The Elder Scrolls Forum - ESO, Skyrim, Oblivion, Morrowind & GDR

Ladybug

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Iselin
view post Posted on 5/9/2013, 14:34




Grazie... anche se più vado avanti meno mi convince. Insomma, questo è pur sempre un forum su tes, e dal momento che non è nemmeno il massimo, come storia, non so se mi faccio bene ad aggiornare gli altri capitoli (in fondo, non credo che sia seguitissima, per cui non sarà una gran perdita :fifi: ).
Ma grazie comunque per l'apprezzamento. E' bello vedere qualcuno che non schifa i miei deliri mentali ^^
 
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view post Posted on 5/9/2013, 22:03
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No, ehi, ferma lì: se hai impegni o roba simile va bene, ma non dire che la storia non è seguita perchè io la seguo eh :ahstop: non mi interessa se non è TES et cetera, a me piace :sisi: se però non hai sbatti o hai problemi di altro genere, non fa nulla ovviamente :P
 
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view post Posted on 5/9/2013, 23:09

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CITAZIONE (Rekhyt @ 5/9/2013, 23:03) 
No, ehi, ferma lì: se hai impegni o roba simile va bene, ma non dire che la storia non è seguita perchè io la seguo eh :ahstop: non mi interessa se non è TES et cetera, a me piace :sisi: se però non hai sbatti o hai problemi di altro genere, non fa nulla ovviamente :P

quoto a pieno! due lettori sicuri li hai, quindi è più che seguita! >.>
 
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Iselin
view post Posted on 6/9/2013, 10:41




:omg: No, non lo facevo per impegni o cose varie, e nemmeno per lo sbattimento (la storia nella mia mente è già finita, devo solo trascrivere i gli ultimi capitoli) ma solo perché mi sembrava stupido aggiornare una cosa che non ha niente a che vedere con il forum (e che non è nemmeno così bella, a mio parere).
Ma viste le reazioni, allora proverò ad aggiornare anche i capitoli seguenti :fiorellino:
 
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view post Posted on 6/9/2013, 10:44
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Beh non deve mica essere il nuovo "Il nome della rosa", basta che sia una storia carina :D
 
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Iselin
view post Posted on 24/9/2013, 14:17




4. Memories

Il Clover Club è un bel locale dell’area di Brooklyn. Piccolo, ordinato ha un’aria calda e accogliente che si apprezza ancora di più, in una fredda serata invernale come questa.
Lui non è mai stato un frequentatore di bar, ma il Clover gli è sempre piaciuto.
Sarà per l’atmosfera ricercata, sarà per gli ottimi whiskey che servono al banco, sarà per i comodi sgabelli di pelle che fanno tanto old stile. Fatto sta che gli è sempre piaciuto.
E da questo momento, ne è sicuro, gli piacerà ancora di più.
La detective mandata dal dipartimento è seduta di fronte a lui, seria e concentrata come richiede la sua parte. Tra le dita stringe un blocchetto rilegato in similpelle nera, uno di quei taccuini da sbirro, ma non lo guarda quasi mai. Si limita ad ascoltare, annuire, ed annotare qualcosa solo di tanto in tanto.
Ha una bella pelle dorata, ed una coda di capelli castani schiariti dal sole. Evidentemente, a Los Angeles, l’inverno non è ancora arrivato.
“Quindi, mi sta dicendo che lei ha visto il signor Ogden uscire di casa attorno alle…” Controlla il taccuino. “…alle ventitré, il giorno quattordici dello scorso giugno?”
“Le sto dicendo che mi pare di averlo visto, agente.”
Detective. "
“Giusto. Detective. Lei non ha l’accento di Los Angeles, Detective. Da dove viene?” Le chiede sorridendo, ma lei scuote il capo. È una bella donna, con il corpo snello ed atletico di chi fa molto esercizio fisico.
“Capitano, se lei volesse rispondere alle mie domande e smetterla di perdersi in sciocchezze, mi faciliterebbe di molto il lavoro.” Dice, con quel suo curioso accento. No, non è di Los Angeles, anche se il distintivo dorato che gli ha sventolato sotto al naso porta la sigla LAPD.
“Sono a sua completa disposizione, Detective Stone.” Le sorride, allargando le braccia, ma lei non ricambia. Chissà quanti anni ha. Per telefono, l’aveva creduta più giovane.
“Questa è una fortuna. Le dispiacerebbe ora dirmi nuovamente quello che ricorda? Andiamo a ritroso, questa volta: parta dall’ultima cosa che ha fatto, e mi descriva via via tutto il resto.”
Il suo sorriso si allarga. Questa Stone è sveglia. Sta cercando di coglierlo in fallo con il più misero dei trucchetti da interrogatorio. Come se lui potesse cascarci.
“Sono andato a letto. Ho spento la luce… Texas?”
“Come?”
“Alabama? Tennessee?”
Lei stringe gli occhi, irritata. Sono davvero belli, anche con quell’espressione scocciata. Gli erano sembrati scuri, all’esterno del locale ma, una volta dentro, ha scoperto che sono di un cupo verde bosco.
“Se le rispondo, promette che si concentrerà sulle mie domande?”
“Parola di lupetto.” Dice lui, portandosi una mano al cuore.
Stone lo fissa per un istante, prima di rispondere. Continua ad ignorare le sue battute, e la cosa è altamente interessante.
“Atlanta.” Confessa, lanciando un’occhiata all’esterno del locale. Non nevica ancora, ma comincerà presto.
“Ah, Georgia.” Lui le sorride, rilassandosi contro lo schienale della sedia. “
I wish I was in the land of cotton…” Canticchia, sulle note di Dixie.
Stone lo richiama subito all’ordine, ma storce la bocca. Sta trattenendo un sorriso.
Lui solleva il bicchiere e se lo porta alle labbra, osservandola da sopra il bordo di vetro. È una bella donna, anche infagottata in quell’enorme felpa grigia infilata sopra il maglione di lana.
Ed improvvisamente, si rende conto che gli piace. Gli piace il modo sicuro in cui lo studia, la maniera in cui fa roteare la penna a sfera tra le dita mentre lo interroga ed il ciuffo chiaro che si è infilata dietro l’orecchio.
Sì, risponderà alle sue domande. Farà qualunque cosa lei gli chieda, a patto che non se ne vada.
