "romanzesco" un romanzo, scusando vivamente il gioco di parole; condivido appieno questa scelta perché accattiva particolarmente il lettore - anche se non disdegno assolutamente gli altri modi di fare romanzi, non mi fraintendete!
L'autore divide quindi la narrazione in diversi intrecci, aventi ciascuno un protagonista; in ciascun passaggio adotta il punto di vista di un solo personaggio. Tipo, per fare un esempio, da pag 10 a pag 100 seguiamo le avventure e i pensieri di Tom, da pag 100 a pag 200 quelli di Jack, eccetera. Questo è un buon espediente, anche se io non lo userei, perché secondo me rischia d'irrigidire un po' la focalizzazione. Ma ovviamente ciascuno ha i suoi modi di raccontare le cose, e questo è uno come tanti - e tra l'altro riconosco che ha una certa fortuna oggi come oggi: so che hanno scritto serie di romanzi d'amore in cui in due libri è raccontata la stessa storia prima dal punto di vista di lui, poi dal punto di vista di lei.
Comunque la vicenda è sorprendentemente lunga, e non solo perché sono mille pagine ma perché viene raccontato un trentennio: seguiamo i personaggi che con il passare del tempo invecchiano, ma curiosamente, sembrano quasi non cambiare mai, come non cambiano mai i casini in cui si trovano. Questo è lo scheletro, la costante del romanzo: padre Philip vuole costruire una cattedrale per Kingsbridge, ma si trova a che fare con un conte e un vescovo che vivono in terreni limitrofi e che rompono le scatole alla grande, fino all'ultimo. è per certi versi la storia di una battaglia, ma non una battaglia pari: il conte, tutto armato, combatte con la violenza ed è animato dalla vendetta, mentre padre Philip non ha nessuno a proteggerlo, combatte solo perché è animato da una sincerissima fede per Dio e la sua battaglia è tutta giocata con l'ingegno ed è non-violenta. Alla fine - e il bello è questo - il priore Philip riesce a mettere sotto scacco, dopo essersi spaccato il sedere per mille pagine, i suoi nemici.
Questo l'asse: ma poi attorno a esso si snodano altre vicende, la tormentata vita della contessa decaduta Aliena, che ha perso il suo contado per colpa del perfido William Hamleigh; la storia d'amore tra Aliena e Jack poi, e i casini tra Ellen e Tom. Dire così questi nomi potrà non far capire niente a chi questo libro non ha letto, per cui ora passo a parlare dei personaggi. E qui ho trovato davvero pane per i miei denti: tutti i personaggi sono, nel male o nel bene, indimenticabili.
Aliena è uno dei personaggi di cui Follett offre il punto di vista - anche se piuttosto tardi nella narrazione; mi è piaciuta abbastanza, è una donna colta che sin dall'inizio rifiuta di sposare il ricco William Hamleigh perché è scemo e ignorante e pensa solo a essere "quanto più mascolino possibile": per tutto il corso del romanzo sto William non fa altro che uccidere violentemente della povera gente, con un odioso gusto sadico, e soprattutto tiene la fissa ossessiva di stuprare. E menomale che anche lui è un punto di vista! è il tipico aristocratico spocchioso, che fa schifo e si fa odiare per tutta la narrazione, anche se tiene a sua madre; ma di fronte alle porcate che fa, tutto quello che di lui potrebbe essere positivo svanisce. Ho trovato snervante soprattutto il modo in cui si divertiva a uccidere un mugnaio, schiacciandolo sotto il mulino, o come trattava le prostitute. è in realtà un personaggio debole (come tutti i personaggi "supermascolini") che pensa sempre a farsi temere e quindi è molto condizionato psicologicamente dalla sua reputazione, un delinquentello ben fatto e caratterizzato: fossi stata io però al posto dell'autore, gli avrei dato un linguaggio che contraddistinguesse la sua personalità - io credo che una persona si veda anche da come parla. Avrebbe potuto mettergli in bocca qualche scurrilità in più, considerando anche che tutto il libro si caratterizza per uno stile a tratti davvero crudo. Crudo nelle scene violente, e anche molto spinto nelle scene sessuali. Io, per parte mia, sono un po' raffinata di gusti con le scene d'amore - e so che forse sbaglio: non mi piace che nelle scene d'amore tutto sia descritto con una precisione minuziosa di particolari, che tutto quello che succede sia descritto nei minimi dettagli. Alla fine l'importante è trasmettere al lettore l'idea del piacere, poi oggettivamente tutto il resto importa poco, e lasciare un po' di spazio all'immaginazione. Ma ripeto, mi sbaglierò pure eh :asd: nelle scene di stupro, certo, non è piacevole, ma una descrizione minuziosa ci sta anche alla fine, perché è una cosa sgradevole. Anche se, ripeto, a me troppa crudezza non piace neanche qui.
Ma torniamo ai personaggi. Come altro personaggio femminile, merita di essere menzionata Ellen: è una donna che lì per lì, per me sarebbe potuta essere davvero interessante. Vive infatti nei boschi, da sola, è indipendente, indomita e libera dalle convenzioni sociali. E qui finisce la parte interessante, perché, perdonatemi, questa donna l'ho trovata antipatica sin da quando ha raccontato la storia della sua vita. Diciamocelo, Aliena pure è una donna coraggiosa e indipendente, ma ha molto più stile ed eleganza di Ellen: infatti, mentre Aliena è cresciuta come una donna istruita, colta, e quindi consapevole della sua dignità e anche molto saggia e gentile, Ellen è cresciuta come una maleducata e una cafona, figlia di un nobile arrogante della specie di William Hamleigh, e quindi adotta comportamenti sgradevoli e di cattivo gusto per i quali non l'ho sopportata. Va bene essere una donna indipendente, va bene tutto ma la gentilezza e il rispetto prima, per essere considerata un'eroina vera: e lei non è nè gentile nè rispettosa. Dai, mettersi a fare pipì davanti a tutti per dimostrare il proprio disprezzo per la disciplina monastica: a qualcuno potrà sembrare divertente, a me è sembrato solo di un esibizionismo irritante. Peccato davvero che Ellen scada spesso nel ridicolo, (una volta ha deriso il priore Philip perché lui segue la castità, con quella morale stantia per cui si valuta una persona in base a quante volte va a letto); peccato perché aldilà di tutto