No, i capitoli li ho pronti, è che ogni volta mi scordo di aggiornare
Bravo Trinnal, che me lo hai ricordato!
5. PracticeUn’ora dopo, Liz parcheggiò davanti ad un palazzone di cemento nella zona di East Los Angeles. Chiudendo la portiera della macchina, notò un ragazzino ispanico che guardava la sua Chevy con occhi grandi come piattini. Non doveva avere più di dodici anni.
“È tua, la macchina?” Le chiese quello, cercando di fare il duro. Aveva un berretto bianco con la visiera sulla nuca, e pantaloni così larghi che dovevano appartenere a qualcuno con almeno tre taglie in più.
Liz annuì, facendogli l’occhiolino.
“È una
figata!” Esclamò il ragazzino, prima di saltare sul suo skateboard ed allontanarsi lungo la strada. Giovani d’oggi.
Con un mezzo sospiro, la detective si voltò verso il palazzo. Accanto ai citofoni campeggiava la vecchia targa sbiadita dell’ Agenzia Investigativa Crimmens.
Nel vederla, Liz sorrise. Roy Crimmens era uno dei più geniali investigatori privati sulla piazza. Bazzicava da sempre il Parker Center, il quartier generale della polizia di Los Angeles, ed era noto per essere tanto scaltro quanto intrattabile.
A Roy non piaceva avere novellini ed apprendisti tra i piedi, ed anni prima Liz aveva dovuto lottare con le unghie e con i denti perché lui accettasse di prenderla come praticante, aiutandola a conseguire la licenza.
Non era stato facile trattare con quel coriaceo investigatore della vecchia scuola, ma alla fine era riuscita a conquistare la sua fiducia e, cosa ancora più rara, la sua stima.
Sistemandosi la camicia in modo che coprisse la pistola, Liz Stone spinse la porta a vetri dell’ingesso ed entrò nell’atrio del palazzo.
Appena fu dentro venne colpita da una terribile puzza di cavolo, segno che la vecchia cecoslovacca del terzo piano era ancora in vita. O forse no, e quello era l’odore del suo corpo che si decomponeva con il caldo. O forse era solo meglio non pensarci.
Liz giunse in apnea al secondo pianerottolo, si fermò davanti ad un’anonima porta di legno e bussò.
“Avanti!” Urlò una voce roca da dietro il battente.
La detective entrò prendendo un gran respiro, e subito se ne pentì. All’interno dell’ufficio, l’aria era satura del tanfo di un mezzo milione di sigari.
“Quante storie, per un po’ di fumo.” Gracchiò Roy Crimmens da dietro la scrivania, vedendola piegarsi in due e tossire come se dovesse espellere un polmone “Se ti dà fastidio, apri la finestra. E cerca di non fare entrare i piccioni. Quei bastardi mi hanno cagato sul divano.”
Tossendo e cercando di non morire, Liz si avvicinò alla finestra in fondo all’ufficio e la spalancò.
“Ti ammazzerai con tutto questo fumo, Roy.” Commentò, una volta che riuscì a prendere una boccata d’aria.
“Stronzate.” Roy Crimmens si rilassò contro lo schienale della sedia e ripose la pistola in un cassetto. Lui non si scomodava mai ad aprire la porta, ma chiunque si fosse azzardato ad entrare nel suo ufficio, avrebbe fatto bene a non avere cattive intenzioni. Roy attendeva gli ospiti con una semiautomatica in pugno.
Quando fu sicura di aver degassificato la stanza, Liz chiuse la finestra e si sedette davanti al suo vecchio mentore, dall’altra parte della scrivania.
“Al telefono hai detto di avere del lavoro per me.” Cominciò, accavallando le gambe come un uomo, con la caviglia appoggiata al ginocchio.
Roy si raschiò la gola, producendo un terribile rumore catarroso. Era un uomo tarchiato, robusto e non molto alto , che alla giovane aveva sempre ricordato un mastino. Quella mattina vestiva con pantaloni cachi, bretelle e camicia bianca con le maniche arrotolate, come ogni altro giorno della sua vita. Quando faceva particolarmente freddo, aggiungeva una vecchia giacca sformata ed un largo cappello floscio, con buona pace dello stile.
Roy Crimmens beveva whiskey, fumava sigari e bestemmiava a tutto spiano. Era il classico investigatore privato da romanzo giallo, salvo che lui era reale, ed aveva un pessimo carattere.
Come lui, anche il suo ufficio rispecchiava la stessa immagine trasandata e pittoresca. Consisteva in un’unica stanza, ingombra di polvere e pile di vecchi fascicoli e di quotidiani ingialliti, con un divano per i clienti in attesa addossato al muro vicino alla porta e schedari metallici in ogni dove.