Ma prima vuole bere ancora qualcosa. Solleva una mano per chiamare la cameriera e si fa portare un secondo bicchiere.
“D’accordo, partiamo dall’inizio.” Stone picchietta sul blocchetto con la punta della biro. “Mi ripeta cosa sa di Cory Ogden.”
Lui le sorride. Gli piace davvero, questa Stone. Peccato che non gli abbia detto il suo nome.
Con tutta la calma di cui è capace, comincia a raccontarle ciò che gli ha chiesto. In fondo, il giovane Cory Ogden non è un soggetto complicato. Lui lo ha inquadrato subito, appena il ragazzo ha affittato quell’appartamento sopra il suo.
Mentre lascia che le sue labbra si muovano per conto loro, seguendo il filo del discorso, un remoto angolo della sua mente comincia a studiare la donna che gli siede davanti.
Deve essere una stacanovista, o non sarebbe mai riuscita a diventare Detectivecosì giovane. La sua presenza nello stato di New York è interessante, soprattutto se si pensa al distintivo californiano che si porta appresso.
E deve avere un passato militare. Non sono molte le donne in grado di tenere la schiena così diritta e le spalle perfettamente in squadra, anche tra la polizia.
“Esercito?” Le chiede a bruciapelo. Stone gli rivolge un sorriso storto, come se si aspettasse quella domanda.
“No. Marines.”
Ecco spiegato l’arcano. Spostando il bicchiere ormai vuoto, si sporge leggermente verso di lei con fare cospiratorio.
“È un peccato. Saremmo potuti essere commilitoni.” Le dice piano. “Cosa ha spinto una bella donna come lei ad entrare nel Corpo di quelle teste calde?”
Ecco quello che voleva vedere. Le labbra della Stone si schiudono in un sorriso pericoloso, bello e terribile come quello di un grosso predatore che ha avvistato la sua preda.
“Beh, Capitano, sa come si dice…’Esercito e Marina non facevano per me/e l’Aereonautica era troppo facile’…” Risponde lei, citando una delle cadenze di marcia del suo Corpo.
“Così dicono.” Lui si sporge in avanti fino ad appoggiarsi con i gomiti al tavolo e le fa l’occhiolino. “A quanto pare, lei è una donna dai molti talenti, Agente.”
“Detective.”
“Fa lo stesso.”
La Stone arriccia il naso, cercando di trattenere un altro sorriso. Potrebbe anche amarla, una donna del genere.
“Bene, Capitano, temo di avere finito con lei.” Stone lancia un’occhiata all’orologio che porta al polso, quindi scruta con apprensione il cielo grigio fuori dal locale.
Lui si volta sulla sedia, seguendo il suo sguardo. I primi fiocchi di neve della serata danzano leggeri verso terra, sciogliendosi a contatto con l’asfalto.
Quando torna a guardare la Stone la trova già in piedi, intenta ad avvolgersi una voluminosa sciarpa attorno al collo. Decisamente, a Los Angeles non è ancora arrivato l’inverno.
Senza pensarci due volte, lui scatta in piedi, le prende il giubbotto imbottito e lo tiene galantemente aperto, in modo che lei possa infilarselo.
“Cosa dovrei fare, se volessi parlare di nuovo con lei, Detective?”
La Stone gli toglie il giubbotto di mano e se lo infila con gesti secchi e decisi.
“Chiami in centrale e lasci un messaggio per la divisione che si sta occupando del caso Ogden. Qualcuno la richiamerà.”
“Capisco.” Lui afferra la propria giacca e se la getta con noncuranza sul braccio, estraendo il portafoglio. “Ma se io volessi parlare con lei in via… diciamo privata? Sa, magari in un bel ristorante, davanti ad una bottiglia di vino…” Aggiunge, con voce vellutata.
La Stone gli rivolge un’occhiata indagatrice. Ha le mani affondate nelle tasche, ed il bordo dorato del distintivo fa capolino da sotto il giubbotto, appeso al passante dei Jeans.
“Mi sta invitando a cena, Capitano?”
“A cena, a pranzo, a qualunque cosa lei preferisca, Detective.” Lui appoggia la mano sul tavolo, lasciando una generosa mancia alla cameriera. “Allora, cosa ne dice?”
Lei gli rivolge un piccolo sorriso furbo. “Chiami in centrale. Qualcuno della divisione le risponderà.” Risponde, sibillina.
Insieme si dirigono verso l’uscita, e lui si affretta a tenerle aperta la porta. Ufficiale e gentiluomo. Chi è Richard Gere, in suo confronto?
“Dunque, è un sì o un no?” Le chiede, una volta all’esterno. La neve continua a cadere dolcemente, imperlando i loro capelli di piccoli cristalli liquidi.
“Non credo che sia il caso.” La Stone si volta a fronteggiarlo a testa alta, con un leggero sorriso. “Buona serata, Capitano.”
Gira i tacchi e fa per allontanarsi, ma lui non può lasciarla andare. La chiama, muovendo qualche passo verso di lei.
“Posso accompagnarla alla macchina?” Le chiede, galantemente. Qualunque cosa, purché lei gli conceda ancora qualche minuto.
“Lei è sempre così insistente, Capitano?”
“Solo con le donne che mi piacciono.” La fissa negli occhi, e lei ricambia il suo sguardo. Dal modo in cui inclina la testa, capisce che lo sta studiando, non più come un possibile testimone, ma come l’uomo che è.
“Se continua di questo passo, Capitano, mi costringerà a spararle.” La voce della Stone è un ronfare ammaliante, simile alle fusa di un gatto. Lo sta sfidando a farsi avanti.
Con la giacca ancora appesa al braccio, lui le rivolge il sorriso più affascinante del suo repertorio. Sanno entrambi come potrebbe finire la serata, ma lui si è sempre divertito a cambiare le carte in tavola, specialmente quando sa di aver vinto al gioco.
“Allora la lascerò andare, Detective. Ma non prima di aver saputo il suo nome.”
La Stone solleva un sopracciglio scuro. È chiaro che non si aspettava questa sua mossa.
“Mi pareva di averglielo già detto. Mi chiamo Stone.”
“Non si usa dare nomi propri, in Georgia, Miss Stone?”
Lei stringe gli occhi. Glielo ha visto fare spesso, nel corso della serata.
Un piccolo fiocco di neve le si impiglia tra le ciglia, costringendola a sbattere le palpebre per allontanarlo.
“Elizabeth.” Dice, all’improvviso. “Mi chiamo Elizabeth.”
Uno strano senso di calore gli si diffonde nel petto. Elizabeth. Liz. Gli piace.
“È un piacere, Elizabeth. Io sono…”
“So chi è lei.” Lo interrompe Liz Stone, con un sorriso adorabile. “Buonanotte, Caporale.”
“Capitano.”
“Fa lo stesso.”
Lei gli fa l’occhiolino, e lui scoppia a ridere.
Sì, potrebbe davvero amarla, una donna del genere…