è un personaggio con delle potenzialità e qualità positive. è una donna sfortunata, ma rifiuta la vendetta, è libera, indomabile, tutto, e a detta di TUTTI è buona; ma non lo dimostra proprio perché se la tira, e tanto. Insomma, non mi è piaciuta, diversamente da com'è stato per padre Philip. Padre Philip è stato il mio personaggio preferito in assoluto, mi è piaciuto davvero: in certi momenti mi ci sono pure rivista, anche se non voglio assolutamente darmi l'aria di mettermi al suo paragone. Secondo me il priore Philip è il personaggio più sottilmente approfondito (è uno dei punti di vista del romanzo). è ammirevole perché battagliero, coraggioso, intransigente e fedelissimo a Dio; mi ha affascinata molto più lui, un umile monaco, che Ellen. Philip riceve per tutto il corso del romanzo mazzate ma si riprende sempre, e alla fine riesce sempre a vincere, con la sola forza della mente e non delle braccia, e in questo modo è un personaggio opposto a William. Ok, anche Ellen ha ricevuto mazzate pesanti nella sua vita, come si vede, però Philip è una persona anni luce più tosta di Ellen, diciamocelo. Ellen dichiara di non essere il tipo di persona che perdona; questo, invece di farla sembrare più forte, me l'ha fatta sembrare una persona debole e rancorosa. Philip invece perdona sempre, cosa più unica che rara, quando si carica sulla spalla il peso di mantenere sicura e salva un'intera cittadina, ed è soprattutto la sua umiltà a renderlo simpatico.
In realtà il coraggio e l'intraprendenza non sono gli unici aspetti della personalità di Philip, che è un po' più sottile e sfaccettata. Anche Philip è soggetto all'errore, tipo separa gli amanti in nome della disciplina monastica, ma non lo fa mai volentieri, e si rende sempre conto dei suoi errori; cosa che gli altri no, perché gli altri personaggi non paiono farsi molti esami di coscienza. Inoltre a rendere affascinante Philip sono anche le spinte umane che si nascondono dietro alla sua severità: per esempio, i suoi monaci avevano trovato un bambino abbandonato e l'avevano allevato, e a Philip, segretamente, piaceva fargli da padre. Non sono certamente delle debolezze; per la mentalità del personaggio lo sono, ma in realtà l'affetto paterno che Philip prova per il bambino è una cosa naturale. In sostanza mi è piaciuto perché è severo e buono, e anche complesso; ed è davvero bella la scena in cui riaccoglie al convento un suo vecchio nemico che l'aveva pure tradito.
Va bene, è anche vero che Ellen odia Philip, ma assicuro che non è per questo che non sopportavo Ellen - non sono troppo di parte :asd: Tanto che ho apprezzato molto come personaggio anche Tom il Costruttore, perché rappresenta un padre buono e affettuoso.
Poi ci metto Jack e Aliena; di Aliena ho già parlato, una donna che non si arrende mai e che, nonostante l'ascendenza nobiliare, non disdegna di darsi da fare per avere una vita migliore; anche Jack è un buon personaggio, - è il figlio di Ellen ed è molto più saggio della madre, sa infatti perdonare; meno forte di Philip, d'accordo, perché cede ai compromessi, ma un bel personaggio.
Degli altri non parlerò troppo; mi è sembrata curiosa l'evoluzione di Alfred, il primo figlio di Tom, che all'inizio non è male, poi s'incarognisce in una maniera assurda e carogna resta fino alla fine; e infine Waleran, che è il malvagio e il nemico di Philip, ma di una malvagità molto più ad personam, e quindi meno odioso di William che ama sventrare la gente indistintamente. In ogni caso, lo scopo che muove i malvagi qui è l'ansia di vendicarsi e di ottenere una posizione, quindi per certi versi anche qui i malvagi sono in qualche modo "succubi" - succubi di sentimenti che alla fine, senza voler anticipare niente, saranno per loro rovina. Ci sono passi del romanzo - specie tra la quarta e la quinta parte - che sono deprimenti perché tutto sembra andare a rotoli, però io sin dall'inizio del romanzo avevo il sentore che era un romanzo a lieto fine - sentore che poi si è rivelato fondato: perché alla fine Philip, sia da solo sia grazie all'aiuto di altre persone (vedi Jack) "riesce sempre a ottenere quello che vuole"; e tutto, senza rancori, senza violenze e urla, ma con la forza della sua fede, dell'umiltà e dell'ingegno. Una cosa che lì per lì a me (lo ammetto a malincuore) è sembrata stranissima; anche se riconosco che se qualcuno pensa che la mente può abbattere il dominio dei muscoli, beh, tanto meglio :sisi:
Queste le cose che, in sostanza, ho più apprezzato del romanzo:
1. Il personaggio del priore Philip (vabbè, mi ripeto lol) mi ci sono immedesimata, perché questo personaggio ha una fede in cui crede (nel suo caso, quella in Dio; nel caso mio, o di un altro lettore, altre che non sto a dire) e per i dubbi e le domande che si pone sempre nel suo percorso. Salvo poi averlo invidiato per la sua capacità di "mettere in riga" gli altri XD (capacità che a me manca del tutto)
2. Il fatto che l'autore riesca a far immedesimare il lettore nella mentalità delle persone dell'epoca trattata; così scopriamo che alla fine, aldilà di tutte le differenze, noi e la gente del medioevo siamo uguali, con convenzioni che condizionano i nostri comportamenti e alle prese di problematiche e dubbi non diversi da quelli che avevano le persone del medioevo. Per fare un esempio, ho già detto che spesso io mi sono immedesimata nella figura del priore; oppure, William che fa lo sborone con il suo cavallo costoso come può non ricordare quei ragazzi ricchi che fanno gli spacconi sgommando sulla moto di grossa cilindrata? Insomma, cambia la forma, ma resta uguale la sostanza.
3. è un romanzo molto avvincente, sa tenere incollati.
4. Mi ha aperta alla realtà degli uomini di chiesa (i migliori però, non quelli che stanno lì tanto per)
Mi ha meno entusiasmata invece lo stile; ha punti di pregio nella sua semplicità e nella scorrevolezza, però non mi è sembrato particolarmente originale lato linguaggio, dialoghi, analisi psicologica; è anche vero che bisogna anche considerare la mole del romanzo. Poi è un commentino che parte da una che non se ne intende di scrittura, quindi non ci badate XD
 