La scrivania di Roy si ergeva in mezzo a quella confusione come il relitto di una nave dopo la tempesta. Sul ripiano, in mezzo ad un tripudio di carte che dovevano essere lì da una vita, l’uomo teneva un vecchio telefono a disco, una macchina da scrivere, una scatola di legno piena zeppa di cubani ed un grosso posacenere, ripieno di mozziconi di sigaro.
In un angolo, quasi nascosto dagli schedari, era stato sistemato un minuscolo tavolino rotondo, con una sedia in legno. Roy lo chiamava “L’angolo del Pivello”, e vi relegava tutti gli aspiranti investigatori che avevano la faccia tosta di andare da lui a fare la gavetta per la licenza. Al momento, sul ripiano scheggiato del tavolo, riposava un computer portatile di ultima generazione.
“Hai preso un altro apprendista?” Chiese la giovane detective, facendo un cenno con la testa.
“Un idiota.” Sbottò Roy, con un grugnito. “I pivelli di oggi sono delle checche. Tu sì, che avevi le palle. Anche se sei una donna.”
“Uhm… Grazie. Credo.” Liz sollevò un sopracciglio e fissò il suo vecchio mentore. “Allora? Quel caso?”
“Persona scomparsa.” Roy si piegò di lato senza alzarsi dalla sedia ed estrasse un fascicolo dal cassetto dello schedario. “Femmina, bianca, sulla ventina.”
Liz Stone prese il fascicolo dalle mani del vecchio investigatore e cominciò a sfogliarlo.
Non conteneva un granché, a dire la verità. Solo un paio di pagine, che avevano tutta l’aria di essere le fotocopie del rapporto di chiusura del caso stilate da un agente del dipartimento di Hollywood, e la foto della ragazza scomparsa, fissata al fascicolo con una graffetta.
“Trudy Gilbert.” Mormorò Liz, fissando l’immagine della ragazza. Trudy era una giovane donna dal viso rotondo, la bocca a cuore ed un caschetto di capelli decolorati, bianchi e dalle punte viola.
“Il caso è chiuso, ma la famiglia vuole vederci chiaro.” Roy prese un sigaro dalla scatola sulla scrivania, staccò l’estremità con un morso e la sputò nel cestino della carta straccia. “Non me ne frega se è morta, se fa la puttana sulla Ocean Avenue o se l’hanno rapita gli alieni. Trovala, e ti becchi la solita quota.”
Liz annuì, chiudendo la copertina del fascicolo sul visino tondo di Trudy Gilbert. Per quella collaborazione, Roy le avrebbe pagato il venti per cento. Non molto, certo, ma era sempre meglio di niente.
“Cosa sappiamo della ragazza?”
Dall’altro lato della scrivania, Roy Crimmens si accese il sigaro e soffiò un pennacchio di fumo verso il soffitto.
“Un cazzo di niente. La polizia se ne è sbattuta. Lavoraci su, e vedi cosa riesci a trovare.”
“D’accordo.” Liz si alzò, cercando di non farsi intossicare dalle nubi tossiche del sigaro. “Ora vado. Se scopro qualcosa, te lo farò sapere.”
Per tutta risposta, Roy sbuffò verso di lei un’altra nuvola di fumo, facendola fuggire sulle scale. In fondo, l’odore di cavolo stufato non era poi così male.
Una volta tornata in strada con il fascicolo sottobraccio, Liz scrutò la sua macchina con occhio critico. Per fortuna nessuno le aveva rigato la carrozzeria o squarciato i sedili. Poteva succedere anche quello, in alcuni quartieri di Los Angeles.
Mettendosi al volante, lanciò il misero fascicoletto sul sedile accanto a sé ed accese la radio.
Il Santa Ana continuava a soffiare, caldo e crudele, spingendo lo smog verso il mare.
Lingue di vento infuocato lambirono il viso di Liz Stone, che inalò una boccata d’aria rovente.
Sotto il cielo di un azzurro feroce, la città pareva sul punto di andare in fiamme.
Los Angeles non è mai così bella come quando brucia.
La ragazza non smetteva di agitarsi. Il sangue le colava dal taglio sullo zigomo, rigandole la guancia con lacrime color rubino.
“Posso chiederti di stare ferma? Solo un minuto, non ci metterò molto.” La voce dell’uomo era pigra ed indolente, al contrario dei suoi occhi svegli ed attenti.
Rigirandosi un coltello tra le dita, lui si chinò sulla giovane donna legata ed imbavagliata che si contorceva a terra.
“Parlo sul serio.” Le disse dolcemente. “Se continui ad agitarti, rischio di sbagliare a tagliare.”