“Ehi, dico, Mi stai ascoltando?”
Gli occhi porcini di Colin Mallory lo fissarono con improvvisa durezza. Alle spalle dell’avvocato, due robuste guardie si annoiavano con le braccia incrociate al petto.
“Mi dispiace, Colin. Stavo pensando.” Lui gli rivolse un sorriso di scusa. Si trovavano nella minuscola cucina del suo appartamento di Harlem, ed il tavolo era così ingombro di carte e cianfrusaglie legali che quasi non si vedeva più il ripiano di legno.
Il largo volto di Mallory si riempì di piccole macchie rosse, mentre sollevava le braccia al cielo, borbottando tra sé.
“Io gli parlo, e lui pensa. Cristo!”
L’uomo a cui era rivolta la sfuriata sorrise tranquillamente e voltò il capo verso la finestra. Non gli importava mai molto di quello che diceva Colin.
“Stavo pensando… Chissà se il Clover Club esiste ancora.” Con calma olimpica, lui spostò gli occhi sull’avvocato furente. “Ci sei mai stato? È un bel bar della zona di Brooklyn…”
Non mi interessa.” Tagliò corto Mallory. “È stata ritrovata una terza ragazza uccisa. Ti rendi conto di cosa significa?”
“Me ne rendo conto.” Lui sospirò e si alzò, diretto all’armadietto sopra il lavandino. “Gradisci qualcosa da bere, Colin?...”
“Non cambiare discorso.”
“…Bestioni? Voi volete qualcosa?” Le due guardie gli rivolsero un’occhiata bruciante, carica di disprezzo. “Niente? Meglio così.” E preso un bicchiere, lo infilò sotto il rubinetto dell’acqua.
Alle sue spalle, Colin Mallory aveva ripreso a blaterare, ma lui non lo ascoltava.
Sorseggiando l’acqua nel suo bicchiere, era tornato ad un preciso istante della sua vita, quando la sua Liz era ancora una sconosciuta che lo interrogava in un bar, in una fredda serata di novembre.
Un sorriso trasognato gli si aprì sulle labbra. Quella volta, Liz portava un giubbotto imbottito ed una voluminosa sciarpa rossa, a pois neri.
La sua coccinella.