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view post Posted on 14/4/2018, 19:33
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SETTIMO CAPITOLO: LA LUNA E I FALO' di C.Pavese

Rieccomi.
Avevo pensato di leggere Mondo senza Fine dopo i Pilastri della Terra (tendo a fare sempre programmini rigidi in testa, lasciate perdere :asd: ) però dovevo leggere un altro libro per la scuola entro la fine di Aprile, così ho rinviato Mondo senza Fine a dopo. Un po' me lo sentivo, è vero: non mi andava molto di leggere un altro romanzo lungo dopo i Pilastri della Terra.
La prof ci ha detto quindi di leggere questo libro di Pavese, La Luna e i falò (in realtà aveva detto solo i primi tredici capitoli, ma giacché c'ero io l'ho letto tutto). Non doveva essere un impegno serio, dura solo 140 pagine ed è quindi molto breve.
Non conoscevo Pavese (non lo conosco tanto nemmeno ora) e leggendo il commentino dietro il libro c'era scritto che le tematiche di questo libro erano il fascismo, i partigiani, ecc.. quindi io mi aspettavo una specie di storia romanzata di un gruppo di partigiani in guerra contro il regime. In realtà quello che mi sono ritrovata a leggere è diversissimo da ogni aspettativa.
Esito pure a chiamarlo romanzo. La trama è questa: c'è un contadino senza genitori che è emigrato in America per sfuggire ai fascisti, e il libro parla del suo ritorno nel paese contadino in cui è vissuto. Tutto qui e veramente poco di eccezionale: tutto il libro si fonda sulle memorie che i paesaggi delle Langhe risvegliano nel protagonista, Anguilla (menomale che è solo un soprannome lol) e gli eventi del romanzo emergono a tratti tra una memoria e l'altra.
Quello che più mi ha colpita è in ogni caso lo stile. Nell'introduzione c'era scritto che lo stile è volutamente lirico: è semplice (ci sono alcuni termini popolari come "gaggìe", "cascine" ma che non intaccano comunque il lirismo dello stile) ma estremamente curato nella scelta dei termini. I dialoghi sono isolati e ridotti all'essenziale. Quello che mi è piaciuto è che si tratta di una scrittura che, nella sua essenzialità, è carica di malinconia. Parliamo di uno scrittore che ha vissuto tutte e due le guerre mondiali, con tutta la devastazione e i costi umani che quelle avevano portato: chiaro che il suo stato d'animo era malinconico (Pavese si è suicidato, tra l'altro, un annetto dopo aver scritto questo libro). Anche il personaggio che più vuole cambiare le cose, Nuto (che è un amico di Anguilla) pare impotente e rassegnato di fronte a tutto.
La parte che più ho apprezzato è stata la prima parte, perché si sofferma sia sui ricordi che Anguilla ha di quando ha vissuto nelle Langhe, sia nei suoi ricordi in America, mentre la parte finale tende a soffermarsi a mio parere un po' troppo sugli eventi della famiglia nobiliare di cui Anguilla era servitore: l'autore racconta le vicende delle sorelle Irene e Silvia, i loro amori infelici che hanno condotto la loro vita a tristi esiti, ma raccontare questo vuol dire anche staccarsi un po' dalle memorie intime di Anguilla e entrare in un ambiente un po' meno intimo e più "mondano". è vero però anche che le memorie di queste due sorelle fanno parte di Anguilla, che era attratto da loro.
Ma la prima parte è bella proprio: a me sono piaciute soprattutto le descrizioni, semplici ma poetiche, dei desolati paesaggi americani, tipo quando Anguilla si trova a fumare in una campagna sul ciglio della strada dove c'era il bar in cui lavorava, e sente i versi dei grilli vedendo le stelle. Mi è piaciuto soprattutto però quando Anguilla racconta di un incidente avuto in America, mentre guidava un camion quello si è impannato in una strada isolata, e lui ha dovuto aspettare lì per una notte. Mi pare fosse il capitolo XI. Bello soprattutto il momento in cui Anguilla dopo aver dormito un poco nel camion, si alza che è ancora notte e descrive il deserto vicino alla strada: deserto illuminata dalla luna rossa, che sembra una falce di coltello insanguinata.
Un immagine significativa considerando anche le tematiche trattate nel romanzo: la Luna in Pavese incarna le tradizioni ancestrali dei contadini, tradizioni superstiziose - come la credenza che, bruciando la paglia in un falò, si fertilizza la terra - e i risvolti più violenti della vita contadina: ecco perchè la luna sembra "insanguinata".
Molto significativo e bello l'inizio del capitolo XXVI: qui Anguilla s'interroga se le nuove generazioni avranno un'esperienza come la sua, ossia emigreranno e tornando troveranno tutto come un tempo. Mi è piaciuto quando Anguilla dice che "noi quando eravamo giovani andavamo alle feste di paese, i giovani di oggi vanno al cinema; ma quando torneranno a casa avranno la stessa sensazione che nulla si è cambiato".
Certo è anche importante rilevare che questo ritorno a casa per Anguilla non è un ricupero nostalgico delle sue radici: perché il fatto che lui sia andato in America ha fatto sì che il protagonista si sia sradicato dalla sua terra e, sostanzialmente, anche dal mondo intero. è nato in campagna ed è fuggito in America, quindi non è in patria né in America nè nella terra natale. Da qui la sensazione di malinconia, oltre che dalla doppia botta delle guerre mondiali, che ha segnato gravemente l'Italia nel periodo in cui è vissuto Pavese. Chiaro che le guerre gettarono molte persone in uno stato psicologico difficile, che io non posso nemmeno lontanamente immaginare. E per questo è bello anche il passaggio in cui Anguilla ricorda di quando passava "a Genova tra le case rotte": famiglie, situazioni varie, sogni cancellati in un secondo con un bombardamento. Ottima la scelta del termine "rotte". Non da un'immagine definita, ma è un termine simbolico della situazione delle persone nell'epoca storica in cui si svolge il romanzo - oltre ad avere un suono particolarmente sordo.
Comunque non è un romanzo che può piacere a tutti: non ha inizio svolgimento e fine, non è avvincente. Va apprezzato per il lirismo e la malinconia che lo caratterizzano, per la capacità di evocare nel lettore un particolare stato psicologico, quello degli Italiani - e non solo dei contadini - nel periodo delle due guerre mondiali, uno stato d'animo fortemente malinconico.
E poi una nota di merito per il finale: con un'espressione tragica nella sua essenzialità, Nuto racconta un'uccisione (non vi dico quale) usando sì e no queste parole: i partigiani sentono una scarica di mitra, quindi escono e trovano il cadavere sull'erba in mezzo alle "gaggìe" (scusate se non mi do la pena di ricopiare direttamente il passo, è che non mi colla XD faccio schifo); quindi il corpo viene incendiato e ne rimane solo come la cenere di un falò.