La ragazza lanciò uno strillo attraverso il bavaglio che le segava gli angoli della bocca e spalancò gli occhi.
Lui si accucciò sui talloni accanto alla sua preda, sollevando il coltello perché lo vedesse. Si trattava di una di quelle lame scure, con una piccola parte dentellata accanto all’impugnatura, che venivano solitamente date in dotazione ai militari. A quella vista, la ragazza prigioniera emise un secondo urlo soffocato.
“Bello, vero?” Mormorò lui, fissando il coltello con aria compiaciuta. “Una volta ero piuttosto bravo, con questi affari. Ho imparato ad usarli grazie ad un certo Maggiore Hill. Lui era un vero mago… finché non ho scoperto che si prendeva un po’ troppe libertà con alcuni cadetti… eh, già.”
Lui sospirò, cambiò posizione appoggiando un ginocchio in terra e scostò il colletto della camicia della ragazza con un colpo secco, esponendole l’incavo del collo.
“Ferma.” Le intimò di nuovo, abbassando la punta del coltello finché non le sfiorò la carne. A quel contatto la giovane impietrì, terrorizzata. “Sono stato fuori dal giro per qualche tempo, e sono un po’ arrugginito. Se stai ferma, sarà più facile per entrambi.”
La ragazza prese un respiro tremante e cominciò a piangere. Lacrime salate le corsero sul viso, mischiandosi al sangue che le imbrattava una guancia.
“Sst, sst.” La zittì lui, asciugandole gli occhi. “Tranquilla. Non è poi così brutto.”
Per tutta risposta, la ragazza singhiozzò più forte. Gli dispiaceva vederla soffrire così, ma lo irritava ancora di più sapere che lei non capiva come tutto quello fosse necessario.
“Non ci vorrà molto.” Le promise per l’ultima volta, e sollevato il coltello, lo affondò nella gola della sua vittima.
Ripeté l’operazione più volte, tratteggiando nella carne della ragazza un segno semicircolare con la precisione che lo aveva sempre contraddistinto. Non si curava degli spasmi di dolore che agitavano la giovane, né del sangue che sgorgava dalle ferite come un fiume in piena.
A lavoro finito, si fermò ad osservare lo scempio che aveva creato.
Il collo della ragazza era meravigliosamente squarciato, lacerato in più punti dalla lama seghettata alla base del coltello. Portandosi la lama all’altezza del viso, leccò via il sangue, sovrappensiero.
Era un buon lavoro, ma ben lontano dal risultato che voleva ottenere. Avrebbe dovuto fare ancora un po’ di pratica. Se c’era qualcosa che aveva imparato nell’esercito, era che l’esercizio porta alla perfezione.
Sollevandosi con un sospiro, si avvicinò ad una borsa da palestra che aveva appoggiato in un angolo. Si trovava nello scantinato di una palazzina abbandonata; con un po’ di fortuna, il cadavere della ragazza sarebbe passato inosservato ancora per qualche tempo.
Con gesti calmi e misurati, estrasse dalla borsa un numero considerevole di buste di plastica , disponendole davanti a sé. Stando bene attento a non sporcarsi più del dovuto, si spogliò rapidamente, sigillando separatamente all’interno delle buste gli abiti ed il coltello sporchi di sangue.
Si sarebbe liberato dei vestiti alla prima occasione, mentre avrebbe tenuto a mollo il suo Ka-bar nella candeggina, pulendolo infine con la benzina per eliminare tutte le possibili tracce di DNA.
Inclinando la testa di lato, fece scrocchiare i muscoli anchilosati del collo. Moriva dalla voglia di sgranchirsi le membra con un po’ di sana ginnastica, ma aveva un appuntamento con quell’idiota del suo psichiatra, ed i bestioni che lo scortavano non sarebbero stati affatto contenti se al loro arrivo avessero trovato un appartamento vuoto.
Così si rivestì con abiti puliti e freschi, riempì la borsa con i sacchi di plastica incriminanti e lasciò lo scantinato.
In strada, celato da un berretto e da un paio d occhiali da sole, si confuse con sicurezza in mezzo agli altri passanti.
Mentre osservava uomini e donne camminargli al fianco, sorrise soddisfatto.
Nell’indifferenza generale, lui era libero.
Invisibile.
Pericoloso.
Eccomi, in ritardo ritardissimo, ma ci sono.
È un capitolo decisamente più corto del precedente, ma spero che vi piaccia ugualmente.
Il personaggio di Roy è un po’ romanzesco, lo so, ma fa parte della vita di Liz, e non potevo non inserirlo, nonostante il suo continuo sproloquio.
Come sempre, se ho fatto qualche erroraccio, segnalatemelo