Liz era seduta alla scrivania del suo ufficio, immersa nella lettura di alcune carte, quando un botto fragoroso contro la portafinestra la fece sobbalzare.
Alzandosi con la pistola in pugno, la detective si avvicinò alla vetrata scorrevole che dava sul minuscolo balcone e spostò con un gesto secco le tendine avvolgibili di plastica bianca.
“Sei troppo nervosa, ragazza mia.” Borbottò, quando vide cosa aveva provocato quel rumore.
Una larga foglia secca di palma frusciava contro il vetro, spinta dal Santa Ana. In quei giorni, il vento del deserto era tornato a soffiare su Los Angeles, caldo, secco e bruciante come un assaggio d’inferno, sollevando nuvole di sabbia rossa nel cielo della città.
Con un sospiro, Liz infilò la sua Colt Python nella fondina sotto il braccio sinistro e tornò alla scrivania.
Era un brutto periodo, per un’investigatrice privata giovane e scalpitante come lei. La gente non tradiva, mentiva, spacciava ed ingannava più come una volta, così lei si ritrovava con poco lavoro ed un sacco di tempo libero.
Troppo tempo libero.
Lasciandosi cadere sulla sedia da ufficio, la giovane donna tornò ad occuparsi dei fascicoli che ingombravano la sua scrivania. Aveva bisogno di tenere la mente impegnata. Se solo si fosse concessa un minuto per pensare, i suoi pensieri sarebbero corsi verso quei ricordi che da quattro anni cercava di seppellire.
Avrebbe potuto accendere la radio o il televisore, per distrarsi, ma non voleva rischiare di incappare in qualche telegiornale. Solo una settimana prima, a New York era stata trovata morta una terza ragazza, questa volta al Dewitt Clinton Park, nella zona di Hell’s Kitchen.
Liz non voleva correre il rischio di vedere, ancora una volta, una sua foto, o di risentire il suo nome. Voleva dimenticarlo, cancellarlo dalla sua vita come se non fosse mai esistito.
Per quanto l’avesse amato.
Per quanto lui l’avesse ferita, nel corpo e nell’anima.
Al diavolo, così non sarebbe mai riuscita a toglierselo dalla testa.
Allungando un braccio sotto la scrivania, Liz estrasse una lattina di birra dal mini frigo. Era la terza, quella mattina, e non erano ancora le dieci. Forse avrebbe dovuto darsi una calmata. Forse.
“D’accordo, questa e poi basta.” Mormorò, strappando la linguetta di metallo e lanciandola nel cestino della carta.
La birra era meravigliosamente gelata, proprio ciò di cui aveva bisogno in una giornata calda come quella.
Mentre sorseggiava il liquido ambrato, si chiese distrattamente come doveva stare il suo gatto. Gli aveva lasciato due ciotole d’acqua, prima di uscire di casa, ma non era certa che fossero sufficienti. Quando soffia il Santa Ana, i gatti hanno bisogno di più acqua.
“L’ultima.” Sospirò, appoggiando la lattina vuota sulla scrivania, davanti a sé. Lì accanto, sotto lo schermo del computer, c’era una piccola collezione di pupazzetti di gomma che le erano stai regalati dai suoi nipoti: tre paperini, un tripudio di puffi, una mezza dozzina di barbapapà ed una Dora l’Esploratrice.
Appoggiandosi all’indietro contro lo schienale, Liz tornò a rivolgere la propria attenzione alle carte sparse sulla scrivania.
Si trattava dei fascicoli dei suoi ultimi casi. Ecco laggiù la cartelletta della signora Smith. Gli incartamenti di Charmicheal. Il fascicolo di Chandler... quello era stato un caso piuttosto ostico, prima che lo prendessero in consegna le forze di polizia; sembrava passato solo qualche giorno, da quella sera in cui era tornata a casa con lo zigomo gonfio come una palla da football, ed invece erano trascorsi già sei mesi.
Sei mesi.
Un piccolo brivido le corse lungo la spina dorsale.
Lui era fuori da sei mesi e due settimane. Chiunque fosse il suo attuale avvocato, era riuscito a trasformare l’accusa di tentato omicidio in una semplice aggressione domestica. Ora si trovava agli arresti domiciliari nel suo appartamento di Harlem.
A poca distanza dai luoghi degli omicidi.” Pensò, e subito scosse la testa. Non doveva più pensarci.
Il telefono squillò all’improvviso, e Liz sobbalzò. Negli ultimi tempi – negli ultimi sei mesi – aveva ricevuto un’infinità di chiamate a vuoto, che le intasavano la segreteria telefonica sia a casa che in ufficio.
Ogni volta che sollevava la cornetta o schiacciava il pulsante per ascoltare i messaggi, non poteva evitare di pensare cosa avrebbe fatto se, all’improvviso, avesse sentito la sua voce.
Il telefono dette i tre, canonici squilli, prima che subentrasse la segreteria.
Agenzia investigativa Stone. Lasciate un messaggio.”
Liz ascoltò il bip dell’apparecchio con il fiato in gola.
E se fosse stato lui?
Una mano le corse inconsciamente al collo, in un gesto protettivo.
Ti prego, fa che non sia lui.” Pensò.
Dall’altro lato del telefono giunse lo scatto dell’apparecchio che prendeva la linea.
Si udì un sospiro stanco, poi una voce maschile, bassa e roca.
“Ehi, Dolcezza. Sei lì?”
Fu come se un enorme peso le fosse stato tolto dalle spalle.
Liz dette un sospiro di sollievo e sollevò la cornetta, con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro.
“Ciao Roy. Non sai quanto sono felice di sentirti.”
“Merda.” Roy non era mai stato un gentiluomo. “Finiscila di fare la preziosa con quella segreteria del cazzo e muovi il culo. Ho del lavoro per te.”
Roy le sbatté il telefono in faccia, ma a Liz non importava.
Con il cuore leggero si alzò dalla sedia, sistemò le cinghie della fondina ascellare e fece l’occhiolino ai suoi pupazzetti.
“A dopo, ragazzi. Il lavoro chiama.”
Infilò la porta più veloce che poté, raggiunse il parcheggio sotto il palazzo e saltò letteralmente sui candidi sedili della sua mastodontica auto.
“Largo, largo, largo!” Strillò, strombazzando, mentre si immetteva nel traffico.
Il Santa Ana continuava a soffiare, caricando di elettricità nervosa gli abitanti della città degli angeli. Liz sorrise. Era dell’umore giusto per una bella litigata.
Pigiando il piede sull’acceleratore, bruciò un semaforo rosso, suscitando l’ira e gli insulti degli altri automobilisti. Era bello essere a Los Angeles.
Era bello essere vivi.










Buon martedìa tutti quanti! Come avrete notato, per questa volta ho preferito invertire le parti, mettendo “Lui” e i suoi flashback nel primo paragrafo, anziché rilegarlo, come al solito, all’ultimo. Questo capitolo mi è costato un mezzo infarto ogni volta che ho dovuto scrivere una parolaccia, per cui spero che apprezziate lo sforzo (e no, non potevo ometterle. Fanno parte del personaggio).
Per chi se lo chiedesse, le canzoni citate sono "Dixie", una sorta di inno Sudista della guerra civile americana, ed una cadenza di marcia che ho dovuto tradurre alla buona dall'inglese all'italiano (e come sempre in questi casi, con un risultato abbastanza scadente, poiché la versione originale recitava: "A army, Navy was not for me/ Air force was just too easy").
Infine, una piccola chicca: il Clover Club esiste davvero, e si trova realmente a Brooklyn. Infatti, tutte le mie ambientazioni sono luoghi reali e tangibilissimi.
 