P.S Chiedo scusa per eventuali errori, ma ho un po' di fretta, devo portare a spasso il cane e lavarmi i capelli :bafanculo:
 
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OTTAVO CAPITOLO: Mondo senza fine di K.Follett

Alla fine sono tornata (per la disgrazia di tutti :trollface: )
Che dire, ci ho messo poco meno di un mese a concludere questo romanzo. Sin da subito ho notato che, rispetto ai Pilastri della Terra, portava un duecento pagine in più, però non significa niente: il Signore degli Anelli è anche più lungo e penso che un giorno me lo rileggerei volentieri daccapo.
Mi aspettavo chiaramente qualcosa di molto simile ai Pilastri. Effettivamente, essendo l'autore lo stesso e la tematica (storica) non molto differente, siamo lì. Eppure, sin dalla prima pagina, mi è sembrato di notare un'evoluzione stilistica dell'autore rispetto all'altro romanzo: non so, qui la scrittura mi è sembrata quasi più "matura", meno schietta rispetto a quella dei Pilastri. Certo, di base lo stile è lo stesso: lo stile scorrevole, a tratti crudo (stesso discorso fatto per i Pilastri, specie nelle scene di sesso e violenza), però c'è qualcosa che mi è sembrato leggermente diverso rispetto all'altro. Ripetendomi, lo stile dei Pilastri mi dava l'idea di essere più schietto rispetto a quello di Mondo senza fine. Ma concludo qui con lo stile, anche perché in generale lo stile di Follett purtroppo non mi ha mai entusiasmata particolarmente.
Vabbè, che dire, qui la vicenda si sposta di duecento anni dopo le vicende dei Pilastri della Terra, sempre nello stesso posto (Kingsbridge). Anche qui ci sono dei personaggi positivi che vogliono far progredire la città e personaggi negativi che, per un motivo o per un altro, si oppongono; ma mentre nei Pilastri l'asse portante era la costruzione della cattedrale, qui non c'è uno scopo unico, ma tanti: prima la costruzione di un ponte resistente, poi la costruzione di una torre più alta, poi la costruzione di un'ospitale migliore. In generale l'asse portante si può dire il progresso economico della città che è ostacolato ora da una Chiesa avida e corrotta ora da una nobiltà violenta ed individualista.
In linea di massima i filoni narrativi sono due: quello di Kingsbridge, ossia le avventure di una classe borghese che lotta per il progresso economico della città contro il priorato, e poi quello di Wighleigh, una cittadina vicina in cui seguiamo invece le vicende di altri importanti protagonisti, il conte locale che si accanisce contro una povera famiglia contadina per ansia di vendetta. I due filoni comunicano tra loro, ma non troppe volte, al punto che a me sono quasi sembrati due storie indipendenti.
Per quel che riguarda Kingsbridge, si respira l'aria di un periodo di transizione, la borghesia è in ascesa e i tradizionali dogmi cristiani sono in crisi; il priore Godwyn, che è un punto di vista, non sembra molto contento di questo cambiamento. Inizialmente avevo associato questo personaggio al priore Philip dei Pilastri, un'associazione che viene quasi naturale, in realtà i due sono persone diversissime. Godwyn, anche se all'inizio non sembra così cattivo, già si vedono i segni di come si comporterà dopo: è molto sleale - per diventare priore organizza dei veri e propri complotti ai danni degli altri candidati, per dire. Successivamente alla sua elezione, ostacolerà sempre il progresso della città non tanto per difendere i dogmi cristiani, quanto per un'avidità personale che lui non si rende conto mai di avere. Arriverà a compiere veri furti per costruire un palazzo più grande per il priore, quando quei soldi sarebbero stati più utili alla costruzione di un nuovo ospitale, specie mentre infuria la peste. Si avvale sempre del suo braccio destro Philemon, un disgustoso ladruncolo che sinceramente ho sopportato molto meno dello stesso Godwyn. Di Godwyn addirittura mi è quasi dispiaciuto per la morte che ha fatto (un pochetto macabra) perché speravo sempre potesse cambiare. Philemon rompe le scatole alla grande...
In tutto questo s'inserisce la lunga e tormentata storia d'amore tra Merthin e Caris. Lui è un abilissimo costruttore che si propone di rinnovare Kingsbridge, l'altra un'aspirante medico, a cui però è costantemente proibito fare quello che vuole perché donna. Caris non sembra accettare questa realtà perché non è scientificamente dimostrata, e dopo si batterà con la tradizione per proporre cure mediche che funzionano contro le vecchie cure tradizionali, che in realtà erano nocive. Insomma, un personaggio positivo, spesso paragonato a un angelo o una santa, che però per qualche motivo non mi ha entusiasmata particolarmente. Non so nemmeno io perché: è una bravissima donna, però c'è qualcosa di lei che non mi ha convinta. Anzitutto, la cosa strana è che tutti la appoggiano in quello che fa, tranne la Chiesa; nessuno in città le fa la morale che essendo una donna non può fare il medico, anzi la appoggiano. Mi è sembrato un pelo strano che nessuno l'abbia guardata storto o le abbia fatto una risatina (è il prezzo necessario da pagare per chi si ribella all'autorità consolidata) se non soltanto la Chiesa. Cioè, il tradizionalismo non dipendeva secondo me solo e unicamente dalla Chiesa, ma era radicato anche nella gente comune. Poi oh, non sono una storica io, quindi può anche darsi che mi sbaglio.
Poi forse quello che non mi ha convinta è che - e qui il paragone ci scappa di nuovo - rispetto al priore Philip è meno umile, è troppo convinta di quello che fa, non si pone mai domande; è un tipo di eroina tutta d'un pezzo, e io non sono molto entusiasmata dagli eroi tutto d'un pezzo: preferisco quelli combattuti, le cui decisioni sono a volte sofferte (per questo preferirei l'Eneide ai poemi omerici, per dire). Anche Philip era una personalità forte, ma spesso lo si vedeva porsi domande sulla bontà del suo comportamento, e riflettere. Caris è un personaggio interessante, non lo metto in dubbio, però boh, se non sono impazzita per lei una ragione ci sarà.
Merthin invece è semplicemente simpatico e ingegnoso, poi, passando finalmente a Wigleigh, c'è suo fratello Ralph, che può essere facilmente associato al conte William dei Pilastri (anche Ralph è conte). Però anche qui ho trovato molto più strunz William che Ralph. Entrambi, come dei nobili, vanno in guerra, saccheggiano e stuprano, però Ralph è spesso condizionato dagli affetti famigliari e a volte proprio raramente prova pure rimorso, cosa che in William non succedeva MAI. Mentre William ti veniva voglia di entrare nel libro e strozzarlo, Ralph non mi ha quasi suscitato niente. Poi si pone lo stesso problema: è una persona prepotente e malvagia, dico io, mettigli in bocca un linguaggio più maleducato che rifletta la sua malvagità, no? Ma Ralph parla esattamente come gli altri...
Vabbè, continuando con i personaggi, invece, ho molto apprezzato la coppia Gwenda-Wulfric: lei è coraggiosissima, si ribella a quello scemo del padre suo che era un ladro e voleva sfruttarla; lei preferisce una vita onesta passata ad arare i campi, con tutte le difficoltà conseguenti, e non si culla rubacchiando come quel salame del padre. Si spacca il sedere come nessun altro per l'amore di Wulfric, è in grado di fare cose assurde pur di renderlo felice. Anche Wulfric mi è piaciuto perché è un personaggio molto sensibile e gentile.
Poi vabbé, come altri personaggi niente di particolare, c'è frate Thomas che cova un segreto sin da quando è entrato nel convento (prima era cavaliere) anche lui è un personaggio piacevole e saggio, e poi c'è una cosa interessante: nonostante Thomas sia omosessuale Follett non lo fa sembrare un pirla, bensì un frate più competente degli altri. Però c'è anche da dire questo, che i personaggi sembrano accettare l'omosessualità senza problemi, il che è un po' difficile visto quel periodo storico; non era facile da accettare nemmeno per una mente così aperta come Caris...come se fosse soltanto la Chiesa a condannare l'omosessualità. Anche oggi d'altronde non è proprio vero che l'omosessualità è accettata, a prescindere dalla Chiesa.
Una nota di merito per il finale, anche qui lieto: l'ho trovato molto più suggestivo di quello dei Pilastri (anche se quello aveva pure una sua logica). è una scena d'amore da film e il dialogo tra i due personaggi - non vi dico chi - non è davvero male.
E se devo tirare un resoconto...devo dire, mi è piaciuto di più i Pilastri della Terra di questo. Forse mi è piaciuto di più proprio per quella schiettezza di cui parlavo, per i personaggi, che ho trovato più carismatici; per quanto in Mondo senza fine ci siano molti personaggi belli, non ho trovato qui la caratterizzazione che per esempio avevo trovato in Tom il costruttore e soprattutto nel priore Philip dei Pilastri. Poi una cosa che mi dispiace dire è che qui, addirittura, mi ero un pochino stancata sul finire della storia, cosa che non era successa nell'altro. Forse sbaglio a paragonarli, però viene naturale se si legge una saga. Comunque non mi è dispiaciuto, e il mio è un parere del tutto soggettivo :sisi: (tanto che ci sono quelli che dicono che al contrario, i personaggi di Mondo senza fine sono caratterizzati meglio)