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view post Posted on 24/9/2013, 14:28
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Ma guarda, un aggiornamento della mia storia preferita ovviamente dopo la mia, perchè io sono più bello! :D

Sì, non nego che mi piace di più questa dell'altra tua storia, assai :sisi: per cui se hai tempo e voglia continua a postare ogni tanto, bel lavoro! :D
 
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Lady Iris
view post Posted on 24/9/2013, 14:39




bel capitolo, cara, soprattutto il flashback dal punto di vista di lui, personaggio misterioso che sto adorando sempre di più ad ogni capitolo: intrigante, misterioso, bello e crudele.
E psicopatico.
Particolarmente psicopatico.
E cavolo, il riferimento alla coccinella mi fa sempre rabbrividire. Aggiorna presto con un altro capitolo, io sarò qui a leggere e sperare in altri flashback e futuri incontri su Liz e Il pazzo xD
 
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Iselin
view post Posted on 24/9/2013, 14:49




Ma... ma come? E pensare che l'altra storia ha una trama tutta arzigogolata, mentre questa è di una semplicità che mi prenderei a pesci in faccia da sola! Sapevo io che meno mi impegno, meglio è :asd:
Grazie per l'apprezzamento, davvero, e spero che la storia possa continuare a piacerti :)
 
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view post Posted on 24/9/2013, 18:59
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CITAZIONE (Iselin @ 24/9/2013, 15:49) 
Ma... ma come? E pensare che l'altra storia ha una trama tutta arzigogolata, mentre questa è di una semplicità che mi prenderei a pesci in faccia da sola! Sapevo io che meno mi impegno, meglio è :asd:
Grazie per l'apprezzamento, davvero, e spero che la storia possa continuare a piacerti :)

Sarà quel che vuoi, ma a me Skyrim (il gioco, non la regione) fa emeritamente cagare, trama, personaggi, più o meno tutto, e per quanto uno sia bravo a scrivere, se c'è dentro quello la storia per me perde punti, mi spiace. Questa mi prende molto di più :sisi:
 
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view post Posted on 6/11/2013, 13:28

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Tutto fermo?
 
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Iselin
view post Posted on 6/11/2013, 15:18




No, i capitoli li ho pronti, è che ogni volta mi scordo di aggiornare :prafo:

Bravo Trinnal, che me lo hai ricordato! :D

5. Practice

Un’ora dopo, Liz parcheggiò davanti ad un palazzone di cemento nella zona di East Los Angeles. Chiudendo la portiera della macchina, notò un ragazzino ispanico che guardava la sua Chevy con occhi grandi come piattini. Non doveva avere più di dodici anni.
“È tua, la macchina?” Le chiese quello, cercando di fare il duro. Aveva un berretto bianco con la visiera sulla nuca, e pantaloni così larghi che dovevano appartenere a qualcuno con almeno tre taglie in più.
Liz annuì, facendogli l’occhiolino.
“È una figata!” Esclamò il ragazzino, prima di saltare sul suo skateboard ed allontanarsi lungo la strada. Giovani d’oggi.
Con un mezzo sospiro, la detective si voltò verso il palazzo. Accanto ai citofoni campeggiava la vecchia targa sbiadita dell’ Agenzia Investigativa Crimmens.
Nel vederla, Liz sorrise. Roy Crimmens era uno dei più geniali investigatori privati sulla piazza. Bazzicava da sempre il Parker Center, il quartier generale della polizia di Los Angeles, ed era noto per essere tanto scaltro quanto intrattabile.
A Roy non piaceva avere novellini ed apprendisti tra i piedi, ed anni prima Liz aveva dovuto lottare con le unghie e con i denti perché lui accettasse di prenderla come praticante, aiutandola a conseguire la licenza.
Non era stato facile trattare con quel coriaceo investigatore della vecchia scuola, ma alla fine era riuscita a conquistare la sua fiducia e, cosa ancora più rara, la sua stima.
Sistemandosi la camicia in modo che coprisse la pistola, Liz Stone spinse la porta a vetri dell’ingesso ed entrò nell’atrio del palazzo.
Appena fu dentro venne colpita da una terribile puzza di cavolo, segno che la vecchia cecoslovacca del terzo piano era ancora in vita. O forse no, e quello era l’odore del suo corpo che si decomponeva con il caldo. O forse era solo meglio non pensarci.
Liz giunse in apnea al secondo pianerottolo, si fermò davanti ad un’anonima porta di legno e bussò.
“Avanti!” Urlò una voce roca da dietro il battente.
La detective entrò prendendo un gran respiro, e subito se ne pentì. All’interno dell’ufficio, l’aria era satura del tanfo di un mezzo milione di sigari.
“Quante storie, per un po’ di fumo.” Gracchiò Roy Crimmens da dietro la scrivania, vedendola piegarsi in due e tossire come se dovesse espellere un polmone “Se ti dà fastidio, apri la finestra. E cerca di non fare entrare i piccioni. Quei bastardi mi hanno cagato sul divano.”
Tossendo e cercando di non morire, Liz si avvicinò alla finestra in fondo all’ufficio e la spalancò.
“Ti ammazzerai con tutto questo fumo, Roy.” Commentò, una volta che riuscì a prendere una boccata d’aria.
“Stronzate.” Roy Crimmens si rilassò contro lo schienale della sedia e ripose la pistola in un cassetto. Lui non si scomodava mai ad aprire la porta, ma chiunque si fosse azzardato ad entrare nel suo ufficio, avrebbe fatto bene a non avere cattive intenzioni. Roy attendeva gli ospiti con una semiautomatica in pugno.
Quando fu sicura di aver degassificato la stanza, Liz chiuse la finestra e si sedette davanti al suo vecchio mentore, dall’altra parte della scrivania.
“Al telefono hai detto di avere del lavoro per me.” Cominciò, accavallando le gambe come un uomo, con la caviglia appoggiata al ginocchio.
Roy si raschiò la gola, producendo un terribile rumore catarroso. Era un uomo tarchiato, robusto e non molto alto , che alla giovane aveva sempre ricordato un mastino. Quella mattina vestiva con pantaloni cachi, bretelle e camicia bianca con le maniche arrotolate, come ogni altro giorno della sua vita. Quando faceva particolarmente freddo, aggiungeva una vecchia giacca sformata ed un largo cappello floscio, con buona pace dello stile.
Roy Crimmens beveva whiskey, fumava sigari e bestemmiava a tutto spiano. Era il classico investigatore privato da romanzo giallo, salvo che lui era reale, ed aveva un pessimo carattere.
Come lui, anche il suo ufficio rispecchiava la stessa immagine trasandata e pittoresca. Consisteva in un’unica stanza, ingombra di polvere e pile di vecchi fascicoli e di quotidiani ingialliti, con un divano per i clienti in attesa addossato al muro vicino alla porta e schedari metallici in ogni dove.
La scrivania di Roy si ergeva in mezzo a quella confusione come il relitto di una nave dopo la tempesta. Sul ripiano, in mezzo ad un tripudio di carte che dovevano essere lì da una vita, l’uomo teneva un vecchio telefono a disco, una macchina da scrivere, una scatola di legno piena zeppa di cubani ed un grosso posacenere, ripieno di mozziconi di sigaro.
In un angolo, quasi nascosto dagli schedari, era stato sistemato un minuscolo tavolino rotondo, con una sedia in legno. Roy lo chiamava “L’angolo del Pivello”, e vi relegava tutti gli aspiranti investigatori che avevano la faccia tosta di andare da lui a fare la gavetta per la licenza. Al momento, sul ripiano scheggiato del tavolo, riposava un computer portatile di ultima generazione.
“Hai preso un altro apprendista?” Chiese la giovane detective, facendo un cenno con la testa.
“Un idiota.” Sbottò Roy, con un grugnito. “I pivelli di oggi sono delle checche. Tu sì, che avevi le palle. Anche se sei una donna.”
“Uhm… Grazie. Credo.” Liz sollevò un sopracciglio e fissò il suo vecchio mentore. “Allora? Quel caso?”
“Persona scomparsa.” Roy si piegò di lato senza alzarsi dalla sedia ed estrasse un fascicolo dal cassetto dello schedario. “Femmina, bianca, sulla ventina.”
Liz Stone prese il fascicolo dalle mani del vecchio investigatore e cominciò a sfogliarlo.
Non conteneva un granché, a dire la verità. Solo un paio di pagine, che avevano tutta l’aria di essere le fotocopie del rapporto di chiusura del caso stilate da un agente del dipartimento di Hollywood, e la foto della ragazza scomparsa, fissata al fascicolo con una graffetta.
“Trudy Gilbert.” Mormorò Liz, fissando l’immagine della ragazza. Trudy era una giovane donna dal viso rotondo, la bocca a cuore ed un caschetto di capelli decolorati, bianchi e dalle punte viola.
“Il caso è chiuso, ma la famiglia vuole vederci chiaro.” Roy prese un sigaro dalla scatola sulla scrivania, staccò l’estremità con un morso e la sputò nel cestino della carta straccia. “Non me ne frega se è morta, se fa la puttana sulla Ocean Avenue o se l’hanno rapita gli alieni. Trovala, e ti becchi la solita quota.”
Liz annuì, chiudendo la copertina del fascicolo sul visino tondo di Trudy Gilbert. Per quella collaborazione, Roy le avrebbe pagato il venti per cento. Non molto, certo, ma era sempre meglio di niente.
“Cosa sappiamo della ragazza?”
Dall’altro lato della scrivania, Roy Crimmens si accese il sigaro e soffiò un pennacchio di fumo verso il soffitto.
“Un cazzo di niente. La polizia se ne è sbattuta. Lavoraci su, e vedi cosa riesci a trovare.”
“D’accordo.” Liz si alzò, cercando di non farsi intossicare dalle nubi tossiche del sigaro. “Ora vado. Se scopro qualcosa, te lo farò sapere.”
Per tutta risposta, Roy sbuffò verso di lei un’altra nuvola di fumo, facendola fuggire sulle scale. In fondo, l’odore di cavolo stufato non era poi così male.
Una volta tornata in strada con il fascicolo sottobraccio, Liz scrutò la sua macchina con occhio critico. Per fortuna nessuno le aveva rigato la carrozzeria o squarciato i sedili. Poteva succedere anche quello, in alcuni quartieri di Los Angeles.
Mettendosi al volante, lanciò il misero fascicoletto sul sedile accanto a sé ed accese la radio.
Il Santa Ana continuava a soffiare, caldo e crudele, spingendo lo smog verso il mare.
Lingue di vento infuocato lambirono il viso di Liz Stone, che inalò una boccata d’aria rovente.
Sotto il cielo di un azzurro feroce, la città pareva sul punto di andare in fiamme.
Los Angeles non è mai così bella come quando brucia.