P.S e poi, almeno qui mi è stato risparmiato un personaggio che tecnicamente è buono, ma che Dio mio è simpatico come il vaiolo (Ellen).
 
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Mondo senza fine l'ho letto anche io e confermo tante delle cose che hai detto, soprattutto la "noia" sopraggiunta sul finale... non lo so, mi è quasi sembrato un voler rimettere a posto le cose a tutti i costi. Chi doveva ricevere una gioia dalla vita l'ha ricevuta e chi doveva beccarsi un calcio nei denti l'ha beccato, ma ho come avuto la sensazione che Follett stesse seguendo una lista della spesa.

Anche Caris ha una parentesi omosessuale con una suora durante la permanenza in Francia comunque (non ricordo benissimo il tutto perché ormai sono passati 5+ anni da quando l'ho letto, se non di più), però è anche vero che ho gradito come il tutto sia stato circoscritto bene dall'autore.
Il libro permea di omosessualità in effetti, ma è stato saggio IMHO (a livello di narrazione) cercare di circoscrivere questi comportamenti in ambito clericale proprio per la natura più riservata e, forse, segreta del clero stesso... comportamenti del genere da parte della gente di Kingsbridge o comunque persone pubbliche sarebbero stati più difficili da digerire e gestire.

Merthin mi piace e non mi piace come personaggio, troppo fluido e gestito dagli eventi più che dalle sue stesse decisioni. Anche le sue relazioni amorose non sono da meno alla fine, gli capitano donne a caso e lui è lì, che le accetta quasi senza lamentarsi. L'ho trovato strano, visto che è più realistico parlare di donne attratte da tipi tutti d'un pezzo e in grado di prendere decisioni in modo fermo e preciso più che da tipi che sembrano trovarsi perennemente lì per pura coincidenza e senza sapere il perché.

Non mi è piaciuto il ritorno finale di Caris e come tutto il passato (suo e di Merthin, suo amante originale) sia stato gestito in maniera così banale alla fine, così come non mi ha per niente preso tutta la parte dove c'entrava la figlia di Merthin avuta con la fiorentina morta di peste. Forse è stata la combinazione di questi aspetti a rendere gli ultimi capitoli noiosi da leggere, anche perché odio sempre tantissimo i personaggi ribelli "perché sì".
 
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CITAZIONE (Scandisk @ 13/5/2018, 15:29) 
Mondo senza fine l'ho letto anche io e confermo tante delle cose che hai detto, soprattutto la "noia" sopraggiunta sul finale... non lo so, mi è quasi sembrato un voler rimettere a posto le cose a tutti i costi. Chi doveva ricevere una gioia dalla vita l'ha ricevuta e chi doveva beccarsi un calcio nei denti l'ha beccato, ma ho come avuto la sensazione che Follett stesse seguendo una lista della spesa.

Anche Caris ha una parentesi omosessuale con una suora durante la permanenza in Francia comunque (non ricordo benissimo il tutto perché ormai sono passati 5+ anni da quando l'ho letto, se non di più), però è anche vero che ho gradito come il tutto sia stato circoscritto bene dall'autore.
Il libro permea di omosessualità in effetti, ma è stato saggio IMHO (a livello di narrazione) cercare di circoscrivere questi comportamenti in ambito clericale proprio per la natura più riservata e, forse, segreta del clero stesso... comportamenti del genere da parte della gente di Kingsbridge o comunque persone pubbliche sarebbero stati più difficili da digerire e gestire.

Merthin mi piace e non mi piace come personaggio, troppo fluido e gestito dagli eventi più che dalle sue stesse decisioni. Anche le sue relazioni amorose non sono da meno alla fine, gli capitano donne a caso e lui è lì, che le accetta quasi senza lamentarsi. L'ho trovato strano, visto che è più realistico parlare di donne attratte da tipi tutti d'un pezzo e in grado di prendere decisioni in modo fermo e preciso più che da tipi che sembrano trovarsi perennemente lì per pura coincidenza e senza sapere il perché.

Non mi è piaciuto il ritorno finale di Caris e come tutto il passato (suo e di Merthin, suo amante originale) sia stato gestito in maniera così banale alla fine, così come non mi ha per niente preso tutta la parte dove c'entrava la figlia di Merthin avuta con la fiorentina morta di peste. Forse è stata la combinazione di questi aspetti a rendere gli ultimi capitoli noiosi da leggere, anche perché odio sempre tantissimo i personaggi ribelli "perché sì".

In effetti per quel che riguarda l'omosessualità nello stesso libro c'è scritto che era un comportamento comune tra gli ecclesiastici (saggia osservazione il fatto che si sia limitato solo al discorso del clero)

Per quel che riguarda i personaggi secondo me il loro limite è che peccano un pelino di carisma (sia nel bene che nel male, perché per dire anche Ralph come malvagio non è che sia così indimenticabile :sisi: )
 
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Il traino sono le vicende che si incrociano, i personaggi sono effettivamente molto grigi e spesso blandi, ma trovo che anche questa sia scelta dell'autore che si lega al fatto che la vera protagonista è Kingsbridge. È la cittadina a rimanere il punto fisso della saga, qualsiasi personaggio è lì solo per un periodo (anche perché tutti son destinati a schiattare) :sisi:

Non a caso non solo è ben dettagliata, ma praticamente tutte le vicende si svolgono dentro o intorno ad essa (e quelle che avvengono a distanza comunque si ricollegano a lei e a ciò che vi succede all'interno). Perfino il far finire Merthin a Firenze l'ho trovata una decisione quasi ovvia viste tutte le volte in cui vengono nominati mercanti e tintori provienti da lì... gente che però passava anche per Kingsbridge per vendere la propria merce dopo un lungo viaggio :)
 
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view post Posted on 13/5/2018, 21:11
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CITAZIONE (Scandisk @ 13/5/2018, 18:29) 
Il traino sono le vicende che si incrociano, i personaggi sono effettivamente molto grigi e spesso blandi, ma trovo che anche questa sia scelta dell'autore che si lega al fatto che la vera protagonista è Kingsbridge. È la cittadina a rimanere il punto fisso della saga, qualsiasi personaggio è lì solo per un periodo (anche perché tutti son destinati a schiattare) :sisi:

Non a caso non solo è ben dettagliata, ma praticamente tutte le vicende si svolgono dentro o intorno ad essa (e quelle che avvengono a distanza comunque si ricollegano a lei e a ciò che vi succede all'interno). Perfino il far finire Merthin a Firenze l'ho trovata una decisione quasi ovvia viste tutte le volte in cui vengono nominati mercanti e tintori provienti da lì... gente che però passava anche per Kingsbridge per vendere la propria merce dopo un lungo viaggio :)

Eh, ci sta anche :sisi:
 
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NONO CAPITOLO: Cuore di Tenebra di J.Conrad