La ragazza non smetteva di agitarsi. Il sangue le colava dal taglio sullo zigomo, rigandole la guancia con lacrime color rubino.
“Posso chiederti di stare ferma? Solo un minuto, non ci metterò molto.” La voce dell’uomo era pigra ed indolente, al contrario dei suoi occhi svegli ed attenti.
Rigirandosi un coltello tra le dita, lui si chinò sulla giovane donna legata ed imbavagliata che si contorceva a terra.
“Parlo sul serio.” Le disse dolcemente. “Se continui ad agitarti, rischio di sbagliare a tagliare.”
La ragazza lanciò uno strillo attraverso il bavaglio che le segava gli angoli della bocca e spalancò gli occhi.
Lui si accucciò sui talloni accanto alla sua preda, sollevando il coltello perché lo vedesse. Si trattava di una di quelle lame scure, con una piccola parte dentellata accanto all’impugnatura, che venivano solitamente date in dotazione ai militari. A quella vista, la ragazza prigioniera emise un secondo urlo soffocato.
“Bello, vero?” Mormorò lui, fissando il coltello con aria compiaciuta. “Una volta ero piuttosto bravo, con questi affari. Ho imparato ad usarli grazie ad un certo Maggiore Hill. Lui era un vero mago… finché non ho scoperto che si prendeva un po’ troppe libertà con alcuni cadetti… eh, già.”
Lui sospirò, cambiò posizione appoggiando un ginocchio in terra e scostò il colletto della camicia della ragazza con un colpo secco, esponendole l’incavo del collo.
“Ferma.” Le intimò di nuovo, abbassando la punta del coltello finché non le sfiorò la carne. A quel contatto la giovane impietrì, terrorizzata. “Sono stato fuori dal giro per qualche tempo, e sono un po’ arrugginito. Se stai ferma, sarà più facile per entrambi.”
La ragazza prese un respiro tremante e cominciò a piangere. Lacrime salate le corsero sul viso, mischiandosi al sangue che le imbrattava una guancia.
“Sst, sst.” La zittì lui, asciugandole gli occhi. “Tranquilla. Non è poi così brutto.”
Per tutta risposta, la ragazza singhiozzò più forte. Gli dispiaceva vederla soffrire così, ma lo irritava ancora di più sapere che lei non capiva come tutto quello fosse necessario.
“Non ci vorrà molto.” Le promise per l’ultima volta, e sollevato il coltello, lo affondò nella gola della sua vittima.
Ripeté l’operazione più volte, tratteggiando nella carne della ragazza un segno semicircolare con la precisione che lo aveva sempre contraddistinto. Non si curava degli spasmi di dolore che agitavano la giovane, né del sangue che sgorgava dalle ferite come un fiume in piena.
A lavoro finito, si fermò ad osservare lo scempio che aveva creato.
Il collo della ragazza era meravigliosamente squarciato, lacerato in più punti dalla lama seghettata alla base del coltello. Portandosi la lama all’altezza del viso, leccò via il sangue, sovrappensiero.
Era un buon lavoro, ma ben lontano dal risultato che voleva ottenere. Avrebbe dovuto fare ancora un po’ di pratica. Se c’era qualcosa che aveva imparato nell’esercito, era che l’esercizio porta alla perfezione.
Sollevandosi con un sospiro, si avvicinò ad una borsa da palestra che aveva appoggiato in un angolo. Si trovava nello scantinato di una palazzina abbandonata; con un po’ di fortuna, il cadavere della ragazza sarebbe passato inosservato ancora per qualche tempo.
Con gesti calmi e misurati, estrasse dalla borsa un numero considerevole di buste di plastica , disponendole davanti a sé. Stando bene attento a non sporcarsi più del dovuto, si spogliò rapidamente, sigillando separatamente all’interno delle buste gli abiti ed il coltello sporchi di sangue.
Si sarebbe liberato dei vestiti alla prima occasione, mentre avrebbe tenuto a mollo il suo Ka-bar nella candeggina, pulendolo infine con la benzina per eliminare tutte le possibili tracce di DNA.
Inclinando la testa di lato, fece scrocchiare i muscoli anchilosati del collo. Moriva dalla voglia di sgranchirsi le membra con un po’ di sana ginnastica, ma aveva un appuntamento con quell’idiota del suo psichiatra, ed i bestioni che lo scortavano non sarebbero stati affatto contenti se al loro arrivo avessero trovato un appartamento vuoto.
Così si rivestì con abiti puliti e freschi, riempì la borsa con i sacchi di plastica incriminanti e lasciò lo scantinato.
In strada, celato da un berretto e da un paio d occhiali da sole, si confuse con sicurezza in mezzo agli altri passanti.
Mentre osservava uomini e donne camminargli al fianco, sorrise soddisfatto.
Nell’indifferenza generale, lui era libero.
Invisibile.
Pericoloso.






Eccomi, in ritardo ritardissimo, ma ci sono.
È un capitolo decisamente più corto del precedente, ma spero che vi piaccia ugualmente.
Il personaggio di Roy è un po’ romanzesco, lo so, ma fa parte della vita di Liz, e non potevo non inserirlo, nonostante il suo continuo sproloquio.
Come sempre, se ho fatto qualche erroraccio, segnalatemelo :)
 
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view post Posted on 6/11/2013, 16:16

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Ecco, ora va meglio...potresti mettere questo fisso al mercoledì o al giovedì, in modo da avere due pubblicazioni settimanali...
 
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Iselin
view post Posted on 19/4/2014, 18:20




6. Just a man in love

Tic toc.
L’orologio a forma di gatto appeso al muro batteva l’ora, indifferente.
Tic toc.
La coda di plastica nera dondolava da un lato all’altro, mentre i suoi occhioni scrutavano a destra e a sinistra con aria furba.
Tic toc.
Le undici del mattino.
“Al diavolo!”
Liz Stone premette il tasto rosso sulla cornetta del telefono e la lasciò cadere sul ripiano della scrivania con un gesto di stizza.
La sera prima si era studiata ben bene il misero resoconto della scomparsa di Trudy Gilbert, e quella mattina era arrivata in ufficio con un elenco mentale di telefonate da fare, prima di cominciare la ricerca sul campo.
Sperava di riuscire a contattare lo zio di Trudy – apparentemente, l’unico parente a cui importasse qualcosa della ragazza – ma il telefono aveva squillato a vuoto per tutta la mattinata. All’ultimo tentativo, Liz aveva lasciato un messaggio in segreteria, spiegando chi fosse e pregando il signor Gilbert di richiamarla il prima possibile.
Stesso esito, se non peggiore, per le telefonate fatte al dipartimento di Hollywood.
Il nome dell’agente che si era occupato del caso era uno scarabocchio illeggibile, e dall’altro lato della cornetta un idiota in divisa aveva ignorato bellamente tutte le sue richieste, subissandola di domande – Lei è davvero quella Stone? Quella del Divoratore di Brooklyn? È vero che ha cercato di ucciderla a morsi? – Incapace di reggere oltre, Liz aveva riattaccato. Aveva richiamato altre due volte a distanza di dieci minuti, ma l’operatore era sempre lo stesso, e le domande pure. Probabilmente non era un uomo, ma un disco registrato.
Con un sospiro allungò il braccio verso il mini frigo in un gesto automatico, estrasse una birra e la tracannò senza quasi sentirne il sapore. Lanciò un’occhiata all’orologio-gatto sulla parete e sospirò esasperata.
D’accordo, ancora un’ultima telefonata. Poteva farcela.
Liz digitò un numero a memoria e rimase in attesa, con la cornetta premuta contro l’orecchio.
“Stone.” Rispose una donna dal tono autoritario.
“Che brutta voce. Giornata storta, Connie?” Liz ruotò la lattina di birra ormai vuota, godendosi lo sbuffo irritato della sorella maggiore. In sottofondo si sentiva un chiacchiericcio interrotto di tanto in tanto dal rumore di sirene e da una voce che impartiva ordini a destra e a manca.
“Non ho tempo adesso, Liz. Sono sulla scena di un crimine. Puoi richiamarmi più tardi?”
“Solo un minuto Con. Ho bisogno di un favore.”
Le voci sfumarono, segno che Connie si era spostata in un posto più tranquillo.
“D’accordo. Cosa ti serve?” Chiese stancamente.
“Devo sapere se c’è una Jane Doe in qualche obitorio della città.” Jane – o Jhon – Doe era il nome che veniva dato ai corpi ancora non identificati.
“Liz… “
“diciannove anni, bianca, alta un metro e sessanta. Capelli bianchi corti, con le punte viola.”
“Non posso andare in giro a ficcare il naso negli obitori degli altri dipartimenti!” Protestò Connie, a bassa voce. Liz roteò gli occhi, prese una seconda lattina di birra e l’aprì.
“Sciocchezze. Sei un Capo, puoi fare quello che vuoi.”
“Sono un Vice Capo. Io non… Stai bevendo?”
Liz ingollò un sorso di birra e si asciugò la bocca sul dorso della mano.
“No.” Mentì prontamente. “Avanti, Con. Ti tengo le bambine per il fine settimana.”
Un sospiro stanco. Una voce in sottofondo cominciò a chiamare Constance Stone con una certa urgenza.
“Sì, sì, un momento…” Strillò lei, senza curarsi di allontanare il telefono dalla bocca. Poi tornò a rivolgersi alla sorella. “D’accordo, allora. Farò qualche telefonata, ma non ti assicuro niente. Ti porto Shirley e Kelly sabato mattina.”
“Andata. Sei la migliore, Connie.”
Connie Stone bofonchiò qualcosa sulle competenze distrettuali che non poteva violare e riattaccò con malagrazia. La cosa non le piaceva, ma sarebbe andata fino in fondo con dovizia minuziosa, controllando tutti gli obitori della città, da San Pedro fino a Sylmar.
Se c’era una cosa su cui Liz Stone poteva contare, era l’appoggio e l’aiuto indiscusso dei suoi fratelli e sorelle.
Soddisfatta, la detective si alzò dalla sedia. Nelle vicinanze dell’ufficio c’era una bella tavola calda, che faceva dei panini al tacchino assolutamente spettacolari; ne avrebbe preso uno subito, saltando così la coda chilometrica che si formava a mezzogiorno, e si sarebbe diretta a casa dello zio di Trudy Gilbert. Anche se non rispondeva, non significava che non fosse a casa.
Così prese le chiavi della macchina, si infilò la solita, larga camiciola ed inforcò gli occhiali da sole.
Era sulla porta quando il suo cellulare cominciò a squillare. Sollevandolo, vide il nome di Roy lampeggiare sullo schermo. Girò la maniglia, premette il tasto verde del telefono e, portandoselo all’orecchio, aprì la porta.
Andando quasi a sbattere contro uno sconosciuto che stazionava davanti all’uscio.
“È già arrivato?” Le abbaiò Roy nelle orecchie, ma Liz lo sentì come se provenisse da una grande distanza. Era troppo impegnata ad osservare quello strano tizio che le era sbucato davanti, per dargli retta. Lo sconosciuto aveva una zazzera di capelli scuri e grandi occhi spalancati dalla sorpresa, che la fissavano da dietro le lenti degli occhiali da vista.
“Pronto? Pronto?” Strillava Roy. “E che cazzo, mi senti?”
“Mi spiace. Chiedo scusa.” Continuava a balbettare l’uomo nel corridoio, senza spostarsi di un millimetro.
“Chi sei? Cosa ci facevi davanti al mio ufficio?” Gli chiese lei a bruciapelo. Quello cominciò a farfugliare una sequela di assurdità, tra cui all’improvviso spiccarono le parole “scomparsa” e “Signor Crimmens”, al che Liz si ricordò di avere Roy al telefono.
“Pronto, Roy.”
“Cazzo, era ora!” esordì il suo vecchio mentore, raffinato come sempre. “È già arrivato?”
“Ehm… chi?”
“Il mio Pivello. È già lì? Giuro che se è in ritardo gli sparo appena lo vedo.” Ringhiò Roy. Quel giorno sembrava più sereno del solito. Probabilmente era riuscito a trucidare un piccione.
Liz Stone alzò lo sguardo sull’uomo che era rimasto a ciondolare in attesa, in mezzo al corridoio.
“Alto, magro e con gli occhiali?” Chiese.
“Hai dimenticato la faccia da idiota. Comunque sì, è lui.” Si udì un terribile rumore catarroso, seguito da un’imprecazione così colorita che avrebbe fatto arrossire anche un ragazzo del ghetto. “Te lo presto per questo caso. Usalo come preferisci: mandalo a fare domande, fagli pulire la macchina o mettilo in un angolo a prendere muffa. Basta che me lo tieni fuori dai piedi.”
“D’accordo. Perché?”
Il Pivello di Roy osservò la detective con aria interrogativa. Doveva aver indovinato che stavano parlando di lui.
Liz ricambiò il suo sguardo e gli sorrise. Sembrava sveglio. Tutto sommato, forse le sarebbe tornato utile.
“Perché rivoglio il mio ufficio per me, senza un altro scassapalle salutista che si lamenta dei miei sigari. E sia chiaro, quanto bevo è affar mio.” Sbottò Roy dall’altro capo del telefono. Evidentemente il Pivello aveva toccato un nervo scoperto.
Sospirando, Liz salutò il vecchio brontolone e riattaccò. Anche lei era stata mandata “fuori dai piedi”, ai tempi in cui era solo un’apprendista. A Roy piaceva la compagnia, ma solo nei tempi e nei modi che gli facevano comodo.
“Pare che io e te dovremo lavorare insieme.” Esordì, cercando di rivolgere un sorriso amichevole al Pivello, e quello si illuminò come una lampadina.
“Sì, Signora. Il signor Crimmens parla molto bene di lei.”
“Oh, parla? Credevo che bestemmiasse soltanto.” Ribattè Stone, strappandogli un sorriso divertito. “E comunque lascia perdere il ‘Signora’. Non sono sposata e non sono un tuo superiore.”
“Oh.” Il Pivello la guardò perplesso. “E come dovrei chiamarla?”
“Con il mio nome.” La detective gli fece cenno di seguirla e si avviò lungo il corridoio, diretta all’ascensore. “E darmi del ‘tu’ non sarebbe poi così male.”
“Sì, Sign… ehm, Elizabeth.”
“Liz. Lo preferisco.”
“Liz. D’accordo.” Il Pivello le rivolse un sorriso disarmante. “Dove stiamo andando?”
Liz Stone entrò nell’ascensore, facendosi da parte per fargli spazio.
“Andiamo a mangiare. Anche i grandi detective hanno bisogno di riempirsi lo stomaco, di tanto in tanto.”
Il Pivello lanciò un’occhiata furtiva all’orologio e sollevò le sopracciglia. Evidentemente, le undici di mattina non si accordavano con la sua idea di pranzo.
“Ti do un consiglio: non farti mai vedere mentre guardi l’ora. Sembra che non aspetti altro che andartene.” Disse Stone, mantenendo un tono indifferente. “E presentati, quando incontri qualcuno, se non vuoi che ti chiamino Pivello.”
Quel commento lasciò il Pivello a bocca aperta per un istante. Mentre l’ascensore sobbalzava, cominciando la sua corsa, Liz Stone gli rivolse un ghigno cameratesco.
“Chiudi la bocca, se non vuoi che ci entrino le mosche.” Lo apostrofò. “E se non ti decidi a dirmi come ti chiami dovrò inventarmi un soprannome, e ti assicuro che non ti piacerebbe.”
Il Pivello la guardò sinceramente stupido, quindi le sue labbra si stirarono in un sorriso di scusa mentre l’ascensore si arrestava con un ding.
“Mi dispiace. Io sono Sean. Sean Parker.” Aggiunse velocemente, come se presentarsi solo con il nome fosse una mancanza di rispetto.
“Bene, Sean Parker.” Stone gli batté una mano sulla spalla ed uscì dall’ascensore, dirigendosi con passo sicuro verso la macchina. “Spero che tu sia pronto ad affrontare il miglior panino al tacchino di tutta la West Coast.”
Sean sorrise, affrettandosi dietro di lei.
“Sissignora… volevo dire, Liz.”