Rieccomi, purtroppo o per fortuna.
Oggi volevo vedere un po’ questo libro che in realtà fino a poco tempo prima non contavo di leggere – volevo passare un po’ a una narrativa più classica perché non ne sto leggendo da troppo tempo e comunque, alla lunga, sempre letteratura '800 e '900…eh, a me stanca :asd: poi sono sempre gusti.
In ogni caso, ho letto questo romanzo perché mi serviva per la tesina. Avrei potuto limitarmi a leggere la teoria del libro d’inglese, ma quello è dannatamente stitico e quindi ho preferito farmi la lettura integrale, visto che è un breve romanzo di 140 pagine appena, che non doveva essere nulla d’impegnativo. Difatti l’avrò concluso in non molto tempo, però, devo dire, la lettura in certi punti è alquanto ardua…più volte mi sono trovata a leggere frasi e a sollevare subito dopo la testa realizzando una sola cosa: che non ci avevo capita una mazza. Purtroppo riconosco che io ho un rapporto un po’ problematico con la letteratura novecentesca: anche cercandomi dopo le interpretazioni, ho sempre impressione che qualcosa mi sfugga o che io non abbia capito benissimo. Ma pazienza. Comunque, queste sono solo mie debolezze, perché Cuore di Tenebra è un capolavoro, ed è famosissimo. L’intreccio non rispetta l’ordine cronologico: praticamente all’inizio il narratore, un anonimo marinaio, rimane bloccato nel fiume con i compagni e, in attesa di una corrente favorevole per partire, uno dei marinai, Marlow, decide di raccontare una storia, e qui comincia il racconto centrale del romanzo: Marlow che si avventura nel cuore dell’Africa – sul fiume Congo – e là vede strane cose. Nel senso, Marlow parte perché è entusiasmato dall’idea di esplorare nuove terre ed è abbastanza convinto dalla causa dei colonialisti, di “civilizzare i selvaggi”. Però a proposito di quest’ultima cosa c’è molta ironia perché Marlow, nel suo viaggio in Africa, si è reso conto che i comportamenti dei bianchi sono ben altri – e comunque, anche fossero quelle le intenzioni, “civilizzare i selvaggi”, non ci sarebbe molto da lodarli lol: inizialmente, si trova a lavorare in una stazione di mercanti bianchi e subito ci sono immagini molto inquietanti. Marlow, per esempio, in un bosco trova diversi Africani in agonia – il romanzo è pieno di immagini di morte, alcune ben più macabre di questa… - inoltre Marlow, quando vede i boschi, gli sembra che covino una “tenebra nascosta” e “minacciosa di vendetta”. E già io ero un po’ confusa perché non capivo che cosa voleva dire questa tenebra: la tenebra può essere sia “mistero” sia indicare qualcosa di negativo, quindi per me o era 1)l'alone di mistero intorno alle usanze degli Africani; 2)le usanze degli Africani magari considerate “cattive” dall'autore, anche se da un'opera di una certa qualità letteraria uno non si aspetterebbe un messaggio così banale; o 3) le crudeltà che in quelle foreste venivano commesse dai colonizzatori ai danni degli indigeni. Alla fine, dopo aver concluso tutto il romanzo, credo che l'ipotesi giusta sia più o meno la terza: la “tenebra” non rappresenta il mistero che circonda una cosa sconosciuta, ma nel romanzo rappresenta la mentalità sbagliata dei colonizzatori – corrotti e alquanto scemi, per come si mostrano nel romanzo - e anche, sicuramente, la psicologia malata di alcuni di loro, in questo caso Kurtz. Tra l'altro, l'autore è stato molto bravo a gestire questo personaggio: per grandissima parte del romanzo, non si fa che nominarlo e nominarlo, tutti lo definiscono una specie di missionario buono e tutte quelle cose, ma Kurtz non compare mai e Marlow ne rimane affascinato, e in questo modo si crea un alone di mistero intorno a questa figura. Kurtz compare solo alla fine della storia e là viene definito come uno dotato di un'eloquenza brillante e magnetica e di una voce molto profonda, però...insomma, come persona non è esattamente il missionario buono, come tutti dicevano. Non vi dico come ha arredato il cortile di casa sua perché vi toglierei il gusto...ma è qualcosa di assurdo. La posizione di Marlow nei confronti di Kurtz è difficile da comprendere, questo sì. È vero che Kurtz non è un tipo da ammirare, ma in un passo, Marlow sostiene di invidiare Kurtz perché a differenza sua, Kurtz era riuscito a trarre un bilancio, per quanto negativo, della sua esperienza; forse Marlow si rimprovera di non essersi spinto troppo oltre nello scoprire i misteri della terra inesplorata, a differenza di Kurtz che invece, si era dato da fare.
Il finale della storia di Marlow poi è piuttosto triste, ma non posso spiegare il perché visto che voglio evitare spoiler. Una volta che Marlow torna in Europa, c'è, diciamo, una falsificazione della realtà riguardo a Kurtz, per come sta veramente, e nel contesto in cui questa verità viene falsificata...beh, è piuttosto triste, ecco. In ogni caso, il punto che mi è piaciuto di più è un episodio del viaggio di Marlow lungo il fiume Congo. Durante un incidente, Marlow perde un uomo dell'equipaggio, un Africano, ed è bella la descrizione che Marlow fa dell'ultimo sguardo dell'Africano prima della morte. È vero, di base Marlow è un tantino razzista, più che altro per esigenze narrative, ma nella morte di quest'uomo è come se Marlow avesse ritrovato la verità: infatti dice che negli ultimi istanti di vita, l'Africano lo guarda con una certa famigliarità, quasi a indicare una “remota parentela”. E poi, significativo anche il finale del romanzo, quando, finito Marlow di parlare, i marinai si girano a guardare la foce del fiume – se non sbaglio il Tamigi? O forse mi sto imbrogliando alla grande – e vedono una fitta oscurità, una “tenebra” farsi avanti tra le nuvole piovose: un'immagine emblematica per chiudere il romanzo, come se Conrad, spostando la tenebra dall'Africa alla Gran Bretagna, volesse dire che la tenebra non riguarda l'Africa, ma l'uomo Europeo.
 
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view post Posted on 27/6/2018, 00:05
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Ma dai, anche io portai Heart Of Darkness per la mia tesina di maturità (ahimè, ormai parecchio tempo fa)!:D
Bellissimo romanzo! :sisi:
Davvero bella analisi, complimenti! :applauso:
 
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Grazie Tuonetar! :P
 
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DECIMO CAPITOLO: Don Chisciotte della Mancia di M. de Cervantes