Il magazzino era immerso nella penombra, e sembrava vuoto.
Vuoto, come una scatola di cartone.
Vuoto, come una crisalide dopo la nascita della farfalla.
Vuoto, come il suo letto, senza la sua Liz.
Con la calma che gli era abituale, lui scese lentamente i gradini di metallo che conducevano nel ventre cavo del deposito. La vecchia scala arrugginita cigolava in maniera preoccupante, ed ogni suo passo risuonava come un colpo di fucile.
Mentre avanzava, fece scorrere lo sguardo lungo il perimetro delle mura. I suoi occhi individuarono almeno una dozzina di posti in cui un buon tiratore avrebbe potuto nascondersi. Ai vecchi tempi, quando ancora aveva la possibilità di comandare una divisione, avrebbe piazzato un uomo a guardia di ciascun punto. Nessuno avrebbe potuto muovere un muscolo, senza un suo ordine.
Ma quelli erano, appunto, i vecchi tempi. Tutto quello che poteva ordinare ora era la quantità di formaggio da mettere sulla pizza a domicilio.
Da qualche parte in mezzo alla penombra, dell’acqua gocciolava lentamente in terra. Ogni goccia emetteva un suono umido che echeggiava all’interno del magazzino vuoto, rimbalzando sulle vecchie pareti cadenti. Era un luogo inquietante ed un po’ deprimente, anche per i suoi canoni.
Un fruscio furtivo si aggiunse ai tenui rumori che risuonavano nel deposito, troppo sonoro perché si trattasse di un topo.
Una figuretta minuta comparve nell’angolo più buio, e lui si concesse un accenno di sorriso.
Molte persone credevano che il carcere servisse solo a dare vitto ed alloggio a dei delinquenti a spese dei contribuenti. In realtà, se si tenevano gli occhi e le orecchie aperte, il carcere era un luogo colmo di sapere.
Chiusi in cella, lui lo sapeva, si poteva venire a conoscenza di un sacco di cose.
Ad esempio, potevi imparare chi lavorava per la mafia e chi per il cartello della droga messicano. Chi era il più grosso spacciatore della città e chi invece aveva pestato i piedi a qualcuno di troppo.
Venivi a sapere chi era il prossimo pedofilo o stupratore che avrebbe ricevuto una “punizione” appena le guardie avessero voltato le spalle.
O ancora, chi era il miglior falsario in circolazione.
“Signor Jhon Smith?” Chiese una voce acuta, con un forte accento cantonese.
“Sono io.” Disse lui. Chissà quanti altri Jhon Smith, Abe Lincoln e Michael Jackson lo avevano preceduto. Gli sarebbe piaciuto potersi inventare un nome un po’ più originale, ma in fondo, se si vuole mantenere l’anonimato, a volte bisogna cadere nell’ovvio.
“In alto mani. Ha pistola?”
“No. Nessuna pistola.” Disse lui, alzando obbedientemente le braccia.
Da dietro al cinese emerse un altro asiatico più giovane e svelto, che si fece avanti e lo tastò rapidamente in cerca di armi.
Quando ebbe finito la sua perquisizione rivolse qualche parola in cantonese all’uomo più anziano e si fece da parte, incrociando le braccia.
Lui guardò il ragazzo e gli rivolse un cenno amichevole con il capo. Quel piccolo sbruffone gli stava già simpatico: si atteggiava come se fosse grande il doppio, e tre volte più imponente. A ben guardare, gli ricordava molto i due energumeni che ogni tanto presidiavano il suo appartamento.
“Ha soldi?” gli chiese ancora bruscamente il cinese più anziano.
Lui annuì, senza proferire parola.
“Tu da soldi. Io do questo.” Così dicendo, l’anziano sollevò un piccolo sacco di carta marrone dall’aspetto piuttosto pesante.
“Perché invece non invertiamo le cose?” Chiese lui, abbassando impercettibilmente le mani. “Tu mi dai il sacchetto e poi, se tutto è a posto, ti pago. Cosa ne dici?”
Il vecchio contrasse il viso grinzoso in una smorfia indispettita e pronunciò una lunga frase in cantonese. Quando ebbe finito il ragazzo annuì, facendosi avanti con aria minacciosa.
“Fermo.” Gli intimò lui, con lo stesso tono che impiegava un tempo per impartire ordini alle proprie truppe. Sentendo la nota autoritaria nella sua voce il giovane esitò, facendo saettare gli occhi verso il più vecchio.
L’anziano strinse i suoi occhietti malefici ed abbracciò il sacchetto di carta, impartendo un secondo ordine al ragazzo. Deglutendo, quello gonfiò il petto e fece qualche passo nella direzione dell’uomo alto e terribilmente calmo che aveva davanti.
“Non provarci.” Lo avvisò lui. La sua voce era divenuta improvvisamente fredda e tagliente come la lama di un rasoio, perdendo ogni traccia di bonarietà.
Il ragazzo esitò ancora, lanciò un’occhiata al vecchio ed estrasse una piccola semiautomatica da sotto la maglietta.
“Tu ora dai soldi.” Ordinò il vecchio, stringendosi il sacchetto al petto. “Prima soldi e poi carta.”
“Abbassa quella pistola.” Disse lui, ignorando l’anziano e rivolgendosi direttamente al più giovane.
“Non fare. Prendi soldi. Ora.”
“È l’ultimo avvertimento. Abbassa l’arma.”
“Prendi, ora.”
“Te l’avevo detto.”
E rapido come una serpe, l’uomo scattò in avanti.
Una sua mano si serrò sulla pistola deviando la sua traiettoria verso l’alto, mentre l’altra colpì con un pugno deciso il naso piatto del ragazzo.
Il giovanotto grugnì per la sorpresa ed il dolore, ma lui non si fermò. Veloce come se non avesse mai saltato un giorno di addestramento torse la mano con cui il giovane cinese reggeva la pistola, costringendolo a girarsi e bloccandolo in una morsa, stringendogli un braccio duro come l’acciaio attorno alla gola.
Prima che il ragazzo potesse rendersene conto, la sua arma aveva già cambiato proprietario e gli veniva puntata alla tempia.
“Dammi i documenti, vecchio.” Disse lui, in perfetto cinese cantonese. “Dammi i documenti e lo lascio andare.”
“No!” L’anziano si strinse il sacchetto al petto, ma ora le sue dita tremavano, ed aveva perduto tutta la sua sicurezza. “Non erano questi i patti.”
“I patti dicevano anche niente armi. Sei stato tu il primo a rompere l’accordo.” Lui strinse la presa sul collo del ragazzo, che cominciò ad annaspare emettendo dei gorgoglii rauchi. “Dammi i miei documenti ed avrai i soldi.”
Il vecchio cinese fece guizzare gli occhi dal viso paonazzo del giovane a quello serio ed impassibile dell’uomo, infine gli tese il piccolo sacco di carta bruna.
“Va bene. Prendilo, e lascia andare il ragazzo.”
“Appoggialo per terra ed allontanati.” Ordinò lui.
L’anziano obbedì ed indietreggiò rapidamente, gli occhi spalancati per la tensione.
Lui si avvicinò tranquillamente, sempre tenendo il giovane ben stretto nella morsa del suo braccio e sotto la minaccia della pistola. Appena giunse accanto al sacco posato in terra, lo liberò con uno spintone, mandandolo a ruzzolare sul cemento ai piedi del vecchio.
Tenendo i due cinesi sotto tiro, lui si chinò e raccolse l’involto di carta, studiandone il contenuto.
“Ne manca uno.” Decretò, sollevando gli occhi impassibili sui suoi bersagli.
“No!” Protestò l’anziano, mentre aiutava il ragazzo ad alzarsi. “Abbiamo fatto tutto come ci hai chiesto.”
Lui sollevò le sopracciglia, sospirando stancamente. Non gli piaceva quando qualcuno lo prendeva in giro.
Non gli piaceva affatto.
Con il pollice armò il cane, e lo scatto metallico rimbombò nell’involucro vuoto del magazzino. I due cinesi strinsero gli occhi ed incassarono la testa tra le spalle, aspettando lo sparo.
“Avete due giorni per farmi avere quello che mi spetta.” Cominciò lui, con la voce ferma di chi è abituato ad impartire ordini. “Avrete i soldi alla consegna. Nel frattempo questo lo tengo io.” Aggiunse, facendo un cenno con la testa verso il sacchetto di carta che reggeva nella mano sinistra.
A quelle parole, il vecchio assunse un’espressione rabbiosa e si fece avanti.
“No! Non è così che…”
“Ah-ah.” Lui spostò la mira sulla fronte dell’anziano, che subito si bloccò, terrorizzato dall’idea di finire lungo disteso con un proiettile in mezzo agli occhi. “Le cose stanno così. Prendere o lasciare.”
Le labbra del vecchio si piegarono all’ingiù in una linea severa, mentre il suo viso arrossiva per la rabbia impotente. Lui rimase in attesa, fissandolo con le sopracciglia sollevate e la pistola saldamente in pugno.
“Possiamo farlo.” Concesse l’anziano cinese, dopo un lungo istante.
“Molto bene.” Lui sorrise sollevato, abbassando l’arma verso il basso. “Era così difficile?”
Il vecchio borbottò qualcosa torcendosi un lembo della camicia tra i piccoli pugni. Non sembrava felice della piega degli eventi, ma avrebbe dovuto pensarci prima di cercare di ingannarlo.
“Molto bene. Noi fare quello che manca. Due giorni, poi tu torna e noi dare.” Decretò, tornando a parlare in inglese. Dietro di lui, il giovane aveva smesso di massaggiarsi il collo dolente, ed il suo viso stava riprendendo il solito colorito.
“Perfetto.” Acconsentì lui, abbandonando a sua volta la lingua cantonese. “Ma per evitare che proviate di nuovo a fregarmi, vi lascio un promemoria.” E sollevata di scatto la pistola esplose un colpo, che rimbombò assordante in tutto il magazzino.
L’urlo del ragazzo fu tale che avrebbe potuto richiamare gli abitanti di un intero quartiere, se solo ce ne fossero stati. Tenendosi la gamba, il giovane si accasciò a terra, gemendo tra le lacrime. Il vecchio strillò e corse ad inginocchiarsi al suo fianco, circondandolo con le braccia in un gesto protettivo.
Impassibile, lui estrasse il caricatore e scarrellò per espellere ogni eventuale bossolo in canna. Non gli facevano alcun effetto né le urla del giovane, né il sangue, né le lacrime che rigavano i volti dei due falsari. Aveva visto ben di peggio quando era ancora in servizio, e cose ancora più orribili quando gli era capitato di passare dall’infermeria della prigione.
“Non fare così.” Commentò, mentre gettava con noncuranza l’arma per terra. “Cosa sarà mai un proiettile nella gamba?”
“Tu!” Urlò l’anziano in cantonese, il volto contratto dalla preoccupazione e dalla rabbia. “Tu sei pazzo!”
Pazzo.
Dovevano essere tutti in combutta. I medici militari, i giudici, il suo psichiatra, e persino il vecchio Zhao. A pensarci bene, era piuttosto buffo.
Sistemandosi il sacchetto di carta sotto il braccio, lui scoppiò in una lunga risata divertita, che gli fece venire le lacrime agli occhi.
Quando finalmente riuscì a calmarsi sospirò, scuotendo piano la testa.
“Ti sbagli, vecchio.” Disse, sorridendo dolcemente. “Sono solo un uomo innamorato.”











Rieccomi qui, dopo una lunghissima assenza *apre l'ombrello per ripararsi dal lancio di pomodori*
Spero che l’attesa sia (anche solo parzialmente) ricompensata con questo capitolo. Se doveste trovare qualche imprecisione od erroraccio, non fatevi remore a segnalarmelo.
Un grazie di cuore a tutti coloro che mi seguono recensendo di volta in volta ed aiutandomi, con il loro sostegno, a proseguire con la storia.
Un abbraccio.
La Ise <3
 
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M'aiq il bugiardo
view post Posted on 4/6/2014, 16:46




M'aiq si sta divertendo ^_^ bel racconto! eheh
 
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29 replies since 29/7/2013, 14:30   541 views
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