Buonasera a tutti! Sono qui come risultato del fatto che ho sbagliato l'orario del lavoro, e mi sono presentata in biblioteca un'ora prima di quando dovevo, risultato: mi sono chiusa in biblioteca ad aspettare le cinque :facepalm: e insomma, piuttosto che aspettare fuori al caldo come una scema, e fare conversazione con un signore che ogni volta mi chiede come mi chiamo, di chi sono figlia e se ho una sigaretta, ho deciso di approfittare di questa specie di ora buca per tornare qui con un nuovo capitolo, giacché avevo finito giusto ieri il Don Chisciotte.
In realtà, prima ancora avevo letto l'Eneide, di cui non ho parlato qui perché, a parte osservare quant'è stato bravo Virgilio a scrivere - soprattutto certi passi tipo la morte di Palinuro, fantastici - non sapevo che aggiungere.
Ma finiamola con i preamboli e passiamo al dunque.
Questo romanzo, una certa mole (consta di poco più di 1000 pagine) mi è stato vivamente consigliato da mio padre, che l'ha sempre lodato sia per le risate che si è fatte, sia per i contenuti. Pertanto ho deciso di buttarmici pure io.
L'autore si è mostrato simpatico fin dall'inizio (perché, dovete sapere, io valuto pure la simpatia che m'ispira un narratore/scrittore, oltre a tutto XD). Nel prologo ha preannunciato che, per la retorica del suo tempo, lo stile che avrebbe impiegato sarebbe stato molto semplice, quasi a dirlo sciatto, il che sta a indicare una certa modestia. è vero che lo stile è semplice e scorrevole, ma ha anche una certa eleganza; per dire, non mi è apparso impersonale, come un po' quello di Follett (non me ne volere, Follett :facepalm: ).
Ogni tanto ho notato qualche passaggio poco chiaro (ma proprio rarissimamente) e a volte Cervantes ha fatto errori narrativi, però è comprensibile, perché di certo Cervantes non usava i computer, quindi la stesura era mooolto più lunga, e se uno ci aggiungeva pure le correzioni...eh, faceva prima a passare all'altro mondo XD
La storia, penso che la sapete già, almeno a grandi linee: un gentiluomo della Mancia, Alonso Quijiano, fissato con la letteratura cavalleresca, decide di farsi a sua volta cavaliere errante. Tuttavia i tempi della cavalleria sono tramontati, e Don Chisciotte - quale sarà il suo nome da cavaliere - crederà di passare tante avventure che in realtà non sono tali. Per fare un esempio banale nella sua enorme fama, vedendo dei mulini a vento li scambia per giganti e li attacca, rimediandoci solo un volo; oppure prende delle sguattere per dame di corte, osterie per castelli, e una contadina di un paese vicino per la sua dama Dulcinea del Toboso - il cui nome vero è Aldonza Lorenzo.
In breve affianca a sé uno scudiero, il contadino Sancio Panza, il quale è dotato di più buon senso e pare più a posto di testa del padrone.
Così, almeno nella prima parte, il romanzo appare una parodia comica dei poemi cavallereschi: Don Chisciotte passa per uno svitato con strane fissazioni, le sue avventure fanno ridere, Sancio Panza invece è la controparte assennata del cavaliere, che spesso cerca di farlo ragionare; ma ogni volta Don Chisciotte gli dice che, se la realtà gli appare diversa, è per colpa di incantatori maligni.
Ora, io non sono molto facile al riso, le avventure mi hanno fatto al massimo sorridere un poco; anche se ci sono certe che, per come sono scritte, risultano simpaticissime, tipo una rissa scoppiata alla locanda tra tutti gli avventori, in cui Cervantes fa questo divertente elenco che mi sento in dovere di citare.

CITAZIONE
Menti come villano infame, rispose don Chisciotte, ed alzando il lancione, che non si lasciava mai uscire di mano, gli misurò un colpo sì giusto sopra la testa, che se lo sgherro non se ne fosse schermito, sarebbe rimasto morto disteso. Il lancione dando in terra si ruppe in pezzi, e gli altri sgherri che videro maltrattare il loro compagno, levaron la voce domandando che tutti dessero mano alla Santa Hermandada. L’oste, ch’era pure della consorteria, si affrettò a dare di piglio all’archibuso e alla spada, e si pose dal lato dei suoi compagni; i servitori di don Luigi tolsero in mezzo il loro padrone perchè in tanto scompiglio non iscapasse; il barbiere vedendo che la casa era sossopra, afferrò la sua bardella, e Sancio fece il medesimo; don Chisciotte impugnata la spada, attaccò allora la sbirraglia. Don Luigi intimava a’ suoi servi che lo lasciassero chè voleva accorrere alla difesa di don Chisciotte; Cardenio e Fernando si erano uniti per sostenerlo nella zuffa; il curato strillava; strillava l’ostessa; sua figlia affliggevasi; Maritorna piangeva; Dorotea era confusa; Lucinda era attonita; donna Chiara sbigottita. Il barbiere bastonava Sancio, e questi dava al barbiere un perfetto ricambio. Don Luigi colpì con un pugno sì forte uno dei suoi servidori che gli fece uscire il sangue di bocca, perchè aveva ardito pigliarlo per un braccio affinchè non fuggisse; il giudice lo difendeva; don Fernando calcava coi piedi uno sgherro e calpestavalo alla peggio; l’oste tornava a rinforzare le grida domandando che fosse aiutata la Santa Hermandada.

https://it.wikisource.org/wiki/Don_Chiscio...ia/Capitolo_XLV

A volte il linguaggio si fa crudo e popolaresco - ma Cervantes non scade mai nell'eccesso - a volte sublime - e di conseguenza ironico. Queste due tendenze si vedono nel modo diverso di parlare di Don Chisciotte e di Sancio, l'uno abituato a leggere tutto con il filtro della letteratura cavalleresca, l'altro più con i piedi per terra - anche se, quanto più va avanti la storia, più Sancio rimane persuaso della verità di quanto gli dice Don Chisciotte.
Insomma, la prima parte sembra proprio una parodia della letteratura cavalleresca. Cervantes stesso sosteneva, nel prologo, che con il suo romanzo l'avrebbe presa in giro. Con la seconda parte, però, il puro intento parodistico, man mano, cade giù. Il distacco di fronte ai personaggi, specie rispetto al protagonista, viene meno: l'autore prende meno in giro Don Chisciotte, si sofferma a volte anche sui suoi pensieri, è come se si identificasse.
Perciò l'ultima sconfitta del cavaliere appare meno divertente delle altre: sembra anzi esser presa sul serio. Questo perché, stando a delle ricerche che ho fatto dopo, si tratta di un romanzo autobiografico. Non che Cervantes fosse andato a fare il cavaliere errante: ma, come il suo eroe, aveva creduto in un ideale, ma le sue azioni non erano state riconosciute e apprezzate. Perciò, evidentemente, gli era venuto in mente di fare una parodia dei poemi cavallereschi, prendendoli a noia perché davano un'idea distorta della realtà, in quanto tutti quei cavalieri scintillanti come Amadigi di Gaula ecc. venivano onorati e lodati anche dagli altri per quello che facevano.
I cavalieri "veri", invece, ossia quelli che nella realtà, davvero combattono per un'ideale, - come Don Chisciotte - vengono presi per mentecatti.
Quello che penso è che Cervantes, insomma, sia partito con l'idea di fare una parodia, ma man mano si è immedesimato nella sua storia e nel suo eroe; e di conseguenza, il romanzo è diventato molto più profondo di una semplice parodia. Lo conferma il finale, un po' amaro, in cui si ha una rinuncia agli ideali e un'accettazione della realtà.
Tutto questo, però, senza rinunciare alla leggerezza di tono.
Per finire, il Don Chisciotte mi ha dato proprio l'idea di un'opera di facile lettura, chiara nel significato, scritta da una mente razionale ed equilibrata.
Davvero un ottimo lavoro :sisi:

...Mbeh, ora è quasi il momento di aprire. Alla prossima!
 
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